Giuseppe Pella
Un patriota di alto spessore morale che fu preposto alla guida dal Governo Italiano durante la crisi di Trieste (1953). Riflessioni a un settantennio dai fatti e spunti di permanente attualità

La vita politica italiana propone alla comune attenzione l’esempio di alcuni protagonisti oggettivamente rari che si sono distinti per avere coniugato in modo esemplare la nobiltà del sentimento con la forza dell’azione, nell’ambito di una sintesi spesso difficile ma proprio per questo degna di attenzione, se non altro come permanente paradigma di riferimento. Uno di questi protagonisti della grande storia nazionale è stato Giuseppe Pella[1], lo statista piemontese che fu attore di primo piano sullo scenario politico del Bel Paese nel trentennio compreso fra il 1945 e la metà degli anni Settanta, affidando alle valutazioni dei posteri un’esperienza certamente originale, anche dal punto di vista dei «valori non negoziabili» che seppe interpretare con fermezza, alla luce di ideali degni del migliore Risorgimento.

Fedele interprete del rigore con cui il «vecchio Piemonte» aveva gestito lo Stato appena sorto dalle Guerre d’Indipendenza e dal sangue dei patrioti, Pella ha trovato comune rispetto per la continuità di questo impegno nella conduzione della cosa pubblica durante i lunghi anni che intercorrono tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio di una nuova stagione contrassegnata dalla difficile ricerca di nuovi equilibri, resa più ardua dalle ricorrenti gesta di un terrorismo tanto sconcertante quanto velleitario. Eppure, il nome di Pella resta legato soprattutto al semestre di gestione del suo Governo, rimasto in carica dal luglio 1953 al gennaio 1954: un Governo che, voluto dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi dopo i fallimenti altrui, avrebbe dovuto essere di transizione, tanto più che si trattava di un monocolore democristiano sorto sulle ceneri della cosiddetta «legge truffa» che aveva caratterizzato il dibattito elettorale per le consultazioni politiche del 7 giugno, e la sconfitta del programma maggioritario perseguito da Alcide De Gasperi e dai suoi alleati.

Invece, non appena entrato in carica, Pella si trovò ad affrontare un momento politico tra i peggiori del dopoguerra, per effetto precipuo della nuova crisi italo-jugoslava, manifestatasi in tutta la sua virulenza a pochi giorni di distanza dal voto di fiducia che la Democrazia Cristiana aveva ottenuto con l’appoggio decisivo, seppure esterno, del Partito Nazionale Monarchico e del Partito Liberale. Tito, verosimilmente galvanizzato dalle difficoltà che il voto di giugno aveva introdotto in Italia, colse l’occasione per avanzare nuove pretese su Trieste, ancora in mano all’occupazione alleata presieduta dal Generale John Winterton, il quale non faceva mistero delle sue antipatie per il patriottismo largamente maggioritario della cittadinanza. Non aveva fatto i conti con Pella, che diversamente dai suoi predecessori avrebbe reagito con inusitata fermezza portando navi da guerra a Venezia e contingenti dell’esercito presso il confine giuliano, non senza ottenere un buon successo diplomatico nel convincere gli Ambasciatori di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia ad avallare le sue determinazioni.

Dopo uno scambio di note non propriamente amichevoli fra Belgrado e Roma, il 6 settembre lo stesso Tito, presiedendo l’adunata di Okroglica (Sambasso) presso il confine goriziano, avrebbe ribadito la protesta chiedendo l’internazionalizzazione di Trieste, il ritiro delle truppe italiane, e nuove annessioni nel retroterra del cosiddetto Territorio Libero di Trieste facendosi forte, tra l’altro, delle conclamate «simpatie» offerte dalla Sinistra italiana.

