Momenti storici del confine orientale
Spunti di riflessione a fronte della tragedia di tutto il popolo giuliano-dalmata

La storia italiana ha carattere complesso, che induce interpretazioni alternative di particolare frequenza, più difficili per alcune stagioni e per diversi territori, con specifico riguardo a quelli di confine, come nel caso di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia dove si è tradotta in un dramma epocale di lunga durata, dallo scorcio conclusivo dell’Ottocento al cosiddetto «secolo breve». Ciò, con riguardo prioritario ai conflitti mondiali che hanno colpito direttamente quelle regioni e al martirio delle sue millenarie città, suggellato dalla tragica scomparsa di tanti Italiani a seguito delle vicende belliche, dell’ostracismo austro-ungarico, e soprattutto della pulizia etnica programmata dalla Jugoslavia comunista.

Un caso emblematico è quello di Trieste, il capoluogo giuliano che fu dapprima romano, poi veneto e per lunghi secoli asburgico, ma la cui popolazione, pur caratterizzata dalla presenza di alcune etnie minori, è stata sempre italiana in larghissima maggioranza: già nel Cinquecento, il 97% degli abitanti parlava italiano. Dopo la grande Rivoluzione e la parentesi napoleonica che coincise con un breve ma importante periodo di dominio francese, il principio di nazionalità venne affermandosi in buona parte dell’Europa, a cominciare dall’Italia e dalle terre irredente giuliano-dalmate, dando luogo alla catarsi dell’Antico Regime, che il Congresso di Vienna (1815) aveva tentato vanamente di restaurare, ma i cui colpi di coda si sarebbero protratti per un intero secolo.

La Terza Guerra d’Indipendenza (1866) permise all’Italia di acquisire il Veneto e il Friuli, ma non la Venezia Giulia, nonostante il suo rinnovato «grido di dolore» udito fino a Torino. Ne conseguì un forte sviluppo dell’irredentismo democratico – segnatamente a Trieste, Gorizia e altre città istriane – che ne propugnava l’annessione all’Italia e che vide il martirio di molti patrioti, tra cui quello particolarmente significativo di Guglielmo Oberdan, processato dal Governo Asburgico, condannato a morte per una mera intenzione e impiccato il 20 dicembre 1882.

Con la Prima Guerra Mondiale (1915-1918) e il successivo trattato di pace la Venezia Giulia divenne finalmente italiana, assieme al Trentino Alto Adige. Diversa evoluzione ebbe Fiume, la cui appartenenza all’Italia fu statuita soltanto nel 1924, dopo il periodo della Reggenza dannunziana iniziato con la Marchia di Ronchi del 12 settembre 1919 e concluso col «Natale di sangue» del 1920; e dopo la successiva, velleitaria esperienza autonomista. Al contrario, la Dalmazia, che il Patto di Londra del 1915 aveva assegnato all’Italia in riconoscimento del suo impegno nella Grande Guerra a fianco degli Alleati Occidentali, rimase irredenta, con la sola eccezione di Zara.

Il Ventennio fascista coincise con una strategia di sviluppo e di investimenti che ebbe particolare intensità in Istria, ma anche di crescenti contrasti con la Jugoslavia, il nuovo Stato degli «Slavi del Sud» che era stato creato dalle Potenze vincitrici sulle ceneri dell’Impero Austro-Ungarico. Soltanto più tardi, i contrasti fra Roma e Belgrado, resi più aspri dal terrorismo delle Associazioni slave che propugnavano la «liberazione» (!) di Trieste, Gorizia e della stessa Fiume, furono temporaneamente elisi col patto d’amicizia del 1937, quando ebbe inizio un pur breve periodo di collaborazione, cessato non già con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1940) bensì col cambiamento di campo da parte della Jugoslavia nella primavera del 1941, e la conseguente apertura di un nuovo conflitto particolarmente cruento, caratterizzato dalla rapida sconfitta jugoslava, ma subito dopo, dalla lunga e feroce guerriglia partigiana.

Nei quattro anni di combattimenti, proseguiti fino al 1945, si ebbero manifestazioni di violenza indiscriminata nei confronti delle popolazioni civili e in particolare degli Italiani di Venezia Giulia e Dalmazia, che divennero intensamente sistematiche dal 1943 in poi, quando le sorti belliche erano diventate più favorevoli agli Alleati, con l’armistizio dell’8 settembre, la costituzione della Repubblica Sociale Italiana e lo scoppio della guerra civile. Dal canto suo, il Maresciallo Tito, comandante dei partigiani comunisti slavi, fu talmente abile da farsi riconoscere come unico rappresentante ufficiale della Jugoslavia (anche per le fallaci illusioni di Winston Churchill), esautorando il Governo Monarchico in esilio e le forze cetniche da cui era sostenuto in patria, pur non avendo fatto mistero di un disegno di pulizia etnica e politica suffragato dal comportamento dei suoi uomini, che «non prendevano prigionieri».

