Lucrezia di Collatia
Lussuria e fedeltà

Un fatto raccontato da Tito Livio nella sua opera Ab Urbe Condita e dal Greco Dionigi di Alicarnasso (vissuto a Roma ai tempi dell’Imperatore Cesare Augusto), che da molti è ritenuto più che altro una leggenda, come capita quando non ci sono elementi documentali a confortare un’asserzione, fu ciò che comportò la fine della Monarchia a Roma, con la cacciata del suo settimo Re, l’Etrusco Lucio Tarquinio il Superbo. Era un Re odiato dal popolo perché era un capo dispotico, che aveva declassato la funzione del Senato, era cattivo di animo e con un comportamento vessativo verso i suoi sudditi, ritenuti esseri inferiori, così da farli vivere nel terrore; era, insomma, tutto quanto può essere un capo per far scoppiare una rivolta tale da farlo cacciare, se fosse possibile, a pedate nel sedere.

Era una situazione esplosiva, si direbbe oggi, con il popolo che non sopportava più il malgoverno etrusco e che non attendeva che il momento in cui si accendesse la scintilla atta a far scaturire lo scoppio dell’odio nei suoi confronti. E la scintilla ci fu a seguito dell’incontro burrascoso fra il figlio del Re Tarquinio, Sesto Lucio, e il nobile romano Collatino, come lo raccontano i due storici. Il risultato di quella conversazione si tradusse in una sanguinosa rivolta che rappresentò una svolta sostanziale nella storia della Città Eterna con la caduta della Monarchia, la cacciata degli Etruschi e la successiva instaurazione della Repubblica Romana, con il governo affidato a due consoli eletti dal popolo, Giunio Bruto e Collatino. Era il 509 avanti Cristo.

Stando a quanto raccontato, il tutto accadde a causa della violenza commessa contro l’onore di Lucrezia, nobildonna romana figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino, da uno dei figli del Re, precisamente da Lucio Sesto Tarquinio.

Naturalmente, Lucrezia non tenne per sé quell’onta e ne rese edotto il consorte, tanto che Collatino andò su tutte le furie e Giunio Bruto, venuto a sapere dell’increscioso fatto e dell’offesa subita dall’amico, incitò il popolo romano a ribellarsi, causando la fuga in esilio dell’odiato Re.

Ma come si era giunti a una tale conclusione? Si deve ritornare all’antefatto, prima della famosa conversazione di cui si è detto più sopra.

Mentre le truppe etrusche assediavano Ardea, la più antica città del Lazio, secondo il racconto di Tito Livio, i figli del Re e i loro nobili amici di notte e di nascosto si recavano a Roma per verificare, scherzosamente, ciò che combinassero le mogli durante la loro assenza. Secondo un’altra versione, si era avviata una discussione scherzosa e scanzonata fra Lucio Sesto e Collatino, in merito alla serietà e alla fedeltà delle loro mogli. E, piuttosto brilli, decisero di andare a verificare quanto ci fosse di vero in questa certezza; anzi, Collatino, tranquillo sul comportamento della consorte, propose a Tarquinio una scommessa sulla virtù di Lucrezia. Effettivamente, era un qualcosa che solamente da avvinazzati poteva essere pensato. Così, di notte si recarono a Collatia, città presso l’Urbe, alla dimora della nobildonna e, come scrisse chiaramente Tito Livio, le due canaglie la trovarono che stava tranquillamente filando e tessendo la lana, pur essendo notte avanzata, in compagnia delle sue ancelle, mentre le nuore del Re se la spassavano fra banchetti e orge.

Chiaramente, Collatino vinse la scommessa, e invitò gli amici a cena a casa sua per festeggiare la vincita. E quel banchetto fu fatale per la tranquillità familiare del nobile romano, giacché nel cervello di Sesto Lucio Tarquinio scoccò una scintilla, tanto che si accese perdutamente in lui il desiderio per Lucrezia, per cui iniziò a rimuginare a come avrebbe potuto fare per giungere al suo scopo; infine, decise il da farsi.

