La Prima Guerra Punica
Il primo atto del più che secolare conflitto che oppose Roma a Cartagine

Il lungo periodo che va dal 264 al 146 avanti Cristo fu fondamentale per Roma: in esso si posero le basi del suo «imperialismo», iniziò la penetrazione della cultura greca nella Penisola, la Repubblica si trovò a dover amministrare un territorio multietnico e sempre più vasto con le sue strutture da città-stato. Tutte le premesse per la nascita di «homines novi» («uomini nuovi»), condottieri capaci di imporre la propria volontà nel Governo e di traghettare la Repubblica verso l’Impero.

Fu naturalmente un processo lungo e graduale, che per un tempo innumerevole non venne percepito da alcuno nella sua reale portata.

Andiamo con ordine. Nel III secolo avanti Cristo, le due più potenti città del Mediterraneo Occidentale erano Roma e Cartagine (Kart-hadasht, cioè «Città Nuova»), costruita quest’ultima su un promontorio 10 miglia a Nord-Ovest della moderna Tunisi. I Romani avevano dimostrato di avere un esercito e una forza di volontà ferrei, mentre i Cartaginesi, con le loro 500 quinqueremi (navi con cinque ordini di remi) snelle e veloci, potevano gloriarsi di possedere la più potente flotta da guerra dell’epoca, formata da mercenari ben addestrati. Cartagine, fondata secondo la tradizione nell’814 avanti Cristo da coloni provenienti da Tiro, in pochi secoli era divenuta la padrona assoluta del mare, dato che tutti i migliori punti strategici del Mediterraneo erano in suo possesso: il suo dominio si estendeva infatti su gran parte dell’Africa Settentrionale, sulle Isole Baleari e lungo le coste della Spagna e del Portogallo, della Provenza, della Corsica, della Sardegna e della Sicilia. I tributi dei Regni e delle città sottomessi e le rendite delle proprietà terriere l’avevano resa enormemente prospera e ricca. Gli scrittori greci e romani descrivono i Cartaginesi come forti mangiatori e bevitori, dissoluti nei rapporti sessuali e corrotti in quelli politici (come sarà palese nella condotta della Seconda Guerra Punica); Polibio riferisce che «a Cartagine niente di quanto risultasse profittevole era considerato disonorevole». Lo Stato Cartaginese aveva una superficie di circa 70.000 chilometri quadrati e una popolazione di 4.000.000 di abitanti: il quadruplo delle persone della Repubblica Romana in un territorio che era poco più della metà di quello della rivale!

Essendo Roma una città prettamente agricola e legata alla terra e Cartagine una città prettamente mercantile e legata al mare, le due potenze non erano mai state nemiche: anzi, erano legate da trattati di commercio e di navigazione, e durante il conflitto che oppose Pirro a Roma i Cartaginesi avevano dichiarato il loro favore ai Romani. Probabilmente se una nave cartaginese e una romana si incontravano, si aggredivano, massacravano i marinai e facevano bottino, questo è vero; però la «guerra di corsa», come la si chiamerebbe oggi, la si faceva anche nei confronti dei compatrioti. Fu l’espansione di Roma nell’Italia Meridionale a danno delle città greche a essere vista da Cartagine come un pericolo: essa rischiava di trovarsi di fronte dei rivali che avrebbero potuto privarla di una parte dei grandi commerci marittimi, sua principale fonte di prosperità. In pratica, il Mar Mediterraneo stava diventando troppo piccolo per entrambe le potenze: una delle due era destinata a svanire!

Mediterraneo Occidentale

Le cosiddette «Guerre Puniche» («Puni», cioè «Fenici», erano chiamati dai Romani i Cartaginesi), iniziarono nel 264 avanti Cristo e proseguirono – con ovvie interruzioni – per 118 anni. I Romani potevano contare sulla grande forza morale derivante da un esercito male equipaggiato ma formato da leve cittadine, i Cartaginesi avevano un’immensa disponibilità di mezzi finanziari ma truppe mercenarie abituate a ottenere il massimo profitto col minor rischio possibile. Quando le guerre terminarono, Roma era assai mutata rispetto alla grossa borgata contadina ch’era all’inizio del conflitto; Cartagine, invece, pagò con la sua completa distruzione.