Il Governo Pella aveva problemi anche sullo scacchiere interno, dovendo misurarsi con lo sciopero generale proclamato da CGIL, CISL e UIL per la definizione del salario minimo, e con i prodromi della scissione monarchica dovuta ai crescenti contrasti tra Alfredo Covelli e Achille Lauro. Peggio che mai, il 27 settembre nasceva ufficialmente a Belgirate la «Sinistra Democrazia Cristiana» con le correnti di Base e di Forze Nuove, anche se l’indomani il Consiglio nazionale del partito di governo avrebbe rinnovato la solidarietà a Pella, ma eleggendo De Gasperi, sempre critico nei suoi confronti, quale nuovo Segretario politico.

Il 6 ottobre fu votato a maggioranza un ordine del giorno per la tutela dei diritti italiani nel Territorio Libero di Trieste, e due giorni dopo fu divulgata la celebre Dichiarazione anglo-americana secondo cui Stati Uniti e Gran Bretagna affermavano di voler porre termine alla loro amministrazione della Zona «A» dello stesso Territorio Libero di Trieste, comprensiva del capoluogo, per restituirla all’Italia. La risposta di Tito non si fece attendere, traducendosi in un nuovo, forte ammassamento di truppe presso il confine, e l’Italia si astenne dal replicare, anche se il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Efisio Marras, aveva invitato il Governo a rinforzare la frontiera. Pella scelse di recarsi in forma solenne al Sacrario di Redipuglia per la tradizionale cerimonia del 4 Novembre, anniversario della Vittoria nella Grande Guerra, mentre a Trieste scoppiavano scontri fra gli Italiani e le forze di occupazione, culminati nei giorni seguenti con la reazione indiscriminata dei cosiddetti «cerini», che non esitarono a sparare sulla folla provocando l’olocausto di sei Italiani, in maggioranza giovani se non anche giovanissimi, al cui proposito fu coniata la pertinente definizione di «ultimi patrioti del Risorgimento Caduti per la Patria»[2]. Il Presidente del Consiglio avrebbe voluto recarsi a Trieste per partecipare ai solenni funerali delle vittime, ma ebbe un divieto categorico da parte del Governatore Winterton: l’aria era cambiata, tanto più che Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia si fecero promotori di una conferenza a cinque, con Italia e Jugoslavia quali parti in causa. Ai primi di dicembre, entrambe iniziarono il ritiro delle rispettive forze armate.

Difficoltà non meno rilevanti sorgevano nel fronte interno: pochi giorni dopo Pella fu messo in minoranza da un voto parlamentare in tema di amnistia, mentre il 18 dicembre, in un intervento su «La Discussione», De Gasperi avrebbe criticato il Presidente del Consiglio per la gestione della politica estera; nel frattempo si rincorrevano le voci di un rimpasto che, fra l’altro, avrebbe potuto destinare agli Esteri il medesimo De Gasperi. Ne ebbe origine la bozza di un possibile Ministero Pella II che peraltro fu travolta dagli eventi: il 5 gennaio, i Gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana trassero il dado, esprimendo voto contrario[3] e provocando le dimissioni del Governo, cui sarebbe subentrato un altro monocolore democristiano, quello di Fanfani.

Questo breve excursus degli eventi dimostra con tutta chiarezza che il Governo Pella ebbe vita breve, non tanto per l’atteggiamento negazionista e violento di Tito, e nemmeno per quello possibilista degli Alleati Occidentali, che alla fine condusse al ritorno dei Bersaglieri nella città di San Giusto, sopraggiunto nell’ottobre di quello stesso 1954. Al contrario, Pella cadde per l’ostracismo del suo stesso partito, camuffato da generiche espressioni di solidarietà ma improntato alla deliberata volontà di non disturbare eccessivamente il coriaceo vicino di Belgrado e le sue prime avvisaglie di possibili simpatie occidentali, oltre a quella di non disattendere le scelte anglo-americane, che non avevano fatto mistero della volontà di chiudere rapidamente il contenzioso triestino, a costo di sacrificare la Zona «B», magari con qualche «aggiunta» destinata a placare almeno temporaneamente le ire di Tito, come poi accadde puntualmente con le cessioni supplementari di Albaro Vescovà, Crevatini e qualche altro villaggio.