Alla fine della guerra, quasi tutta la Venezia Giulia venne perduta dall’Italia, costretta a firmare un trattato di pace (1947) caratterizzato da condizioni vessatorie e per molti aspetti decisamente inique, tanto da essere passato alla storia con la pertinente definizione di «diktat». Il prezzo più alto venne pagato dal popolo giuliano e dalmata che ebbe non meno di 16.500 vittime infoibate o diversamente massacrate (senza contare i caduti sul campo), come da ampie testimonianze e referenze bibliografiche, e che scelse la via dell’esilio pur di non diventare jugoslavo e comunista, e di non subire l’ateismo di Stato, il collettivismo forzoso e la condanna a morte programmata per tutti gli oppositori del regime, compresi quelli di etnia slava.

Circa 350.000 Italiani di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia abbandonarono la propria terra, i sepolcri degli avi e tutti i propri averi per una dolorosa diaspora in 110 campi di raccolta (alcuni dei quali rimasero in funzione per oltre 20 anni) dove le condizioni di sopravvivenza erano quanto meno grame, tanto che un quarto degli esuli, viste le infelici accoglienze ricevute in Italia, avrebbe optato per l’emigrazione in Paesi lontani, con riguardo prioritario a quelli extra-europei (Argentina, Australia, Canada, Stati Uniti).

Quanto alla prassi assunta per i massacri a danno del popolo giuliano, istriano e dalmata, la maggior parte delle vittime venne uccisa legandola e precipitandola nelle foibe, profonde cavità carsiche, ovvero con altri metodi sempre crudelmente efferati (annegamento, impiccagione, lapidazione, decapitazione), in genere dopo indicibili torture: chi cadeva con un colpo alla nuca o una scarica di mitra poteva dirsi paradossalmente fortunato! Non mancarono vere e proprie stragi, anche a lunga distanza da fine guerra: qui basti rammentare quella di Vergarolla (Pola) del 18 agosto 1946, in cui – a seguito dell’esplosione di 10 tonnellate di tritolo – persero la vita circa 110 Italiani, in larga maggioranza donne e bambini, nel quadro della pulizia etnica ordita dai luogotenenti di Tito tramite la struttura poliziesca del regime (la famigerata OZNA).

Su queste tristi pagine della storia italiana che illustrano un vero e proprio genocidio, come da precisa ricostruzione di Italo Gabrielli sulla scorta del giurista polacco Raphael Lemkin, è scesa per parecchi decenni una colpevole cortina di silenzio dovuta a chiari interessi politici ed economici, ed elisa solo in parte dalla Legge 30 marzo 2004 numero 92 che ha istituito il «Giorno del Ricordo» fissandolo nel 10 febbraio di ogni anno, col vincolo di celebrarlo adeguatamente in specie nelle scuole di ogni ordine e grado, e con l’istituzione di un’apposita onorificenza da richiedersi a cura dei congiunti delle vittime.

Nondimeno, tale ricorrenza, che il legislatore aveva scelto in quanto corrispondente alla data dell’infausto trattato di pace, ha finito per diventare una semplice occasione rituale, non senza ricorrenti opposizioni immotivate, in specie a iniziativa partigiana, mentre sono rimasti inamovibili gli errori della politica estera italiana, quali gli Accordi di Osimo del 1975, con la definitiva rinuncia alla Zona «B» dell’ex Territorio Libero di Trieste (Istria Nord-Occidentale) avvenuta in favore della Jugoslavia di Tito senza contropartite; il riconoscimento parimenti gratuito delle nuove Repubbliche di Croazia e Slovenia all’inizio degli anni Novanta; e infine, nel corso del nuovo millennio, il nulla osta incondizionato (diversamente da quello di altri Stati) al loro ingresso nella Casa comune europea. Come da recente testimonianza dell’Ambasciatore Gianfranco Giorgolo, ne emergono riflessioni malinconiche ma certamente non infondate, sulla tradizionale vocazione dell’Italia «sempre maestra nel fare gli interessi degli altri».

(luglio 2019)

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