Tutto ebbe inizio a causa di un gruppo di mercenari campani, i Mamertini (nome che significa «figli di Marte»), che dopo essersi impadroniti di Messina e averne sterminato la popolazione, si ritrovarono assediati dai Siracusani. Chiamarono in aiuto i Cartaginesi per essere liberati, e poi i Romani per essere liberati dai liberatori. E i Romani intervennero: un po’ perché chi c’era stato descriveva la Sicilia come un luogo di dolcezze e ricchezze, un po’ perché la scelta della guerra era riservata non al Senato ma all’Assemblea Centuriata, dominata dalle classi borghesi-industriali e mercantili per le quali una guerra vittoriosa significava nuove terre da sfruttare e nuove ricchezze sulle quali mettere le mani.

Nella primavera del 264 avanti Cristo il console romano Appio Claudio entrò di sorpresa in Messina e catturò il Generale Cartaginese Annone. Questi doveva essere un uomo accomodante, che dinanzi alla scelta tra il carcere e lo sgombrare la città scelse la seconda opzione; tornato a Cartagine, i suoi concittadini lo misero in croce (letteralmente: fu ucciso per crocifissione!) e si prepararono alla riscossa.

La Sicilia era in una posizione-chiave per il commercio e la sopravvivenza cartaginesi, tanto che per secoli questi si erano dati da fare per sloggiarne i Greci che ne occupavano le coste orientali, non astenendosi da ogni sorta di inganni, tradimenti e perfidie (le fonti greche del tempo ne parlano a piene mani), tanto che a Roma l’espressione «punica lealtà» era un modo ironico per designare esattamente il contrario. Ora, si ritrovavano sull’isola un «terzo incomodo». I primi mesi di guerra, nonostante alcuni rovesci, furono favorevoli ai Romani: sconfitte le truppe nemiche a Siracusa e occupata la città di Agrigento, i legionari puntarono decisamente su Palermo, Trapani e Marsala. Ma proprio quando sembrava che la conquista della Sicilia fosse un fatto compiuto, sulle loro potenti navi i Cartaginesi cominciarono a trasportare nuove truppe dall’Africa.

In poco tempo, sulle coste siciliane ancora in loro possesso, riuscirono a radunare un esercito assai numeroso. I Romani capirono che non avrebbero mai potuto sconfiggere un nemico che avesse avuto libertà di sbarcare le sue truppe quando e dove avesse voluto: bisognava impedire nel Mediterraneo il movimento delle sue navi!

I Romani non avevano mai posseduto una flotta da guerra, ma quando decisero di allestirne una vi si dedicarono con tutto il loro impegno: prendendo come modello una nave cartaginese naufragata sulle loro coste, in pochi mesi costruirono 100 quinqueremi lunghe 45 metri, ognuna con 300 rematori e 120 soldati, e 20 triremi. Non avevano abili marinai, ma il console Caio Duilio, al quale era affidato il comando della flotta, ricorse a un semplice ma efficace espediente: munì le navi romane di «corvi», cioè delle specie di ponti levatoi girevoli alle cui estremità vi erano uncini di ferro a forma di becco di corvo. «Questo fatto» dice Polibio «ci dimostra meglio di qualsiasi altra cosa quanto audaci e ingegnosi fossero i Romani quando avevano deciso di fare una cosa... Essi non si erano mai preoccupati di avere una flotta; però una volta che ebbero concepito questo nuovo progetto, si dedicarono all’esecuzione con tanta risolutezza che senza avere avuto il tempo di acquistare esperienza in cose del genere, impegnarono subito sul mare i Cartaginesi, che da molte generazioni tenevano il dominio navale incontrastato».

