Ottaviano Augusto
Vita e vicende dell’uomo che fondò l’Impero Romano

È con il 31 avanti Cristo che, a Roma, ha inizio l’Impero. Non ufficialmente, è ovvio, ma di fatto è così. Il 23 gennaio del 27 avanti Cristo, Ottaviano viene proclamato Augusto. È un uomo debole, nervoso e malaticcio; i reumatismi, di cui ha sofferto fin da giovane, lo fanno zoppicare leggermente; un irrigidimento causato dall’artrite gli rende difficile l’uso della mano destra. Soffre di insonnia, patisce terribilmente il freddo e si stanca per nulla; ha paura del buio, così dorme sempre con la lucerna accesa e con uno schiavo che gli legge qualcosa finché non si addormenta. Sembra il ritratto di un pover’uomo: eppure quest’uomo dal fisico gracile si ritrova, a 33 anni, padrone di Roma e dei suoi domini sparsi nel Mediterraneo; per quasi mezzo secolo, darà un impulso nuovo a tutta la vita sociale, culturale, artistica della Capitale, costruendo il più grande Impero della storia antica. Quest’uomo è Caio Ottaviano Augusto, e il periodo che va dal 27 avanti Cristo al 14 dopo Cristo, data della sua morte, passerà alla Storia come il «Principato di Augusto».

Statua di Augusto

Statua di Augusto detta Augusto di Prima Porta o Augusto loricato, I secolo, Musei Vaticani (Città del Vaticano)

Caio Ottavio nasce il 23 settembre dell’anno 63 avanti Cristo a Roma, in una casa sul Palatino. Sua nonna è Giulia, la sorella di Cesare; suo padre è governatore della Macedonia.

All’età di cinque anni, il piccolo Ottaviano perde il padre; la madre, più tardi, lo fa educare con molta semplicità, anche perché il ragazzo è gracile e spesso malato. A diciassette anni viene adottato da Cesare, che si affeziona molto a quel suo nipote dal viso mite e sensibile; lo prende con sé durante la spedizione del 45 avanti Cristo in Spagna ed è felice nel vedere il coraggio e l’entusiasmo con cui, sebbene debole e malaticcio, affronta i rischi e le fatiche della guerra.

Alla fine di marzo dell’anno successivo, mentre Ottaviano si trova con l’esercito ad Apollonia, in Illiria, gli giunge la notizia della morte di Cesare. Da quel momento comincia la lunga lotta destinata a portarlo, con la liquidazione degli ultimi repubblicani a Filippi e del rivale Marc’Antonio nelle acque di Azio, al potere supremo.

Ottaviano assume, al pari di Cesare, la denominazione di «Imperator» («Generale vittorioso»); non indica una nuova carica, né un particolare tipo di onore, ma è semplicemente l’appellativo proprio dei comandanti di un esercito. Solo dopo di lui tale denominazione passerà a indicare i capi dello Stato Romano, vale a dire gli Imperatori veri e propri. Il titolo di «Augustus», che il Senato gli conferisce, è stato fino a ora usato solo per oggetti e luoghi sacri o per alcune divinità preposte alla creazione o all’accrescimento (dal latino «augere», ossia «aumentare», da cui appunto «Augustus», «l’Aumentatore»); applicato a Ottaviano, questo titolo lo fa divenire uguale a un Dio.

Fisicamente, Augusto è di statura normale (circa un metro e settanta centimetri), con capelli color della sabbia, la testa triangolare, le sopracciglia scolorite, gli occhi chiari e penetranti; il viso è sempre atteggiato a un’espressione calma e parla con voce tranquilla, lievemente stridula. Abbiamo già accennato alla salute cagionevole: per tutta la vita si cura l’erpete, l’artrite, il fegato; d’inverno si aggira coperto da «un copripetto di lana, coperte per ripararsi le gambe, una camicia, quattro tuniche di lana e una toga pesante». Ma sopporta ogni cosa senza lamentarsi.

Ama la vita semplice, le buone letture e la compagnia degli amici. Si scrive da solo i discorsi e abita in una casa piccola. Mangia poco, cosa non molto frequente fra i Romani, e cibi semplicissimi: pane comune, formaggio, pesce e frutta, e non rompe questa dieta per nessuna ragione. Quando nel suo palazzo, la famosa «Domus augustana» sul Palatino, c’è un banchetto, mangia da solo, o prima o dopo il pranzo.

