I Re di Roma
Ai suoi inizi, Roma ebbe un periodo di governo monarchico, come tutte le altre città del mondo antico, per poi passare alla forma repubblicana. Tra storia e leggenda, la vita e le opere dei Re della futura Capitale del Mondo

Dal 753 al 509 avanti Cristo, e cioè per 244 anni, Roma fu governata da Re. Il potere del Sovrano non era ereditario: quando un Re moriva, bisognava sceglierne un altro. Chi governava deteneva tutti i poteri: comandava l’esercito, amministrava la giustizia, promulgava le leggi, era il capo religioso. Di questo lungo periodo la tradizione ricorda sette Re; le date che seguono segnano gli anni di regno, ma sono del tutto convenzionali. Gli antichi registri andarono infatti perduti durante il sacco di Roma a opera dei Galli (anno 390 avanti Cristo). Oggi si tende comunque a considerare storiche le notizie degli ultimi tre Re, storiche nelle linee essenziali quelle del secondo, terzo e quarto Re – di stirpe sabina – e presumibilmente storiche le notizie tramandate sul primo Re, perlomeno dal momento della fondazione di Roma. Ne parleremo nelle prossime righe.


Romolo (753-717 o 716 avanti Cristo)

Molto probabilmente Romolo non si chiamava così: il nome lo inventarono gli stessi Romani facendolo derivare da Roma che, secondo la parola greca «ròme», significa «forza». Romolo sarebbe dunque l’«uomo della forza», cioè l’uomo che ha saputo difendere il nuovo villaggio dagli assalti dei popoli vicini: forse era un «nome parlante», o forse un titolo onorifico.

Le sue origini si perdono nella leggenda e nel mito: i Romani raccontavano di come il principe troiano Enea, dopo la caduta della sua città per mano degli Achei, fosse approdato nel Lazio, terra d’origine della sua stirpe. Qui si era stabilito, dopo aver sposato la figlia del Re Latino. Il figlio di Enea, Julo, fondò la città di Albalonga, capitale dei Latini, e ne divenne il Re.

Trascorsero quattro secoli. Otto generazioni di Sovrani si succedettero sul trono di Albalonga, finché, verso l’VIII secolo prima di Cristo, il potere passò a due fratelli, Amulio e Numitore. Il primo chiese all’altro se desiderasse l’oro o il governo della città; Numitore scelse il governo, ma Amulio divenne più potente per le ricchezze, lo fece arrestare e usurpò il trono. Fece assassinare tutti i figli maschi del fratello per non avere rivali che avrebbero potuto detronizzarlo e costrinse l’unica figlia femmina, Rea Silvia, a divenire sacerdotessa nel tempio di Vesta: le Vestali facevano infatti voto di castità. Ma il dio Marte vide Rea Silvia e, preso da furore amoroso, la violentò.

Rea Silvia partorì due gemelli. Non appena ne fu informato, Amulio ordinò che la donna fosse sepolta viva e i due bambini annegati nel Tevere. Ma il servo che doveva eseguire quel comando, non avendo cuore di farlo in prima persona, collocò i due piccoli in un canestro e li abbandonò alla corrente del fiume, confidando che il canestro sarebbe comunque andato a fondo. Le onde portarono invece la fragile imbarcazione ad arenarsi in un’insenatura, sotto un albero di fico, e le grida dei due piccoli richiamarono l’attenzione di una lupa che viveva nella selva vicina. L’animale, anziché divorarli, ne ebbe compassione, li allattò e se ne prese cura. Per questo lo stemma di Roma reca una lupa che porge le mammelle a due bambini.

Romolo e Remo allattati dalla lupa

Rubens, Romolo e Remo allattati dalla Lupa, circa 1616, Musei Capitolini, Roma (Italia)

In seguito i due piccoli furono raccolti da Faustolo, porcaro (cioè custode dei maiali) di Amulio; costui aveva una moglie, Acca Larenzia, soprannominata «lupa» per aver fatto l’amore con tutti i giovanotti dei dintorni: la lupa, infatti, era simbolo di lussuria. Questa può essere l’origine del «mito» della lupa benevola, anche se non sono mancati, anche in tempi recenti, casi di persone salvate o anche allevate da lupi.

