Croati e Sloveni di espressione italiana: storia ed attualità
Una complessa vicenda giuliano-dalmata

Nelle tante occasioni ufficiali, nella pubblicistica giuliana, istriana e dalmata, e nella stessa storiografia più accreditata si parla, ormai sistematicamente, dei cosiddetti «rimasti», ovvero di coloro che dall’immediato dopoguerra in poi non scelsero la via dell’Esilio e preferirono stare a casa, nella presunzione che questa scelta fosse, a vario titolo, la più conveniente. È appena il caso di rilevare che oggi, nella classificazione dei «rimasti», si comprendono anche i loro eredi di seconda e terza generazione, diversamente da quanto accade per gli Esuli, nel cui caso si preferisce fare riferimento prevalente ai discendenti, che esprimono una realtà diversa per il fatto di non avere sperimentato, in specie nel caso dei più giovani, il dolore della partenza, e quello di una dispersione irreversibile.

Sulla quantificazione degli Esuli e dei «rimasti» si sono versati fiumi d’inchiostro, ma nessuno può sollevare il minimo dubbio sulla differenza abissale che separa gli uni dagli altri. L’Esodo si protrasse per quasi un decennio, alla luce delle diverse vicende politiche occorse alle zone di provenienza (Zara e Fiume apparvero subito condannate, mentre a Pola, e soprattutto nella Zona «B» del mai costituito Territorio Libero di Trieste si confidò a lungo nella salvezza, senza dire che molti attesero le elezioni italiane del 18 aprile 1948, nel timore di un possibile successo del Fronte Popolare costituito da socialisti e comunisti): anche per questo, è stata sostanzialmente impossibile una rilevazione precisa, ma le fonti più accreditate sono concordi nella stima di 350.000 unità.

La percentuale dei «rimasti», alla fine, fu quasi marginale, tanto che gli storici contemporanei ne hanno quantificato la consistenza attuale in meno di 30.000, presenti soprattutto a Fiume, a Pola e nelle maggiori città della costa occidentale istriana, mentre in Dalmazia la componente italofona è stata quasi cancellata. Si deve aggiungere che gran parte di costoro appartengono alle nuove generazioni, costituite dai figli e dai nipoti di quelli che scelsero di restare; e che laddove si effettuasse una trasposizione analoga per gli Esuli, la cifra iniziale di 350.000 aumenterebbe di parecchio, dovendosi tenere conto di un’evoluzione demografica quanto meno proporzionale.

Prescindendo da numeri che esprimono grandezze in ogni caso non comparabili, va detto che al giorno d’oggi parlare dei «rimasti» come di Italiani che furono in grado di resistere alla prevaricazione ed all’usurpazione, o se non altro, di tenere alta la bandiera, è una palese forzatura, trattandosi, in ultima analisi, di cittadini croati e sloveni d’espressione italiana, o meglio bilingue. In effetti, non si può parlare nemmeno di «rimasti» se non per la quota ormai largamente minoritaria di quanti decisero di non optare per l’Esodo. Definire tali i loro discendenti è, nella migliore delle ipotesi, un’estensione convenzionale.

Rimanere, secondo il vocabolario della lingua italiana, vuol dire restare, ma fra gli altri significati, concordare: cosa che si può condividere anche nel caso di specie, perché la maggioranza dei «rimasti», fatta eccezione per talune persone anziane e malate, fu certamente d’accordo, almeno in una prima fase, con il nuovo Regime e con le sue promesse di palingenesi apparentemente democratica ed egualitaria: un sogno utopistico, che avrebbe indotto bruschi e drammatici risvegli dei quali è rimasta traccia significativa in memorie e testimonianze dirette e nelle realizzazioni cinematografiche dell’epoca, come La città dolente.

Oggi, i veri «rimasti» altro non sono, a ben vedere, se non la rimanenza della rimanenza, ed in ogni caso, esprimono una componente etnica del tutto marginale nell’ambito dei rispettivi Paesi. In particolare, gli Sloveni di espressione italofona sono poco più dell’uno per mille, mentre in Croazia la quota è di poco superiore, ma sono addirittura tredici le altre etnie quantitativamente prevalenti.

Con questo, non si vuol dire che i «rimasti» non abbiano diritto a specifiche attenzioni, ma dimensionare il fenomeno nella sua reale consistenza e sottolineare che la grande scelta di giustizia e di civiltà fu fatta solo dagli Esuli, cui dovrebbero competere riconoscimenti che, al contrario, sono stati sempre negati, od elargiti con pervicace parsimonia, se non addirittura con il contagocce: basti pensare alla tutela delle tombe oltre confine, alla surreale vicenda degli indennizzi o risarcimenti, alle questioni anagrafiche e previdenziali, e per finire, al lungo silenzio ufficiale sulle vicende storiche di Venezia Giulia e Dalmazia, ed in particolare sull’Esodo e sulle foibe, eliso in misura parziale e spesso strumentale dalla Legge 30 marzo 2004 numero 92, istitutiva del «Giorno del Ricordo».

Non appare ragionevole sostenere che quello dei «rimasti» sia stato un merito, come capita di leggere in qualche dichiarazione ufficiale o nella stessa storiografia: al massimo, si potrà parlare di condizioni rese necessarie dalle circostanze, a meno che non si voglia dare un giudizio di valore positivo sul fatto di avere abbracciato l’invasore, in quanto portatore di una nuova ideologia che peraltro sarebbe stata impietosamente condannata dagli eventi.