Nave militare romana

Nave militare romana, bassorilievo al Museo Navale Romano, Albenga (Italia)

Lo scontro avvenne nella primavera del 260 avanti Cristo, presso il promontorio di Milazzo: 120 navi romane contro 130 cartaginesi. Alla vista degli strani ponti levatoi issati sulle prue delle navi romane, per un momento i Cartaginesi rimasero incerti e sbigottiti. Ma presto, sicuri della loro innegabile superiorità in fatto di tattica navale, diedero inizio alla battaglia.

Manovrate con abilità, le navi cartaginesi puntarono su quelle romane per tentare di speronarle o di spezzarne i remi. Ma non appena una nave punica si accostava a una nave romana, questa lasciava cadere il suo ponte levatoio: subito l’uncino di ferro si conficcava in profondità sulla coperta della nave avversaria, impedendone ogni movimento. In poco tempo, decine e decine di navi cartaginesi si trovarono immobilizzate di fianco a quelle romane. Intanto i legionari, attraversati i ponti levatoi, si lanciavano alla conquista delle navi nemiche impegnando i Cartaginesi nella lotta corpo a corpo: grazie a Caio Duilio, la battaglia navale si era trasformata in una battaglia terrestre, nella quale i soldati romani non temevano paragoni.

Nonostante i Cartaginesi opponessero una strenua difesa, alla fine la loro sconfitta fu durissima: più di un terzo della loro flotta da guerra fu distrutto. Per la prima volta, i Cartaginesi persero la fiducia nella loro supposta superiorità navale, e i Romani si sentirono in grado di affrontarli nuovamente in mare aperto. In onore di Caio Duilio, nel Foro di Roma venne eretta la «columna rostrata», ornata da trenta rostri delle navi catturate, compresa la setteremi ammiraglia.

La vittoria di Milazzo spronò i Romani a portar la guerra addirittura in Africa, sul territorio stesso di Cartagine. Correva l’anno 256 avanti Cristo.

La spedizione fu affidata al console Marco Attilio Regolo: 230 navi, quasi tutte quinqueremi, con 97.000 uomini tra rematori e legionari. Al promontorio di Ecnomo, nelle acque prospicienti la costa meridionale della Sicilia, la flotta romana si scontrò con quella cartaginese, forte di 250 navi con 150.000 uomini, in quella che fu la più grande battaglia navale dell’antichità: decine di navi furono incendiate e affondate; quando ormai la giornata volgeva al termine, Regolo, con un’abile manovra, dopo essersi incuneato nello schieramento nemico, accerchiò e mise in fuga il grosso della flotta punica. Aveva perso 24 navi, ma il nemico ne aveva perse 30. Poté così sbarcare l’esercito presso la città di Clupea, a Est di Cartagine, primo Romano a calcare il suolo dell’Africa; sconfisse tre Generali Punici e si diresse senza indugio contro la capitale nemica, arrivando a 30 chilometri dalle mura.

Convinti di non avere comandanti in grado di affrontare le legioni romane, i Cartaginesi affidarono il loro esercito a un espertissimo Generale Greco, lo Spartano Santippo. Questi si mosse contro Regolo nella primavera dell’anno successivo con 12.000 fanti, 4.000 cavalieri e 100 elefanti (ma è probabile che il numero reale delle sue truppe fosse di molto superiore). Lo scontro avvenne nei pressi di Tunes (Tunisi), su un terreno piano che favorì la carica degli elefanti contro una fanteria legionaria rimasta nei consueti ranghi compatti di fronte ai pachidermi. Dopo molte ore di accanito combattimento, i Romani rimasero decimati e furono sopraffatti dalla cavalleria nemica, che li attaccò alle spalle. Dei 20.000 legionari impiegati nella battaglia, solo 3.000 riuscirono a riparare nel campo di Clupea, dove furono reimbarcati e tratti in salvo dalla flotta romana: moltissimi caddero sul campo e 500 furono fatti prigionieri; tra questi ultimi, vi era anche il console Attilio Regolo.

