Esodo e foibe: il caso di Gerlando Vasile
Senso storico e significato della storia

Alessandro Manzoni, nell’incipit del suo grande romanzo, aveva affermato che la storia «si può veramente definire una guerra illustre contro il tempo». L’asserzione può sembrare originale ma è senz’altro pertinente, ed in quanto tale da condividere nella misura in cui suggerisce l’idea di eventi, uomini e valori che è cosa buona e giusta consegnare a memoria futura, onde gli ignari apprendano e gli altri vogliano ricordare consapevolmente: un popolo senza memoria non ha nemmeno futuro.

In questo senso, la storia del grande Esodo giuliano e dalmata, di una tragedia epocale come quella delle foibe, e di tutte le «complesse tristi vicende del confine orientale», deve considerarsi emblematica.

Non a caso, la volontà politica italiana, approvando quasi all’unanimità la Legge 30 marzo 2004 numero 92 (i voti contrari alla Camera furono solo 15 mentre i suffragi del Senato ebbero carattere unanime) e poi confermandola integralmente nella parte con validità decennale scaduta nel 2014, ha voluto codificare l’esigenza di un «Ricordo» che, naturalmente, non si riduce alla ripetizione di un rito sia pure suggestivo e doveroso, ma intende promuovere la cultura storica, e prima ancora etica, circa un momento fondante di Stato e Nazione nella loro attuale sintesi istituzionale, civile e patriottica.

Il significato di quella storia è sottolineare che «siamo quelli che siamo» anche per il contributo di fede e di speranza che in un’epoca plumbea per le sorti di un grande Paese venne dato, in modo totalmente gratuito, da un intero popolo senza colpe ma dal cuore profondamente italiano, che scelse di lasciare in modo plebiscitario la terra nativa. Ciò, in sicuro ossequio – appunto – alla propria fede, alla propria nazionalità ed ai valori per cui si erano immolati non meno di 20.000 martiri: quelli che l’usurpatore aveva precipitato nell’atroce fine della foiba, od altrimenti massacrato con sistemi non meno agghiaccianti, dall’annegamento all’impiccagione e persino alla lapidazione.

Proprio per questo, le testimonianze hanno il significato di documenti fondamentali, destinati ad arricchire la storiografia alla luce di tristi esperienze dirette, la cui quantificazione è diventata un fattore inoppugnabile, se non altro per essersi diffusa in modo unitario, impegnando l’apporto della componente istriana o triestina, come di quelle dalmata o fiumana. Oggi, la bibliografia delle testimonianze non è meno importante di quella storica nel senso stretto del termine, ed anzi la integra con un ruolo mai complementare e con una valenza morale di alto spessore.

Taluni apporti sono stati perduti perché le troppe vittime non hanno voce, o più semplicemente, perché taluni superstiti ed eredi, sopraffatti dal dolore e dall’ostracismo altrui, hanno preferito chiudersi nella torre d’avorio di una dignitosa sofferenza silenziosa. Nondimeno, è fondamentale che tanti altri abbiano parlato, portando le prove di quello che, come da lucida diagnosi di Italo Gabrielli, fu un vero e proprio genocidio[1].

Fra queste testimonianze, un ruolo importante compete a quelle di chi perse un proprio congiunto nella mattanza perpetrata dalle milizie di Tito a guerra finita, come nel caso di Rosa Vasile, il cui padre Gerlando, semplice servitore dello stato presso la Questura di Fiume, venne sequestrato dai partigiani slavi giunti in città il 2 maggio 1945, ed avviato ad un tragico destino assieme a parecchie decine di colleghi, che al pari di lui «non avevano mai fatto male ad anima viva». In effetti, molti vennero fucilati poco dopo a Grobnico, nell’immediato retroterra del capoluogo quarnerino, mentre altri (una minoranza) scomparvero fra sevizie ed angherie di ogni genere nei campi di prigionia della Repubblica Federativa.

All’epoca, Rosa Vasile era ancora una bambina di 11 anni, ma ha conservato ricordi indelebili di quella tragedia e del successivo Esodo assieme alla mamma ed a cinque fratelli: ricordi precisi e sempre toccanti, oltre che di significativo rilievo storiografico, e riproposti in forma esaustiva nell’organo semestrale della Società di Studi Fiumani[2].

Gerlando Vasile aveva collaborato con il Commissario Giovanni Palatucci durante il periodo in cui gli venne conferita la reggenza della Questura, ed aveva potuto apprezzare le doti di profonda umanità che ne avrebbero fatto un eroe in odore di santità, fino al punto di essere riconosciuto ufficialmente quale «Giusto fra le Nazioni» da parte dello Stato d’Israele[3]; e si era ispirato al nobile esempio di cui il medesimo Palatucci si rendeva costante protagonista.

È quindi comprensibile che Vasile non avesse accolto i consigli di quanti lo esortavano a partire prima che avvenisse l’ineluttabile, e cioè che le forze di Tito conquistassero anche Fiume: ciò, nella logica presunzione che non avendo colpe di cui rispondere, nessuno avrebbe potuto fargli del male. Fu un tragico errore, pagato a prezzo della vita da lui e da tanti Italiani come lui, «colpevoli» del solo delitto di avere servito lo Stato e di avere amato la Patria.

