Esodo istriano e cultura della cooperazione
La proposta di Vieste per l’accoglienza
degli esuli (1947)
Il 18 aprile 1947, a due mesi dall’iniquo trattato di pace del 10 febbraio con cui l’Italia aveva ceduto alla Jugoslavia buona parte della Venezia Giulia, tutta la Dalmazia e Fiume, il grande Esodo dei 350.000 si era in larga misura compiuto, simboleggiato pochi giorni prima dall’ultimo viaggio delle navi che avevano trasferito ad Ancona, Venezia e Trieste il dolente popolo di Pola, protagonista di una scelta plebiscitaria per la vita, e per i valori cristiani e civili della millenaria tradizione adriatica.
Quel giorno, il Consiglio comunale di Vieste, la nobile città del Gargano, legata all’altra sponda dell’Amarissimo da vincoli secolari di amicizia e di cooperazione, volle approvare una delibera con cui, accogliendo anche i voti delle comunità contigue, si stabiliva di mettere a disposizione dei profughi i terreni per costruire una «Nuova Pola» onde i fratelli esuli «possano affacciarsi su quel mare da dove incomprensione e ingiustizia li hanno cacciati».
L’iniziativa non ebbe seguito, al pari di altre ipotesi informali che erano state adombrate per il Trentino e per la Sardegna, perché il Governo Italiano e gli stessi Alleati non consideravano con favore soluzioni capaci di salvaguardare l’unità dei profughi istriani, giuliani e dalmati, tanto da promuoverne la distribuzione, in condizioni allucinanti, nei 110 campi di raccolta distribuiti in tutto il territorio nazionale, alcuni dei quali avrebbero perpetuato il dolore e lo sradicamento degli esuli sino al termine degli anni Sessanta.
Nondimeno, il gesto della Municipalità viestana, rimasto unico in Italia, ebbe un altissimo significato etico, che il Comune ha voluto giustamente onorare nell’ambito delle celebrazioni proposte dalla Legge 30 marzo 2004 numero 92, con una toccante lapide scoperta a futura memoria nel «Giorno del Ricordo» durante una grande manifestazione pubblica, presenziata da una moltitudine di docenti e giovani delle scuole medie e superiori, «affinché mai si dimentichi l’alto eroismo di chi lottò perché Italiano voleva restare».
Altrove, l’accoglienza riservata ai profughi non fu delle migliori, come accadde ad Ancona, Bologna e Venezia, dove furono oggetto di reiterati comportamenti offensivi, orchestrati da chi intendeva ravvisare, del tutto strumentalmente, contenuti di reazione «fascista» in un popolo che non aveva voluto accettare il «Paradiso di Tito» a costo di sacrificare affetti, memorie e beni personali. In Liguria, durante la campagna elettorale del 1948, accadde anche di peggio, quando i candidati comunisti assimilarono «i banditi giuliani» al famoso bandito Salvatore Giuliano che aveva infestato la Sicilia con le sue gesta criminali: non ebbero successo, perché il responso delle urne ebbe esiti catastrofici per il Fronte Popolare.
Anche per questo, l’esempio di Vieste merita di essere conosciuto ed apprezzato per i valori di civile accoglienza che seppe esprimere in un momento storico tanto arduo, se non altro per la difficoltà di ricostruire il patrimonio edilizio distrutto dalla guerra e di gestire l’emergenza alloggi. In effetti, la delibera del 18 aprile 1947 ha lasciato più di una traccia significativa nella memoria storiografica[1], ma il fatto che ora sia stata oggetto di un’informazione più diffusa «coram populo» ad ampio spettro, è certamente commendevole.
Vieste è una città che ha sofferto in maniera durissima vessazioni e persecuzioni agghiaccianti, di provenienza orientale, assimilabili alla tragedia delle foibe da cui Venezia Giulia, Istria e Dalmazia furono colpite nel secolo scorso: basti pensare, fra i vari episodi, all’eccidio compiuto dagli Ottomani di Dragut nel 1555, quando alcune migliaia di Viestani vennero barbaramente uccisi o tradotti in schiavitù[2]: una strage che vive tuttora nella memoria storica, non soltanto locale, e che non è stata estranea alla manifestazione di solidarietà e disponibilità, tradotta in quella delibera.