Si potrebbe aggiungere che qualcuno di costoro è arrivato a supporre, per fare un esempio significativo, che la strage di Vergarolla del 18 agosto 1946 sia stata dovuta ad un mozzicone di sigaretta gettato sbadatamente sulla spiaggia, quando tutti sanno quali furono le matrici dell’eccidio di oltre cento persone, in maggioranza donne e bambini (esplosione di dieci tonnellate di tritolo ordita dalla polizia politica di Tito per «incentivare» l’Esodo). Ora, dopo l’apertura degli archivi ufficiali di Londra (Foreign Office), si conoscono anche nomi e cognomi dei responsabili; in tale ottica è preferibile sorvolare su interpretazioni surreali come quelle di un incidente, che non hanno alcun riscontro scientifico né uno straccio di impossibile testimonianza.

Ultimamente, è stato scritto che gli Esuli sono in via di esaurimento: da una parte, perché quelli di prima generazione si sono progressivamente ridotti per la legge inesorabile del tempo, e dall’altra perché i loro eredi, coinvolti nella diaspora o nei problemi del luogo di residenza, spesso assai lontano da quello di origine, non possono avvertire come i loro padri tutto il dramma dell’Esilio e della preclusione al ritorno. Al contrario, come è stato soggiunto, l’Istria e la Dalmazia sono inamovibili nella realtà e nella stessa carta geografica, con il loro mare, la loro natura e le loro pietre che «parlano italiano»: di qui, l’opportunità di valorizzare al meglio i cosiddetti «rimasti» in quanto partecipi di una comunanza di attese, cultura, idioma ed interessi, che altrove è quasi vanificata dalle circostanze. Il ragionamento è certamente suggestivo, ma risulta condizionato a priori dall’equivoco etico di base, vale a dire dalle matrici originarie, quanto meno massimaliste, dalla presenza di una sovranità altrui in cui i nazionalismi sloveno e croato hanno sostituito il veterocomunismo, e non ultimo, dal legame strettamente economico con le significative erogazioni dei fondi di cooperazione da parte di Roma (diversamente dalla prassi adottata nei confronti delle comunità italofone latino-americane, di gran lunga maggiori sul piano quantitativo e molto spesso, in condizioni di ben maggiore e talvolta drammatico bisogno).

È possibile comprendere, ma non altrettanto giustificare – come nel caso di talune realizzazioni inutili per la mancanza di soggetti interessati a fruirne – che il Governo italiano intenda supportare la presenza «italiana» in Istria e Dalmazia. In effetti, non si può fare a meno di sottolineare che tali interventi, anziché largamente maggioritari rispetto a quelli corrisposti in Italia, ed ormai minimi, dovrebbero essere subordinati alle giuste misure in favore degli Esuli di qualsivoglia generazione, già offesi dalle tante discriminazioni, fra cui giova ribadire i trattamenti pensionistici graziosamente elargiti agli assassini delle foibe, il silenzio di troppi libri scolastici di storia sulla tragedia giuliana e dalmata, l’abbandono dei sepolcri e dei monumenti italiani oggi oltre confine, il disimpegno in tema di recupero dei beni, e via dicendo. Ciò, senza contare che alcuni interventi, come quello in materia anagrafica – onde evitare lo scandalo della burocrazia per cui si vorrebbero gli Esuli «nati in Jugoslavia» o nelle Repubbliche sorte dal suo disfacimento, anche se venuti alla luce prima del trasferimento di sovranità imposto dal trattato di pace –, avrebbero avuto costo zero per la finanza statale, vanificando ogni ipotetica pregiudiziale di natura economica.

Non basta. In termini attuali, c’è da porre in luce anche la questione della doppia cittadinanza, salita alla ribalta con particolare enfasi a seguito delle elezioni regionali tenutesi in Friuli Venezia Giulia nel 2013. Infatti, alcune migliaia di Croati e Sloveni italofoni fruiscono della cittadinanza italiana, ed in quanto tali sono in possesso dei diritti elettorali, esercitati soprattutto a Trieste, dove parecchi di loro svolgono attività di vario genere. Ebbene, nella predetta consultazione, che ha visto prevalere il blocco di Centro-Sinistra per una differenza di circa duemila voti, pari allo 0,3%, l’apporto dei «rimasti» (notoriamente orientato in senso progressista anche in aderenza alle origini di cui si è detto) avrebbe assunto carattere determinante, a differenza di quanto era avvenuto in passato. Ne sono scaturite diffuse perplessità in materia, tra cui vanno segnalate quelle proposte numeri alla mano, in chiave prioritariamente politica, ma nello stesso tempo anche giuridica, dall’Onorevole Renzo De Vidovich, massimo esponente attuale dell’associazionismo dalmata.

Senza entrare nel merito dettagliato del problema, è di tutta evidenza che in situazioni particolari come quella del 2013 il voto di Croati e Sloveni italofoni può assumere rilevanza significativa, ed al limite, decisiva; tanto più, quando viene accompagnato da un’estensione «geografica» della campagna elettorale che vede l’impegno, e poi il ringraziamento oltre confine di alcuni candidati, d’altronde ammissibile sul piano formale dopo l’approvazione della Legge Tremaglia per il voto degli Italiani all’estero. In ogni caso, non c’è dubbio che la questione politica rimanga sul tappeto.

La cooperazione con le Repubbliche ex Jugoslave e con i loro cittadini italofoni costituisce una scelta che per qualche aspetto vagamente assistenziale può essere ritenuta commendevole, anche se appare piuttosto surreale sostenerla come paradossale strumento per «difendere» l’italianità di Istria e Dalmazia, suffragata in modo icastico dalla storia, dalla cultura e dall’arte, senza dire del carattere plebiscitario dell’Esodo; ma non deve essere a senso unico, economicamente discriminante e politicamente opinabile, se non al costo di affievolirne la condivisione, ed alla fine, di azzerarne ogni fondamento morale.

Da «L’Arena di Pola»
(ottobre 2014)

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