Con Augusto, nel governo, si impone un nuovo costume: egli non ha l’alterigia del principe o del dittatore come lo intenderemmo noi, ma si regola come il primo dei cittadini. Non è un uomo felice e, nonostante la sua posizione, non gusta mai la gioia del comando. Ha nelle mani tutto il potere, però non ne approfitta: di solito si comporta con modestia e mitezza, e ha un vivo senso della giustizia; vuole dare pace e ordine al popolo, un avvenire sereno a ogni cittadino. È conscio della sua autorità, ha uno spirito di decisione che non si piega e una formidabile capacità di ragionamento: mantiene in piedi le vecchie istituzioni come il Senato, ascolta il consiglio dei fedeli e dei competenti e accetta le critiche, ma poi decide da solo.

Nonostante sia un aristocratico, è capace di trattare con gli umili. Un giorno, un soldato che ha combattuto per lui gli chiede protezione per una causa e Augusto incarica un bravo avvocato. Ma quello non ci sta e va a protestare: «Quando hai avuto bisogno del mio braccio per la tua difesa, io non ho mandato un altro al mio posto». Di fronte a una tale risposta, Augusto si convince ad accompagnarlo in tribunale.

Secondo la filosofia stoica è virtuoso chi fa uso della ragione, la quale, sola, insegna a non farsi trascinare dalle passioni. I principi del diritto non sono convenzionali, ma traggono origine dalla ragione naturale. È dunque il sapiente, il virtuoso, immune dal vizio delle passioni, colui che deve governare. Questa tesi stoica del diritto naturale, ripresa da Cicerone, conduce alla concezione romana dello Stato: la legge universale si incarna in un gruppo di uomini sapienti o anche in uno solo, cui compete il «dovere perfetto» di governare equilibratamente. È la politica di Augusto, «Princeps», primo fra gli altri, non per autorità di forza, ma per autorità morale e razionale.

Nei 44 anni del suo governo lavora molto, assai più dei suoi sottoposti: accetta un numero enorme di cariche e assume su di sé grandi responsabilità; adempie ai doveri di questi uffici con la massima coscienziosità, giudica centinaia di cause, libera l’Italia dai briganti, costruisce strade, fonda Torino e Aosta, progetta campagne in Paesi lontani, comanda legioni e governa province che visita quasi tutte (lui che detesta i viaggi), vuole occuparsi di tutti i particolari dell’amministrazione. In poche parole, prende sul serio i propri doveri: sotto di lui gli ingranaggi del meccanismo statale, che ha ricevuto arrugginiti, si muovono alla perfezione, e continueranno a muoversi così per secoli.

Per poter controllare tutto l’Impero, Augusto amministra le città attraverso i prefetti, che provvedono all’ordine pubblico, ai rifornimenti e al sostentamento dei meno fortunati, e divide il territorio italiano in undici regioni; poi ci sono le province lontane, nelle quali governano i proconsoli.

È di quest’epoca la nascita del catasto, cioè l’elenco di tutte le proprietà, e il censimento, il conto degli abitanti del territorio romano. È per adempiere a quest’obbligo che Giuseppe e Maria, in viaggio, debbono alloggiare in una capanna di Betlemme (probabilmente una proprietà di Giuseppe o di un suo parente), ed è qui che nasce Gesù, detto il Cristo.

Augusto organizza definitivamente l’esercito: riduce le forze armate e sistema i veterani. Stabilisce che chi si arruola in fanteria si obbliga a una ferma di vent’anni, per chi va in cavalleria ne bastano dieci. A Ravenna e a Miseno sorgono due basi navali che controllano l’Adriatico e il Tirreno.

Deve combattere i Germani: li sconfigge, portando i confini dello Stato fino all’Elba, ma tutte le conquiste vengono annullate dall’incapacità di Quintilio Varo, che, sorpreso da Arminio nella foresta di Teutoburgo, perde tutti i suoi soldati (tre intere legioni!); lui stesso si uccide. Alla notizia del disastro, Augusto quasi impazzisce e vaga per giorni tra le stanze del suo palazzo urlando: «Varo, Varo, rendimi le mie legioni!»