L’apporto di Pella alla causa giuliana e istriana fu breve come il suo Governo ma ebbe un ruolo comunque importante, perché fu decisivo nel portare a conclusione, se non altro, il ripristino dell’amministrazione civile italiana nel capoluogo triestino, e per dimostrare che un’inversione nella politica estera italiana non era puramente utopistica, pur dovendo confrontarsi con crescenti simpatie della Sinistra democristiana, e non solo di essa, per le forze politiche di democrazia laica a matrice socialista. Oltre ogni dubbio, nella circostanza ebbero carattere decisivo, per il predetto apporto alle attese del mondo esule, gli atteggiamenti di ritrovato coraggio assunti nei confronti di Tito; gli spunti positivi che si sarebbero diffusi nelle forze di Centro-Destra circa le conseguenze parzialmente positive che ne furono indotte; e soprattutto, la virtù maieutica con cui ne scaturirono decisioni meno attendiste da parte degli Alleati. Trascorsi settant’anni dai fatti, queste considerazioni oggettive sono utili a rimuovere anacronistiche resipiscenze da giudizi antistorici su Pella, alla luce di valutazioni che non possono conciliarsi con la sua probità morale e con il suo vivo senso della liceità politica, nei limiti come nelle prerogative che le competono.

Al Presidente Pella pervenne un aiuto certamente importante dall’esperienza politica già acquisita dal 1945 in poi; dalla consapevolezza di dover gestire una situazione oggettivamente difficile calibrando al meglio le esigenze del «nobile sentire» e del «forte agire» in una sinergia complessa ma funzionale; e non per ultimo, dal fatto di non avere abbracciato alcuna corrente della Democrazia Cristiana, cosa che avrebbe fatto soltanto in tempi successivi con l’adesione a quella di Andreotti, pur conservando una linea di relativa autonomia, e alla fine, di un sostanziale notabilato. In buona sostanza, Pella è stato un personaggio di spicco nella vicenda politica italiana, con riguardo prioritario ma non certo esclusivo a quella di Trieste, per avere preso nette distanze dalla posizione ufficiale del suo partito, con una coerenza correttamente confermata da una documentata storiografia, nell’ambito di giudizi più maturi e sostanzialmente definitivi: ne emerge la figura di un patriota d’altri tempi che seppe anteporre l’interesse generale a quelli di parte, politici o personali che fossero.

Come lo avrebbe potuto definire l’antico Poeta, fu «uomo di multiforme ingegno» costretto a misurarsi con l’avversa fortuna come il saggio di Seneca, ma non per questo meno idoneo a governare le «magnifiche sorti e progressive» con l’intuito della grande politica, e soprattutto, con l’ecceità che proviene dalla sicura fede nell’«ethos».