Tra i 20.000 Italiani infoibati od altrimenti massacrati dai partigiani di Tito, molti furono i servitori dello Stato, civili e militari, colpevoli soltanto di avere compiuto il proprio dovere: si calcola che almeno un quinto fossero provenienti dalle regioni del Mezzogiorno. Ebbene, quasi 300 erano Pugliesi, e sette di loro, assieme ad altri rimasti ignoti, erano Viestani: si tratta di Francesco Paolo Ascoli, Francesco Cariglia, Francesco Cavaliere, Giambattista Chieffo, Matteo Ruggieri, Antonio Vescera e Vincenzo Vescera, che sono stati onorati con un minuto di commosso raccoglimento, prima di procedere alla scopertura della lapide.
È stato scritto che, in occasione del grande Esodo, «lo slancio di generosità più sincero venne dalla Puglia»[3]: si tratta di un’affermazione pertinente e condivisibile, suffragata dallo slancio di Vieste e delle altre municipalità garganiche, senza dire dell’accoglienza ricevuta dai profughi anche nei comprensori meridionali della regione, dove molti di loro ebbero modo di ricostruire vincoli comunitari dalle dimensioni significative.
Oggi, la lapide in faccia all’Adriatico voluta dal Comune, ed inaugurata il 6 febbraio dal Sindaco Ersilia Nobile (alla presenza, fra le tante, del suo predecessore Ludovico Ragno, primo esule – nella fattispecie da Zara – ad avere guidato un Municipio Italiano), costituisce una testimonianza ed un monito: l’ethos è sempre in grado di prevalere sulle vie dell’iniquità, che secondo la lucida intuizione di Monsignor Antonio Santin, l’eroico Vescovo di Trieste e Capodistria, non possono essere eterne, mentre lo sono, come lo furono e lo saranno, fede e speranza, patrimonio insopprimibile degli esuli e degli uomini e donne di buona volontà.
1 La delibera di Vieste è stata ricordata più volte nella memorialistica giuliana e dalmata, a cominciare da quella di Padre Flaminio Rocchi, e dalle varie testate giornalistiche del movimento esule, ma ha trovato spazio anche in opere più impegnate, non soltanto italiane. Al riguardo, si veda: Rolf Wörsdörfer, Krisenherd Adria (1915-1955), Schoening, Paderborn 2004, pagina 561 (opera dedicata al conflitto tra nazionalità nelle zone del confine orientale). È da menzionare, nel quadro di un impegno non meno significativo, anche l’apporto della ricerca studentesca, tra cui quello di Erica Cortese del Liceo Scientifico «Lanfranconi» di Genova (L’Esodo dimenticato, anno scolastico 2009-2010), pubblicato a cura del mensile «L’Arena di Pola» (Trieste 2010) ed oggetto di premi al merito conferiti a Chieti e Trieste.
2 Una silloge esauriente della storia di Dragut e di Ahmet Pascià che alcuni decenni prima si era distinto per analoghi delitti ai danni delle popolazioni pugliesi, è in: Matteo Siena, La Città visibile: l’odonomastica di Vieste dall’era antica all’epoca contemporanea, Centro Grafico Francescano, Foggia 2009, pagine 129-136 (con ricco corredo bibliografico e la riproduzione fotografica della «Chianca amara», una pietra grezza usata dagli assassini per la decapitazione delle vittime).
3 Waldimaro Fiorentino, Quell’ultima motonave in partenza da Pola, in «Alto Adige», Bolzano, 21 marzo 2008. L’Autore, esule e giornalista, ha riconosciuto più volte l’alto significato, in primo luogo etico, della delibera viestana.
GIORNO DEL RICORDO
6 FEBBRAIO 2015
A RICORDO DEL NOBILE GESTO DELLA GIUNTA MUNICIPALE DI VIESTE CHE IL GIORNO 18 APRILE 1947 DELIBERÒ DI CEDERE PARTE DEL SUO TERRITORIO E DELLE SUE SPIAGGE PER PERMETTERE DI FONDARE LA NUOVA CITTÀ DI POLA SULLO STESSO MARE E SULLE STESSE INSIDIOSE SCOGLIERE AFFINCHÉ MAI SI DIMENTICHI L’ALTO EROISMO DI CHI LOTTÒ PERCHÉ ITALIANO VOLEVA RESTARE.
L’AMMINISTRAZIONE COMUNALE