I due gemelli, chiamati l’uno Romolo, l’altro Remo, crebbero sani e robusti. Venuti a conoscenza della loro origine, con un gruppo di compagni tornarono in Albalonga, uccisero Amulio e rimisero sul trono il nonno Numitore. Poi decisero di fondare una nuova città, presso il fiume dal quale erano stati salvati. E siccome ognuno dei due pretendeva di darle il proprio nome, stabilirono di rimettersi al responso degli dèi osservando il volo degli uccelli.

Per primo Remo, sul colle Aventino, scorse sei avvoltoi. Romolo salì sul Palatino e disse di averne visti il doppio. Si arrogò il diritto di fondare la nuova città e, secondo l’uso, passò l’aratro a tracciare il solco delle mura. Remo, in segno di scherno, attraversò il solco con un balzo. E Romolo punì l’atto sacrilego accoppando il fratello; poi, rivolto ai presenti, esclamò: «Così morirà chiunque oserà oltrepassare queste mura». In questo modo, rimase unico Sovrano della nuova città: Roma.

Era, secondo la tradizione, il 21 aprile dell’anno 753 avanti Cristo!

La leggenda di Romolo e Remo e della lupa che li avrebbe allattati risale al III secolo avanti Cristo e può ricollegarsi a una tradizione indigena italica, ma tutto lascia pensare che ricalchi schemi prettamente greci, come greca è l’idea di avere un eroe eponimo il cui nome spieghi quello della città. Però questa leggenda potrebbe contenere qualche germe di verità. Quel che l’archeologia può dire con certezza è che realmente nell’VIII secolo avanti Cristo c’era un abitato, sul Palatino.

Fondata la città, si trattava ora di popolarla. Per accrescere il numero degli abitanti, Romolo dichiarò che avrebbe concesso il «diritto di asilo», cioè che avrebbe accolto e protetto chiunque fosse venuto ad abitarvi; è certo che molti malfattori, per i quali tirava aria grama nelle vicine città, accolsero con piacere l’impunità promessa dal Re e si trasferirono a Roma. La vita non doveva essere troppo sicura, con gente di quella risma, e infatti risulta che anche Romolo se ne andasse in giro sempre scortato da una guardia personale di 300 uomini armati.

Per arricchire anche la popolazione femminile, il Re ricorse a uno stratagemma: organizzò grandi feste a cui invitò le genti vicine, e soprattutto i Sabini, che abitavano sul colle Quirinale. Mentre tutti erano intenti a banchettare, a un gesto convenuto di Romolo i Romani balzarono sulle ragazze, trascinandole nelle loro case. Altri sospingevano via gli uomini sabini terrorizzati, badando che non fosse fatto loro alcun male.

Naturalmente scoppiò la guerra. Romolo vinse le prime battaglie (tra cui quella coi Ceninesi, di cui abbatté il Re in uno scontro personale) e costrinse la popolazione dei villaggi sconfitti a trasferirsi a Roma.

I Sabini elessero Re Tito Tazio e marciarono sulla città. A guardia della porta i Romani avevano messo una donna, Tarpea; questa, forse innamorata di Tito Tazio, più probabilmente per avidità, propose ai Sabini di aprir loro le porte se le avessero donato «ciò che portavano al braccio sinistro», intendendo con questo i loro bracciali d’oro. I Sabini promisero ma, appena furono entrati, slacciarono le cinghie dei pesanti scudi, pure portati al braccio sinistro, e sotto di questi la schiacciarono, uccidendola. I Romani chiameranno Rupe Tarpea la rupe dalla quale verranno precipitati i traditori.

La battaglia si riaccese per le vie della città. Mentre infuriava e l’esito era ancora incerto, le donne sabine corsero a frapporsi ai contendenti: ormai s’erano abituate ai rudi mariti e non volevano rimanere né vedove, se avessero vinto i Sabini, né orfane, se avessero vinto i Romani. Molte avevano già partorito, e mostravano a padri e fratelli i figlioletti. Grazie a loro fu conclusa la pace: Romani e Sabini si fusero in un unico popolo e Romolo accettò di dividere il governo con Tito Tazio.