Note

1 Giuseppe Pella (Valdengo 18 aprile 1902-Roma 31 maggio 1981), 20° Presidente del Consiglio nella storia dell’Italia Repubblicana, è stato un uomo politico di alto spessore morale, appartenente alla Democrazia Cristiana, ma con esperienze di alto valore patriottico, certamente superiori a quelle ravvisabili, in linea generale, durante la sua epoca. Dopo la laurea in Economia (tra i docenti più illustri aveva avuto Luigi Einaudi, poi destinato alla suprema magistratura dello Stato quale Presidente della Repubblica) era stato docente nelle Università di Roma e Torino sviluppando forti convincimenti di attenzione monetarista non senza preferenze per una logica di bilancio in equilibrio, conforme a quella perseguita un secolo prima da un altro grande statista piemontese, Quintino Sella. Diversamente da altri esponenti della Democrazia Cristiana, pervenne alla politica attiva soltanto nel 1945, quando aveva raggiunto i 43 anni d’età, ma si distinse subito per il rifiuto della diffusa prassi correntizia e dei conseguenti dissidi: in riconoscimento delle competenze acquisite fu Sottosegretario nel secondo Gabinetto De Gasperi e Ministro delle Finanze nel quarto, prime esperienze di una brillante carriera che lo avrebbe visto per quindici volte titolare di un Dicastero, undici volte membro di Commissioni parlamentari, Vice Presidente del Consiglio nel Governo Zoli, rappresentante italiano nell’Assemblea della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) e via dicendo. Era stato eletto Deputato dell’Assemblea Costituente (1946-1948), poi per un ventennio alla Camera (1948-1968) e infine per altri mandati al Senato della Repubblica (1968-1976). Tenne sempre nel massimo conto un esemplare rigore amministrativo: non a caso, avrebbe suscitato lo stupore di taluni esperti del «Piano Marshall» sconcertati per il mancato utilizzo parziale dei fondi a vantaggio della spesa pubblica, e per la priorità conferita alla stabilizzazione del bilancio. Dall’agosto 1953 al gennaio 1954 guidò il Governo monocolore che gli avrebbe dato massima notorietà non soltanto in Italia, assumendo anche la titolarità degli Esteri e del Bilancio, e avvalendosi della collaborazione di parecchi «cavalli di razza» della Democrazia Cristiana fra cui Fanfani agli Interni, Segni all’Istruzione, Taviani alla Difesa, Vanoni alle Finanze e Tambroni alla Marina Mercantile, senza dire di alcuni «tecnici» di comprovato valore, come Azara alla Giustizia e Scoca alla Riforma Burocratica. Quello di Pella avrebbe dovuto essere un Governo «provvisorio» dopo la crisi che aveva visto cadere il Gabinetto De Gasperi e il successivo insuccesso di Piccioni, potendo contare su una maggioranza limitata, oltre che alla stessa Democrazia Cristiana, ai soli monarchici, liberali e alto-atesini della SVP. La mano ferma con cui diresse il suo Ministero durante la crisi di Trieste, culminata nei tragici fatti di novembre, gli valse l’appoggio integrativo del Movimento Sociale Italiano non disgiunto da forti accuse di nazionalismo pervenute dal Partito Comunista Italiano e in misura meno virulenta dai socialisti. Soprattutto, fu decisiva la crescente freddezza di una Democrazia Cristiana pesantemente condizionata dalle correnti di Sinistra e soprattutto dagli atteggiamenti filo-jugoslavi di Washington e di Londra, tanto da costringerlo a gettare la spugna dopo un solo semestre, pur avendo con sé una parte potenzialmente maggioritaria della pubblica opinione. Nondimeno, rimase fedele al partito, aderendo al gruppo politico di Andreotti: in tale ottica, fu contrario alla politica di «apertura a Sinistra» promossa da Fanfani e dai «Giovani Turchi», collocandosi su posizioni di sostanziale notabilato ma tornando alla ribalta in varie occasioni, tra cui il primo Governo Andreotti (1972). Fra i momenti di maggiore visibilità anche a livello internazionale si possono ricordare il viaggio a Teheran col Presidente della Repubblica Gronchi e con Enrico Mattei (1957); il richiamo dell’Ambasciatore Italiano a Budapest quale protesta per la pena di morte comminata a Imre Nagy e agli altri patrioti ungheresi della gloriosa Rivoluzione (1958); la partecipazione al Consiglio Atlantico di Washington per il problema di Berlino (1959); gli incontri – assieme a Segni – col Presidente Statunitense Eisenhower e il Presidente Francese De Gaulle circa le relazioni con l’Unione Sovietica dopo l’avvento di Kruscev e l’avviamento della cosiddetta politica di pur cauta «destalinizzazione».
A parte l’esperienza politica, Pella fu anche Presidente dell’ANIA (Associazione Nazionale delle Imprese Assicuratrici), dapprima con incarico effettivo, e infine onorario. Oggi, è ricordato massimamente nella storiografia del periodo, con giudizi in maggioranza positivi, non senza ragguardevoli memorie pubbliche anche in toponomastica, fra cui quelle di Roma e di Biella.

