Diktat 1947: gli articoli dell'infamia
L’articolo 15 e l’articolo 16 del Trattato di pace costituirono un’infamia gratuita ai danni dell’Italia e degli Italiani, tanto che i loro nefasti effetti perdurano tutt’oggi

Sono trascorsi due terzi di secolo da quell’infausto 10 febbraio 1947, quando l’Italia volle accettare passivamente il Diktat delle Potenze che avevano vinto la Seconda Guerra Mondiale; e dall’ancora più infausto 30 luglio, quando il trattato fu oggetto di ratifica da parte dell’Assemblea Costituente, i cui poteri in materia erano quanto meno opinabili, senza dire che l’atto era giuridicamente e sostanzialmente pleonastico.

Ciò non significa che le parole pronunciate a Montecitorio prima della votazione finale da parte di Vittorio Emanuele Orlando, il Presidente della Vittoria nella Quarta Guerra d’Indipendenza (1918), non siano sempre attuali, con particolare riguardo alla conclusione di un lungo e nobile discorso ed alla richiesta di negare la ratifica: in caso contrario, disse Orlando, «si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità». Affermazione di portata storica, che diede luogo alla vivace protesta del Governo, sintetizzata nell’intervento finale di Alcide De Gasperi.

Oggi si deve riconoscere, nel quadro di una valutazione storica finalmente oggettiva, che Orlando, assieme a tutti i Costituenti che si riconobbero nelle medesime posizioni, come Benedetto Croce, aveva visto giusto, parlando con l’anima e con la ragione. Del resto, non è forse vero che altri Stati, in condizioni peggiori dell’Italia, si sottrassero all’umiliazione di una ratifica per molti aspetti leonina, a tutto vantaggio della loro dignità?

Per comprendere meglio l’assunto, basta scorrere i novanta articoli del Diktat, alcuni dei quali costituirono un vero e proprio «vulnus» contrario ad ogni principio elementare di giustizia e di onore: cosa tanto più grave, in quanto imposta in modo davvero iugulatorio da chi si presentava come paladino di conclamati principi democratici ed egualitari.

Prescindendo dalle ampie ed inique amputazioni territoriali sofferte dall’Italia a vantaggio largamente maggioritario della Jugoslavia, o dalle varie disposizioni non meno offensive in materia di smilitarizzazione, indennizzi e regime della pesca in Adriatico, sempre a favore unilaterale di Belgrado, vale la pena di ricordare l’articolo 15, con cui veniva fatto obbligo di consegnare agli Stati vincitori i cosiddetti «criminali di guerra», a fronte di semplice richiesta: cosa che venne formulata, in larghissima maggioranza, ad opera della stessa Jugoslavia. Non a caso, Belgrado avrebbe preteso parecchie centinaia di consegne, mentre le attese di altri Paesi vincitori, dagli Stati Uniti all’Etiopia ed alla stessa Albania, si contavano sulle dita di una mano, assumendo valenze meramente simboliche.

L’obbligo verso Tito venne opportunamente derogato dall’Italia, col beneplacito degli Alleati Occidentali, perché era inaccettabile che fossero consegnati alla «giustizia» di Tito i patrioti istriani che si erano battuti per l’italianità della loro terra, quali Luigi Papo o Libero Sauro, essendo scontato che in caso contrario sarebbero finiti in foiba, o davanti al plotone d’esecuzione, come accadde a Vincenzo Serrentino, ultimo eroico Prefetto di Zara italiana.

Ancora più surreale è la storia dell’articolo 16, in base al quale si imponeva all’Italia di «non incriminare né perseguitare» i suoi cittadini, compresi gli appartenenti alle Forze Armate, che avessero agito, od anche solo «simpatizzato» in favore degli Alleati. Tale formulazione, tra l’altro, fu notevolmente edulcorata rispetto alla pretesa jugoslava, secondo cui l’Italia avrebbe dovuto impegnarsi a non perseguire chi si fosse adoperato per risolvere la questione dei confini in senso ad essa sfavorevole, né coloro che avessero «disertato dalle Forze Armate» e si fossero uniti a reparti Alleati od «a movimenti di resistenza dietro il fronte o sotto l’occupazione».

Questa versione venne sostenuta a spada tratta dalla delegazione jugoslava in Conferenza della pace, ma apparve talmente immorale nella sua apologia del tradimento da sollevare esplicite opposizioni, in specie nella delegazione statunitense, che si appellò anche alle libertà fondamentali ed ai diritti umani[1]. Nondimeno, la pretesa jugoslava, pur contraria all’etica ed all’onore militare, venne messa ai voti, raccogliendo un dissenso soltanto minoritario, espresso da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Sudafrica e persino dalla Cina; tuttavia, non essendo stata suffragata dalla maggioranza dei due terzi, venne rinviata all’esame dei Quattro Grandi e sostituita, stavolta per imposizione sovietica, con il testo definitivo di cui sopra.

Non è azzardato affermare che l’articolo 15 e l’articolo 16 del Trattato di pace costituiscono un’infamia gratuita, oltre che ininfluente dal punto di vista delle altre pur inique operatività del Diktat: è quanto sarebbe stato sufficiente, a ben vedere, per accogliere il commosso invito a negare la ratifica, espresso da Vittorio Emanuele Orlando e dagli altri Costituenti che si riconobbero nelle sue posizioni.

È stato detto non senza ragione che l’Italia è sempre bravissima nel fare gli interessi degli altri, ma in quella circostanza fece di peggio, sebbene il Governo avesse tentato di camuffare la propria impotenza dichiarando che la firma del trattato veniva posta con riserva, ma nella sofferta consapevolezza di doverla apporre, secondo le parole conclusive dello stesso De Gasperi, «nell’interesse del Paese, della pace e della collaborazione internazionale».

Con ogni evidenza, si trattava di una riserva di stile, che nessuna forza politica sarebbe stata in grado di far valere, anche a prescindere dalle condizioni materiali in cui versava l’Italia del 1947. Nondimeno, a quasi settant’anni dal Diktat, è moralmente e politicamente doveroso rammentare che in quella plumbea atmosfera della Camera venne compiuto l’ennesimo tradimento, accettando di ratificare anche gli articoli dell’infamia; e comprendere meglio, nell’obiettività del giudizio storico, le ragioni etiche di quanti vollero dissociarsi dalla rinuncia all’onore, alla dignità, ed in ultima analisi, alle «alte non scritte ed inconcusse leggi» che vivono sin dall’antichità classica nel cuore e nelle menti dei veri uomini.


Nota

1 Enzo Cataldi, La Jugoslavia alle porte: tra cronaca e documento una storia che nessuno racconta, Edizione Club degli Autori, Firenze 1968, pagine 191-192. L’Autore, avvocato patrocinante in Cassazione, e docente universitario di diritto del lavoro, era stato ufficiale dei Granatieri ed aveva combattuto nella ex Jugoslavia, maturando una lunga e sofferta esperienza di una guerra in cui il nemico si era distinto, anzi tutto, per crudeltà efferate e per il rifiuto di ogni vincolo alle convenzioni internazionali belliche.

(novembre 2014)

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