Le Sabine

Jacques-Louis David, Le Sabine, 1794-1799, Museo del Louvre, Parigi (Francia)

Dal ratto delle Sabine giunse la tradizione – viva ancor oggi – di sollevare la sposa nel momento di farle varcare la porta della nuova casa: anche allora, infatti, le Sabine furono portate a forza nelle nuove dimore. Potrebbe essere un fatto reale trasformato poi in leggenda: presso molti popoli (anche del passato, come ad esempio gli Etruschi) gli uomini «rapiscono» le future mogli, ovviamente dopo essersi messi d’accordo con i loro parenti. Potrebbe essere che il rapimento delle Sabine fosse stato combinato, tant’è vero che i Sabini presero le armi solo dopo diversi mesi.

Pochi anni dopo, Tito Tazio morì e Romolo rimase unico Sovrano di Roma. Intraprese guerre vittoriose contro alcune città vicine, tra le quali l’etrusca Veio, e stabilì i primi ordinamenti dello stato romano. Roma si era ingrandita rapidamente: oltre al colle Palatino, comprendeva il Capitolino, il Quirinale e il Celio. Anche la popolazione era divenuta più numerosa: oltre ai Romani veri e propri, cioè i fondatori della città, comprendeva i Sabini e i Luceri, un piccolo popolo amico dei Romani, stanziati sul monte Celio.

Romolo regnò per circa quarant’anni. Verso la fine della sua vita cominciò a ostentare il potere in maniera arrogante: vestiva una tunica scarlatta e una toga orlata di porpora, dava udienza stando assiso su un seggio con lo schienale piegato all’indietro e e attorno a sé teneva sempre dei giovani – chiamati Celeri – che dovevano aprire un varco tra la folla a colpi di bastone e ammanettare con delle corregge chiunque lui volesse. Sempre secondo la leggenda, Romolo sarebbe scomparso misteriosamente durante un’eclissi con tuoni spaventosi e raffiche di vento cariche di tempesta, mentre passava in rassegna il proprio esercito presso la palude della Capra (nel Campo Marzio). Subito si pensò a un complotto dei nobili per toglierlo di mezzo, poi venne diffusa la credenza ch’egli fosse stato rapito in cielo dagli dèi e che di lassù continuasse a vegliare sulla sua città, come un padre. Aveva 55 anni.

I Romani lo chiamarono dio Quirino e in suo onore innalzarono un tempio.

L’esistenza storica del personaggio, come effettivo fondatore, primo legislatore e Re-Sacerdote, è stata rivalutata anche grazie a moderni scavi condotti alle pendici del Palatino, che avrebbero portato al rinvenimento dell’area corrispondente alla vera Regia di Romolo (forse un santuario che ripeteva le forme di un’abitazione), nonché dell’antico tracciato del pomerio (uno spazio di terreno sacro, delimitato da pietre terminali): sono stati rinvenuti reperti di terracotta, resti di una palizzata e di un muro in tufo («muro di Romolo») databili con certezza all’VIII secolo avanti Cristo, circostanza che darebbe conferma anche dell’esattezza cronologica delle fonti storiografiche latine sull’epoca della fondazione di Roma e della consistenza del suo rito di fondazione. Inoltre, la scoperta del sito del «lapis niger» (con un altare databile intorno al 575-550 avanti Cristo e un’iscrizione) nel 1899 fu associata all’ipotesi di un possibile sito della tomba di Romolo o di un arcaico luogo di culto a lui dedicato, proprio dove la tradizione della tarda età repubblicana indicava il luogo dov’era sepolto il primo Re.


Numa Pompilio (715-673 avanti Cristo)

Anche di Numa Pompilio non si è stabilito con sicurezza se si chiamasse così: Numa deriva infatti dal greco «nómos» («legge») e Pompilio da «pompa» («abito sacerdotale»). Forse il nome non si riferisce tanto a un personaggio, quanto alle istituzioni religiose che i Romani andavano preparando in quegli anni: il Re viene considerato infatti il riordinatore della religione romana.

Numa era Sabino: dopo la morte di Romolo, si stabilì che uno dei popoli, tra Romani e Sabini, avrebbe scelto un Re appartenente all’altro popolo; questi sarebbe stato portato a benvolere gli uni per averlo scelto, e gli altri per aver con loro legami di sangue. I Sabini rimisero la scelta del Re ai Romani, e non ebbero a dolersene.