Rosa Vasile ha ricordato con lo stesso strazio di allora l’ultima immagine del padre dietro le sbarre di una finestra della prigione di Via Roma, mentre rispondeva con una mano al grido di dolore della moglie e della figlia che erano andate a cercarlo; non senza rivivere con analoga angoscia la ruvida e quasi brutale accoglienza che le venne riservata da una «guardia del popolo» quando si era nuovamente presentata in guardina alla ricerca di informazioni.

Poi più nulla, all’infuori di due labili notizie mutuate da chi aveva udito le grida degli sventurati quando vennero tratti dalla prigione ed avviati verso un destino infausto, e da chi, dopo qualche settimana, disse di avere visto Gerlando Vasile in un «lager» di Tito, ormai ridotto in condizioni terribilmente pietose: informazione, quest’ultima, che diede luogo ad inutili speranze e contribuì a protrarre la data della partenza per l’esilio di tutta la famiglia Vasile, avvenuta nel marzo 1946 con un allucinante viaggio verso Palermo, durato ben 15 giorni[4].

Al pari di quanto accadde a tanti altri, soprattutto nel Nord, l’accoglienza non fu delle migliori (come accadde a Bologna al passaggio dei treni che trasportavano i profughi con il loro carico di dolore, od allo sbarco degli Esuli da Pola nei porti di Ancona e Venezia, dove vennero dileggiati dalla folle presunzione comunista secondo cui sarebbero stati «fascisti della peggiore specie» in fuga dal paradiso di Tito). Nondimeno, nel caso di specie, una volta a destinazione talune attenzioni furono più comprensive, come quelle avute da Rosa Vasile in ambiente scolastico.

La protagonista di questa storia, nel corso degli anni, ha promosso il ricordo dei caduti, ed in primo luogo del padre Gerlando, con un esemplare senso dei valori civili e patriottici per cui questi aveva dato la vita; tra l’altro, con l’intitolazione a suo nome della Biblioteca di Siculiana (Agrigento), il Comune che gli diede i natali. Nondimeno, avverte tuttora lo strazio supplementare di non avere alcuna notizia circa il modo, il tempo, e soprattutto il luogo in cui si era compiuto il destino paterno, con il triste corollario di non potervi portare nemmeno una preghiera ed un fiore. Del resto, da parte jugoslava prima, e croata poi, le collaborazioni in tal senso richieste sono rimaste regolarmente senza seguito, al pari di quanto è accaduto per il Senatore Riccardo Gigante[5] e tanti altri martiri fiumani.

Si deve condividere l’impegno di Rosa Vasile, e quello di parecchi congiunti delle vittime nelle sue stesse condizioni, per non lasciare alcunché d’intentato circa l’imperativo di ricordare in modo davvero compiuto[6]: non già, come spesso si sente ripetere, perché fatti come quelli occorsi alla sua famiglia ed a tanti Esuli giuliani e dalmati «non abbiano più a ripetersi» quanto per trasmettere a tutti il senso dei valori umani e civili, assolutamente non negoziabili, che è doveroso tutelare in onore dei caduti; e soprattutto per non disattendere la fede, la speranza e l’ethos che il sacrificio di questi autentici martiri continua ad alimentare perennemente.


Note

1 Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati, Genocidio programmato, Udine 2011. La definizione di «Genocidio» di cui alla dottrina giuridica di Raphael Lemkin è certamente applicabile anche nel caso specifico.

2 Storia orale: testimonianze e memorie, a cura di Emiliano Loria, in «Fiume», Rivista di Studi Adriatici, anno XXXIII, gennaio-giugno 2013, pagine 119-134.

3 L’alta onorificenza israeliana venne conferita al Commissario Palatucci (poi arrestato dalla Gestapo e scomparso a Dachau il 10 febbraio 1945) quale riconoscimento postumo della grande opera svolta per salvare tanti Ebrei.

4 L’ampia distruzione del sistema ferroviario causata dalla guerra imponeva una lunga serie di ritardi e deviazioni, oltre al viaggio in carri merci, spesso senza copertura.

5 Il Senatore Riccardo Gigante, torturato ed ucciso assieme al Senatore Ipparco Baccich ed altri patrioti, è sepolto in una fossa comune presso Castua, ma non è stato ancora possibile effettuarne la traslazione: a perenne memoria, resta l’Arca vuota del Vittoriale, accanto a quella del Comandante Gabriele d’Annunzio.

6 La citata testimonianza di Rosa Vasile si estende al fratello maggiore, mutilato di guerra, che sulla via dell’esilio venne arrestato in Romagna dai partigiani italiani: costoro lo processarono e lo condannarono ad una lunga detenzione perché «colpevole» di essersi schierato dalla parte «sbagliata».

(novembre 2017)

Tag: Laura Brussi, Gerlando Vasile, Rosa Vasile, Alessandro Manzoni, Josip Broz detto Tito, Società di Studi Fiumani, Giovanni Palatucci, Riccardo Gigante, Ipparco Baccich, Italo Gabrielli, Raphael Lemkin, Emiliano Loria, Gabriele d’Annunzio.