Stabilito come affrontare la situazione, pochi giorni dopo, approfittando dell’assenza di Collatino, si presentò alla dimora di Lucrezia che, conoscendolo come amico del marito, lo accolse serenamente in casa senza nessun sospetto sulle sue disoneste intenzioni. Secondo Tito Livio, il figlio del Re rimase anche durante la notte nella camera degli ospiti e, mentre lei dormiva, entrò nella sua stanza, dichiarandole il suo amore, ma, come forse del resto se lo aspettava, fu sgarbatamente respinto. Questo rifiuto lo fece irritare al punto di minacciarla di morte, immobilizzandola e mettendole alla gola la spada che impugnava. Poi, urlando e farneticando, la ricattò, giurando che, se non avesse acconsentito, dopo averla ammazzata, avrebbe messo accanto al suo corpo esanime un servo nudo, morto strangolato o sgozzato, affinché fosse chiaro che lei era stata uccisa durante un disgustoso adulterio. La matrona, terrorizzata, malgrado la sua disperata resistenza, fu costretta a cedere alle sue insane voglie; però, subì l’affronto senza concedersi, giacché fu una resa incondizionata, che le serbò l’onore.

Tarquinio, tutto soddisfatto del proprio operato, tornò con tranquillità a Roma, senza pensare a quali conseguenze avrebbe potuto sfociare il suo atto violento e disonesto, convinto che Lucrezia avrebbe taciuto su quanto era avvenuto.

Ma lei mandò un messaggero al padre a Roma e al marito ad Ardea, comunicando loro che aveva bisogno immediato della loro presenza, essendo capitato qualcosa di molto grave. Quando il padre Spurio Lucrezio con Publio Valerio Publicola da Roma e Collatino insieme con Lucio Giunio Bruto da Ardea giunsero a Collatia, all’abitazione di Lucrezia, questa li informò sulla disgraziata e angosciosa realtà da lei vissuta. Assicurò che solamente il corpo fu oltraggiato, mentre l’animo era rimasto puro; però, non poteva sottrarsi all’onta subita se non con l’uccidersi con il pugnale che teneva nascosto fra le pieghe della sua tunica. Dopo aver svelato il nome del suo violentatore, si raccomandò che gli infliggessero la giusta punizione. Gli astanti rimasero allibiti, guardandosi in faccia increduli, oltre tutto costernati per il fatto che lo stupratore fosse un amico di famiglia. Il marito la pregò disperatamente di non mettere in atto il suo intento, ma lei non recedette dalla sua decisione, convinta che la sua non-colpa fosse imperdonabile, e prima che i presenti, opponendosi al suo insano atto, riuscissero a bloccarla, si trafisse il petto con il pugnale.

Fu una tragedia che lasciò tutti esterrefatti; poi, la rabbia scoppiò e Giunio Bruto giurò, sul corpo della matrona morente, che avrebbe perseguitato il Re Lucio Tarquinio il Superbo e tutta la sua famiglia fino a cacciarli, impedendo loro di mettere più piede nella Città Eterna.

Quel fatto, qualora sia vero tutto quanto gli storici hanno riportato, fu epocale, giacché ruppe la continuità della Monarchia, dando modo al popolo di instaurare quella Res Publica, che lo metteva in prima linea nelle decisioni politiche, fino all’avvento dell’Impero, che si verificò successivamente.

Se si volessero ricordare le vicissitudini della città di Roma antica, si potrebbe puntare il dito su tre sostanziali cambi di regime dei suoi Governi, evidenziando che hanno sempre coinciso con una morte violenta, come è stato sottolineato da Paul Thoen e Gilbert Tournay. Infatti, il primo avvenne quando Romolo uccise il fratello gemello Remo, perché aveva scavalcato il solco che rappresentava il limite della città di Roma che stava fondando. Poi, a seguito dei tumulti scoppiati dopo il suicidio della moglie Lucrezia di Collatino, la Monarchia cadde per far posto alla Repubblica. Infine, l’uccisione di Giulio Cesare nel complotto organizzato da Bruto avviò l’esistenza dell’Impero Romano.

La morte di qualcuno, purtroppo, è stata foriera di cambiamenti sostanziali: lasciamo agli storici il compito di stabilire se le variazioni siano state in meglio o in peggio.

(aprile 2022)

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