Numa Pompilio istituì culti, rituali e nuovi collegi sacerdotali, per instaurare un’osservanza scrupolosa delle cerimonie religiose pubbliche: il collegio delle Vestali, sacerdotesse della dea Vesta; il collegio dei Feciàli, che presiedevano alle funzioni religiose che si compivano in caso di guerra (Numa, però, non ne fece alcuna: il suo fu il periodo più pacifico della storia di Roma antica); e il collegio degli Auguri, che dovevano interpretare la volontà degli dèi, attraverso il volo degli uccelli.

Le Vestali, avvolte in tuniche bianche e con veli bianchi sul capo, avevano il compito di mantenere continuamente acceso il fuoco sacro nel tempio dedicato a Vesta, protettrice della famiglia: lasciarlo spegnere avrebbe provocato calamità per l’intera città. Inoltre, queste sacerdotesse erano incaricate di preparare la «mola salsa», una specie di pizza, che, dopo essere stata triturata, veniva sparsa sugli animali sacrificati agli dèi. Le Vestali avevano anche il compito di pregare per la salute del popolo romano, in caso di guerra o di altri gravi pericoli.

Nel Foro Romano rimangono dei resti del tempio di Vesta, e una statua raffigurante una Vestale è esposta nel Museo Nazionale delle Terme.

Leggende posteriori affermano che Numa Pompilio era assistito dalla ninfa Egeria e, malgrado la cronologia, ne fanno un discepolo di Pitagora e gli attribuiscono vari miracoli. Scritti attribuiti a Numa furono «scoperti» nel 181 avanti Cristo, ma furono immediatamente soppressi.


Tullo Ostilio (672-641 avanti Cristo)

A quasi un secolo dalla fondazione, Roma si andava facendo sempre più grande e potente. Unica sua rivale rimaneva la città di Albalonga, che cercava di mantenere a ogni costo la sua posizione di capitale del Lazio. Durante il regno di Tullo Ostilio, i Romani fecero guerra ad Albalonga e la distrussero completamente. Da quel momento, Roma divenne la nuova capitale del Lazio.

L’episodio cardine della guerra contro Albalonga riguarda il duello fra Orazi e Curiazi. Regnava sulla città Mezio Fufezio, che tenne ai Romani un saggio discorso: «Tutti sappiamo che i nostri vicini Etruschi non aspettano che il momento propizio per sottomettere noi, popoli latini; e noi invece siamo qui a combatterci l’un l’altro. Gli Etruschi assisteranno alla nostra battaglia come a un bello spettacolo e quando ci saremo ben bene sterminati a vicenda si scaglieranno su di noi e ci vinceranno senza fatica. Perché non risolviamo la nostra contesa facendo combattere solo tre guerrieri albani contro tre guerrieri romani?».

Giuramento degli Orazi

Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784-1785, Museo del Louvre, Parigi (Francia)

Il ragionamento era intelligente e i Romani accettarono. Scelsero quindi i tre fratelli Orazi, mentre gli Albani scelsero i tre fratelli Curiazi. Fra i due eserciti schierati i sei uomini cominciarono a combattere, e dopo i primi colpi si videro due degli Orazi cadere a terra uccisi. I tre guerrieri Curiazi erano soltanto feriti. Dallo schieramento albano si levarono grida di vittoria.

L’Orazio superstite prese allora a fuggire. I tre nemici lo inseguirono ma, a causa delle ferite per chi più e per chi meno gravi, si trovarono ben presto distanziati l’uno dall’altro. Quando il Romano sentì dietro di sé il primo avversario, con una mossa fulminea si voltò di scatto e lo uccise. Poi riprese a correre, lasciò che il secondo lo raggiungesse, affannato per la corsa, lo atterrò con uno sgambetto e gli diede il colpo di grazia. Col terzo, sfinito dalla corsa e dalle ferite, finse di cadere, si voltò di scatto e lo trafisse, esclamando: «Ho vinto i primi due per vendicare i miei due fratelli. Ora abbatto il terzo perché Roma domini su Albalonga». Fu così che, con uno stratagemma, consegnò la vittoria alla propria città.