Il Principe non è solo un grande amministratore, ma un uomo colto: si circonda di poeti e di artisti e il suo Principato è un periodo di splendore anche per l’arte, che fiorisce nella pace, dall’ironico Orazio al galante Ovidio, da Virgilio, poeta di Corte, che canta la bellezza della vita dei campi e le imprese di Enea, allo storico Tito Livio.

Tra i migliori amici di Augusto c’è Mecenate, un uomo ricco, che diventa suo consigliere per la cultura: è lui a insegnargli a non abusare del potere, ad avvertirlo che più un uomo è grande e più deve imporsi dei limiti. Mecenate è un amante dei piaceri e delle gioie dell’esistenza, e in più un libertino, donnaiolo e volubile: ha una moglie bella e buona, Terenzia, dalla quale divorzia per ben 20 volte. È un protettore dei letterati, e per questo la parola «mecenate» è oggi sinonimo di «finanziatore» o «protettore» di artisti. È abituato a dire quello che pensa: un giorno, Augusto sta per condannare un suo avversario politico; Mecenate è tra la folla e gli manda, tramite un usciere, una tavoletta con scritto: «Surge, carnifex!» («Alzati, carnefice!»); l’uomo sarà perdonato.

Roma viene trasformata. Gli architetti arricchiscono il Foro e costruiscono il Teatro di Marcello, il Pantheon, archi e acquedotti, e il Mausoleo, la tomba che Augusto destina a sé e ai suoi cari. Lui stesso si vanta di aver trovato una città di mattoni e di averla cambiata in una città di marmo; al di là dell’iperbole, al di là della propaganda politica, c’è la constatazione di una realtà.

Il foro di Augusto (ricostruzione)

Modellino ricostruttivo del foro di Augusto a Roma (Italia)

La famiglia di Augusto sull'Ara Pacis

Processione della famiglia di Augusto sul lato sud dell'Ara Pacis, la gens Giulio-Claudia, Roma (Italia)

Nella famiglia, Augusto non ha fortuna: si sposa per tre volte, prima con Claudia, poi con Scribonia e infine con Livia. Non è un marito esemplare: quando si invaghisce di una signora, la manda a prendere in una lettiga coperta, che gliela scodella direttamente in camera da letto; una volta, aprendo le cortine, ne vede balzar fuori, travestito da donna, il filosofo Atenodoro che brandisce una spada: «Sire» lo rimprovera l’uomo, «non temi che qualcuno per ucciderti faccia sul serio quello che io ho fatto per burla?» Ha due figliastri, Druso e Tiberio, che ama; ma Druso muore ancor giovane, cadendo da cavallo mentre combatte i Germani, e quella perdita lo sconvolge. Ha una sola figlia, Giulia, che si comporta in modo tanto indegno da costringere il padre, che si erge – nonostante le proprie intemperanze sessuali – a difensore dell’onestà dei costumi, a farla esiliare nell’isoletta Pandataria, al largo della costa della Campania. Dopo quest’ultimo atroce dolore, Augusto si sente vecchio, finito: adotta come figlio il genero Tiberio – marito di Giulia – e comincia a preparargli la via per la successione (anno 4 dopo Cristo).

Nel corso dell’anno 14, il vecchio Imperatore si imbarca per accompagnare Tiberio, in viaggio per l’Illiria, fino a Benevento. Ma al ritorno, i suoi disturbi viscerali si aggravano, per cui deve fermarsi a Nola, un villaggio a 27 chilometri da Napoli, e mettersi a letto. Peggiora rapidamente, ma il suo trapasso è sereno e tranquillo; quando sente che sta per morire, chiede uno specchio, si aggiusta i capelli; ai cortigiani che lo attorniano dice: «Vi pare che abbia recitato bene la farsa della vita? Se siete soddisfatti, applaudite l’attore». Spira il 19 agosto; reclina il volto emaciato sulla spalla di Livia, che si trova al suo capezzale, e mormora: «Addio, Livia, ricordati della nostra lunga unione», prima di chiudere gli occhi per sempre.

Alcuni giorni dopo, il suo corpo è portato a spalle dai Senatori attraverso Roma, la città che egli ha reso ancor più grandiosa e potente che in passato, fino in Campo Marzio, dove viene arso. Tutti nell’Urbe sono convinti che sia morto un Dio.

(maggio 2021)

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