2 Il bilancio delle vittime fu particolarmente grave, perché si contarono sei caduti e 153 feriti, senza dire di una quarantina di arresti a opera del Governo Militare Alleato. Il 5 novembre il piombo inglese uccise il quindicenne Piero Addobbati, della Giunta d’Intesa Studentesca, e il marittimo Antonio Zavadil, mentre l’indomani si aggiunsero Leonardo «Nardin» Manzi, studente sedicenne esule da Fiume, scomparso appena ricoverato in ospedale, al grido di «Viva l’Italia»; il ventiquattrenne universitario Francesco Paglia, colpito al petto durante uno scontro ravvicinato con la polizia di John Winterton; il cinquantenne Antonio Bassa, attivista del Movimento Sociale Italiano; e un vecchio esponente della lotta partigiana come Saverio Montano (una settima vittima, Stelio Orciuolo, scomparve dopo un anno di sofferenze a seguito delle ferite riportate negli scontri). Il riferimento a questi caduti quale ultima espressione di quelli risorgimentali appartiene al Presidente della Federazione Grigioverde di Trieste, Generale Riccardo Basile, Cronologia essenziale della storia d’Italia e delle terre giulie al confine orientale, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2010, pagina 89. L’eco dei fatti di Trieste fu vastissima in tutto il territorio nazionale, seguita da iniziative a carattere non solo celebrativo: a esempio, a Firenze ebbe vita un’Associazione studentesca intitolata a Piero Addobbati, presieduta da Uberto Bartolini Salimbeni, che avrebbe operato per qualche anno con un programma d’informazione oggettiva a tutto campo improntata a un beninteso patriottismo. Maggiori notizie storiche a carattere locale sono disponibili in: Pietro Comelli e Andrea Vezzà, Trieste a Destra, con prefazione di Giuseppe Parlato, Trieste Stampa 2015, 440 pagine. Sugli aspetti e problemi generali, in specie di carattere internazionale, è sempre di fondamentale importanza l’opera di Massimo de Leonardis, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992, 540 pagine. La cospicua bibliografia prevalente è concorde, per quanto riguarda il ruolo del Presidente Pella, nel riconoscergli, se non altro, una capacità specifica di richiamare l’attenzione generale sulle questioni di Trieste e del confine orientale, che si può definire ragionevolmente maieutica, anche per gli effetti a medio e lungo termine, compresi quelli tuttora permanenti nella linea del confine orientale.

3 Causa strumentale e scatenante delle dimissioni fu il veto imposto dai Gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana alla nomina di Salvatore Aldisio a Ministro dell’Agricoltura nell’ambito del rimpasto governativo che avrebbe dovuto presiedere alla trasformazione del Gabinetto da «provvisorio» a politico (confronta Massimo de Leonardis, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992, pagina 394) ma sta di fatto che il Governo aveva già dovuto subire le critiche di alcuni massimi esponenti democristiani, quali Scelba e lo stesso De Gasperi, nell’ambito di un ripensamento del centrismo che avrebbe condotto il partito di maggioranza ad archiviare ogni possibile ulteriore suggestione di Centro-Destra, avviando l’opzione opposta. D’altro canto, sulla questione di Trieste la scelta di una soluzione compromissoria che avrebbe comportato la rinuncia alla Zona «B» imposta in via di fatto nel 1954 e codificata definitivamente nel trattato di Osimo del 1975, traeva spunto prioritario non tanto da questioni di politica interna comunque rilevanti, quanto dall’opportunità di non ostacolare la disponibilità degli Alleati a chiudere in fretta il contenzioso. Ciò, promuovendo una sorta di compromesso forzato con Tito, la cui posizione, diversamente da quanto sarebbe palesemente accaduto al tempo di Osimo, era pur sempre di oggettiva prevalenza su quella italiana, che stava tuttora scontando il disastro del 1945, e quello non meno amaro dell’iniquo trattato di pace.

(novembre 2022)

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