L’impresa africana, iniziata sotto i migliori auspici, si concludeva così nel modo più disastroso. Per colmo di sventura, proprio negli stessi giorni, due terzi della flotta romana venivano distrutti da una furiosa tempesta presso Capo Passero, in Sicilia. Nell’impatto contro la costa rocciosa affondarono 284 navi e perirono quasi 80.000 uomini.

Rincuorati da questi eventi, i Cartaginesi decisero di riprendere le ostilità, per scacciare definitivamente i Romani dall’isola. Per anni gli opposti eserciti si affrontarono tingendo di sangue il suolo, ma senza che nessuno dei contendenti riuscisse a conseguire una vittoria decisiva. Neppure la distruzione della flotta romana a Trapani, servì a far pendere l’ago della bilancia bellica in modo decisivo. Poi le operazioni di guerra si fecero più fiacche, da entrambe le parti: i gravi danni e i lutti delle continue battaglie avevano portato carestia e stanchezza; specialmente Cartagine, intralciata nei suoi commerci, avvertiva i danni dello stato di guerra. Nel tentativo di riprendere Palermo, l’esercito cartaginese lasciò sul campo 20.000 uomini. Un salasso. Perciò i Cartaginesi stabilirono di negoziare la pace e chiedere uno scambio di prigionieri, e per essere sicuri di ottenere tutto decisero di far accompagnare i propri ambasciatori da un personaggio d’eccezione!

Dopo la sua cattura, Regolo era stato rinchiuso in una cella di grandi dimensioni (grandi per una cella, s’intende) in una fortezza di Cartagine; c’era un’unica finestrella, dalla quale poteva scorgere una striscia di mare. I Cartaginesi erano famosi per la straordinaria crudeltà con la quale trattavano i nemici, ma in quegli anni di prigionia il console non aveva subito maltrattamenti. Nel 250 avanti Cristo venne tolto di prigione e rimandato a Roma con degli emissari cartaginesi: doveva dire che Cartagine desiderava la pace con la città nemica, e consigliare il Senato ad accettarla; se falliva, si impegnava a tornare a Cartagine. Attilio Regolo giurò.

Giunto a Roma, parlò in Curia, ma non come si aspettavano i Cartaginesi. Cercò, con insistenza e calore, di convincere i Senatori a proseguire la guerra. Cartagine, spiegò, voleva la pace perché si sentiva allo stremo, non avrebbe potuto sopportare un attacco sferrato con decisione. Quanto allo scambio di prigionieri, era una richiesta che non andava neppure presa in considerazione: i Cartaginesi nelle mani dei Romani erano giovani e forti, mentre lui era stanco e vecchio, di scarso valore.

I Senatori accettarono il consiglio di Regolo e respinsero le proposte del nemico. Poi cercarono di persuadere il console a sciogliere il giuramento che gli imponeva di tornare a Cartagine: quale valore poteva avere, gli dissero, un giuramento fatto da prigioniero? Per di più dato a nemici che più di una volta si erano dimostrati spergiuri? Anche la moglie tentava di indurlo a restare. Ma Regolo, con quella fierezza ch’era un tratto distintivo dell’essere romano, volle comunque tener fede alla parola data e fece ritorno a Cartagine. Qui giunto, come ben sapeva, fu torturato a morte, forse nello stesso anno, forse poco dopo: gli furono tagliate le palpebre per impedirgli di dormire, fu esposto al sole e infine fatto rotolare in mare rinchiuso in una botte irta di chiodi. Non appena la notizia giunse a Roma, i suoi figli presero due prigionieri cartaginesi di alto rango, e li uccisero allo stesso modo.