In seguito, Mezio Fufezio tradì i patti dell’alleanza: il Re di Roma lo legò a due cocchi e lo squartò facendo correre i cocchi in direzione opposta; Albalonga fu rasa al suolo e la sua popolazione trasferita a Roma.

A Tullo Ostilio fu attribuita anche la costruzione dell’edificio del Senato («curia hostilia») e del vicino Comizio.


Anco Marzio (640-617 avanti Cristo)

Anco Marzio, personaggio oscuro di cui non si è saputo mai nulla quanto a famiglia e origini, fortificò il Gianicolo, distrusse tre città del Lazio e condusse i loro abitanti sull’Aventino. Comprendendo questo colle, Roma giunse fino alle rive del Tevere e Anco Marzio, oltre a scavalcarlo con un ponte stabile (così da valorizzare la strada che, partendo dall’Etruria, raggiungeva la Campania), pensò di far costruire una città alle bocche del fiume, per sfruttarne le saline. Il sale era infatti richiestissimo perché serviva, oltre che per insaporire i cibi, anche per conservarli più a lungo.

Essa fu chiamata Ostia, dal latino «ostium» («bocca»). La città di Ostia divenne un porto molto importante perché, permettendo alle navi di arrivare direttamente a Roma, e alle popolazioni appenniniche di rifornirsi di sale, giovò molto al commercio romano. Si formarono ceti artigianali e commerciali, corporazioni professionali, fabbri, carpentieri, bronzisti, orafi, muratori, imbianchini e via dicendo; tra questi ceti, numerosi erano gli immigrati e determinarono la nascita della plebe. A Ostia rimangono ancora avanzi delle mura più antiche.


Tarquinio Prisco (616-579 avanti Cristo)

Con Lucio Tarquinio Prisco inizia una serie di tre Re di origine etrusca. Questo significa che Roma subiva in modo abbastanza marcato l’influenza etrusca: la famiglia dei Tarquini, forse originaria di Cere, potrebbe aver conquistato il potere con l’appoggio di forze esterne, perché un certo Gneo Tarquinio di Roma risultava coinvolto in una congiura contro Anco Marzio insieme con altri alleati etruschi.

La città, in quell’ultimo scorcio del VII secolo avanti Cristo, era ormai il centro più importante del Lazio, e Tarquinio Prisco ne volle accentuare la bellezza adornandola di grandiose costruzioni, per le quali chiamò numerosi artisti etruschi e greci. Tra l’Aventino e il Palatino fece erigere il Circo Massimo, grandioso anfiteatro riservato agli spettacoli pubblici: portò dall’Etruria cavalli da corsa e pugilatori, e i brutali combattimenti gladiatori che avrebbero avuto tanta fortuna in seguito; prosciugò, ingrandì e ornò di portici il Foro (dal latino «forum», ossia «piazza»), dove si tenevano le assemblee del popolo e i pubblici mercati; fece costruire le cloache, fognature che portavano al Tevere le immondizie della città, e trasformarono Roma da un acquitrino in una città civile. Così, un agglomerato di capanne di terra e legno si trovò trasformato in una città di legno, di mattoni e di pietra.


Servio Tullio (578-535 avanti Cristo)

Tarquinio Prisco fu ucciso dai figli di Anco Marzio, e a lui succedette Servio Tullio. Poco dubbia è la sua identificazione con l’Etrusco Mastarna, fatta dall’Imperatore Claudio, mentre la tradizione romana tramanda ch’egli fosse di origine servile. Servio Tullio è ricordato innanzitutto per aver cinto Roma di mura: erano altre quattro metri e mezzo e costruite con larghi massi rettangolari di cappellaccio di tufo, e si sviluppavano per sette chilometri comprendendo tutti i colli, tranne l’Aventino. Roma rimase circoscritta in quelle mura per otto secoli, cioè fino a quando l’Imperatore Aureliano estese la cerchia della città (verso il 300 dopo Cristo). Avanzi delle mura fatte innalzare da Servio Tullio si possono ammirare tutt’ora in Piazza del Cinquecento.

Da ciò possiamo calcolare che gli abitanti di Roma fossero circa 15-20.000, e 50-60.000 le persone che risiedevano nei poco più di 800 chilometri quadrati del territorio romano.

A Servio Tullio si deve anche l’erezione del tempio di Diana sull’Aventino come centro di culto latino, a dimostrare la crescente importanza di Roma; i templi della Fortuna e di Mater Matuta sono pure databili al VI secolo.


Tarquinio il Superbo (534-510 avanti Cristo)

Lucio Tarquinio, figlio o nipote di Lucio Tarquinio Prisco, ultimo Re di Roma, fu soprannominato «il Superbo» perché, nonostante abbia affermato l’egemonia romana nel Lazio, governò da tiranno. Fece assassinare il suo predecessore dopo averne sposato la figlia Tullia, condannò uomini di rango elevato a morte o ai lavori forzati, fece crocifiggere dei cittadini nel Foro, si circondò di guardie del corpo.

Secondo la tradizione, Tarquinio il Superbo aveva un figlio, Sesto Tarquinio. Durante l’assedio della città di Ardea, i nobili, per ingannare il tempo, tornarono di nascosto a Roma per vedere che cosa facessero le proprie mogli durante la loro assenza. Ma mentre le nuore del Re si divertivano in banchetti e orge fino a notte fonda, Lucrezia, moglie di Collatino, stava tessendo la lana con le sue ancelle. Sesto Tarquinio se ne innamorò subito, e fu preso dal desiderio di averla a tutti i costi. Qualche giorno dopo il figlio del Re, all’insaputa di Collatino, si recò da Lucrezia che, ignorando le sue reali intenzioni, lo accolse in modo ospitale. Terminata la cena, Sesto Tarquinio andò a coricarsi nella stanza degli ospiti. Nel pieno della notte entrò nella camera della donna e le pose una mano sul seno, immobilizzandola e dicendole: «Taci, Lucrezia! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!». Poi le dichiarò la sua passione, alternando suppliche a minacce: disse che l’avrebbe uccisa e accanto a lei avrebbe messo il cadavere di un servo, così che si dicesse che era stata colta in flagrante adulterio. Lucrezia fu costretta a cedere e Sesto ripartì soddisfatto. La donna inviò un messaggero al padre e al marito, pregandoli di raggiungerla al più presto, perché era successa una cosa tremenda. Questi giunsero insieme a Lucio Giunio Bruto. In presenza dei suoi cari, Lucrezia scoppiò in lacrime. Al marito che le chiedeva se andasse tutto bene, rispose: «Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l’onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l’adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui». Dopo che tutti ebbero giurato, Lucrezia, senza badare al fatto che la ritenessero innocente in quanto vittima di violenza, proseguì: «Da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!». Afferrò un coltello che teneva nascosto sotto la veste e se lo piantò nel cuore, cadendo a terra esanime tra le urla del marito e del padre. I due uomini, insieme all’amico Lucio Giunio Bruto, decisero di vendicarla: promossero e guidarono una sommossa popolare, che cacciò i Tarquini da Roma e li costrinse a rifugiarsi in Etruria.

La storiografia moderna, che si avvale non solo dei ritrovamenti archeologici ma anche degli apporti dell’epigrafia, della toponomastica, della linguistica, dà piena fiducia alla tradizione, perlomeno nelle sue linee essenziali: l’avversione rimasta costante nei Romani in età storica contro l’istituto monarchico non può essere un mero artificio retorico ma deve risalire a un momento veramente drammatico, quello appunto di una cacciata violenta e improvvisa del Re a opera degli esponenti delle antiche genti, i patrizi; Tarquinio aveva impresso a Roma un ritmo di sviluppo urbano e di espansione territoriale che aveva messo a dura prova la resistenza della popolazione, suscitando un malumore che si diffuse in ogni strato sociale e suscitò il complotto che lo privò del trono.

Da allora i Romani istituirono una nuova forma di governo: la Repubblica! I primi due consoli furono Lucio Tarquinio Collatino (che però rinunciò e fu sostituito da Publio Valerio) e Lucio Giunio Bruto, artefici della cacciata dell’ultimo Re di Roma.

(marzo 2019)

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