Regolo ritorna a Cartagine

Andries Cornelis Lens, Regolo ritorna a Cartagine, 1791, Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo (Federazione Russa)

Molti storici considerano reale la morte di Regolo a Cartagine, ma inventate le torture alle quali fu sottoposto: le considerano una leggenda inventata dai Romani per giustificare od occultare l’uccisione tramite tortura di prigionieri cartaginesi. Tuttavia le loro congetture non si basano su alcuna fonte o prova, mentre invece le indagini archeologiche e le fonti dell’epoca (soprattutto greche) portano a considerare le torture inflitte a Regolo non solo possibili, ma addirittura probabili. Le stesse vicende del recente passato hanno mostrato a quali abissi di abiezione possa giungere l’essere umano, abissi che al principio del secolo scorso non erano nemmeno credibili.

La figura di Attilio Regolo rimase, tanto nella letteratura quanto nell’iconografia tradizionale, un simbolo di virtù civica e guerriera; egli probabilmente concepiva l’estensione della potenza romana come affermazione militaristica fine a se stessa ed era incapace di prendere in considerazione gli interessi economici e le maggiori forze sociali del tempo. Come è stato sostenuto da alcuni studiosi, rappresenterebbe una manifestazione estremista dell’imperialismo di Roma.

I Romani avevano intanto capito che per porre fine a una guerra divenuta estenuante, l’unico modo era affrontare i Cartaginesi nuovamente sul mare: e i cittadini più ricchi allestirono di tasca loro una nuova flotta.

Nel 241 avanti Cristo, il console Gaio Lutazio Catulo investì con 219 grosse navi la piazzaforte cartaginese di Trapani. I Cartaginesi inviarono in soccorso una flotta di 400 navi, stivata di rinforzi, armi e rifornimenti. Non appena seppe dell’arrivo del nemico, Lutazio Catulo decise di prendere l’iniziativa e levò le ancore. Alle isole Egadi, il 10 marzo, colse di sorpresa la flotta cartaginese, lenta per il sovraccarico delle navi, e la annientò: 50 navi nemiche colarono a picco, 70 furono catturate. I Cartaginesi furono costretti a chiedere la pace: Catulo la negoziò con Amilcare, comandante delle forze terrestri puniche in Sicilia, e il relativo trattato prese il nome da lui; in virtù di esso, Cartagine cedeva a Roma la Sicilia e le isole adiacenti, restituiva senza riscatto i prigionieri e s’impegnava a pagare 3.200 talenti in 10 anni come riparazioni di guerra. Erano condizioni ragionevoli, che il Governo di Cartagine si affrettò ad accettare. Così, dopo 23 anni di lotta, aveva termine la Prima Guerra Punica: Roma era riuscita nel suo intento di prendere possesso della Sicilia e aveva dimostrato di essere imbattibile non solo sulla terra, ma anche sul mare. Nonostante le casse dell’erario vuote e uno Stato ormai sull’orlo della bancarotta (il valore della sua moneta era disceso quasi dell’83%), Roma aveva messo alla prova l’irresistibile tenacia del suo carattere e la superiorità del suo esercito formato da uomini liberi, di fronte a un’accozzaglia di mercenari ben addestrati ma interessati solo a far bottino. Cartagine non poteva però piegarsi a una perdita che avrebbe minato per sempre la libertà dei suoi commerci: era prostrata, ma non distrutta. E si sarebbe rialzata, più forte di prima.

(dicembre 2019)

Tag: Simone Valtorta, Prima Guerra Punica, Appio Claudio, Annone, corvi, columna rostrata, guerre tra Roma e Cartagine, Caio Duilio, Polibio, Marco Attilio Regolo, Santippo,Capo Passero, botte di ferro, battaglia di Milazzo, guerre puniche, Mamertini, morte di Attilio Regolo, Gaio Lutazio Catulo, Amilcare, Cartagine, battaglia delle Egadi.