Le prime guerre della Roma Repubblicana
Episodi semi-leggendari come le vicende legate ai Dioscuri, a Coriolano e a Cincinnato costellano la storia dell’antica Roma nei primi decenni dell’età repubblicana: con intenti anche di educazione ed edificazione

A chi getti uno sguardo, anche rapido, sulla storia dell’antica Roma, non sfugge l’incredibile numero di guerre che l’hanno caratterizzata: persino nell’età «pacifica» di Augusto l’esercito romano si trovò duramente impegnato. E gli antichi Romani erano un popolo tutt’altro che guerrafondaio, anche se si vantavano di discendere da Marte, dio della guerra.

I Romani non avevano inteso fondare un Impero: si limitavano a far guerra ai nemici che minacciavano le loro frontiere, inglobandone i territori e passando quindi a combattere altri nemici sulle nuove frontiere. Con un Impero che era arrivato a estendersi su tre continenti, sarebbe stata utopia pensare che tutti i suoi confini fossero contemporaneamente in pace. In realtà, l’unico periodo in cui non si registrarono guerre fu durante il regno di Numa Pompilio, secondo Re di Roma, che allora era poco più di un villaggio.

Anche la Roma della prima età repubblicana, «risvegliatasi» dopo la breve conquista di Lars Porsenna, dovette impegnarsi in una serie di guerre, di cui ci limiteremo a ricordare le principali. Basterebbe osservare una cartina geografica del tempo per capirne la ragione: l’Italia del V secolo avanti Cristo era un’accozzaglia di tribù o città indipendenti, ciascuna col proprio Governo e il proprio dialetto – Liguri, Galli, Umbri, Etruschi e Sabini a Nord; Latini, Volsci, Sanniti, Lucani, Bruzii a Sud; lungo le coste occidentali e meridionali erano greche le città di Cuma, Napoli, Pompei, Pesto, Locri, Reggio, Crotone, Metaponto e Taranto. Roma stava nel mezzo, in una posizione strategicamente adatta per l’espansione, ma anche pericolosamente esposta all’attacco contemporaneo da tutti i lati: fu per lei una salvezza il fatto che raramente i suoi nemici le si coalizzassero contro!

I Tarquini, che non avevano mai rinunciato alla speranza di riprendere il potere, nel 496 avanti Cristo persuasero alcune città del Lazio (Tuscolo, Ardea, Lanuvio, Aricia, Tivoli e altre, già vittoriose su Porsenna) ad allearsi contro Roma. Per fronteggiare questa coalizione apparentemente schiacciante, i Romani nominarono per la prima volta un dittatore, Aulo Postumio. Lo scontro avvenne al lago Regillo, nel territorio di Tuscolo: i Romani riportarono una vittoria completa e l’annuncio sarebbe stato portato in città dai Dioscuri, i due fratelli divini figli di Giove e di Leda e protettori della cavalleria, montati su bianchi destrieri; secondo la leggenda a un Domizio, che si era rifiutato di prestar fede al prodigio, la barba da nera si tramutò in rossa e da allora i suoi discendenti presero il nome di Enobarbi, cioè «dalla rossa barba».

Tre anni dopo i Romani e le città riunite nella Lega Latina, di fronte alla minacciosa avanzata di bande di Equi e Volsci dall’entroterra appenninico verso il Lazio, decisero di comporre i contrasti e collaborare per la difesa reciproca: fu così stipulato un patto tramandato come Foedus Cassianum, dal nome di uno dei due consoli, Spurio Cassio Vercellino (il primo personaggio dai contorni sicuramente storici nella più antica Repubblica Romana), che lo concluse. Esso prevedeva la durata «finché il cielo e la terra esisteranno» e regolò i rapporti tra i Romani e i Latini per i successivi decenni: in esso le parti si impegnavano a dividersi i compiti nei rispettivi territori, a portarsi vicendevole aiuto in caso di necessità, a non aiutare il nemico, e a spartire eventuali bottini in parti uguali. Le clausole del patto figuravano incise in una colonna di bronzo rimasta nel Foro fino all’età di Cicerone. Roma rimaneva padrona di un modesto territorio di poco più di 800 chilometri quadrati e veniva ammessa, da pari a pari, tra le città della Lega Latina. Fu grazie alla loro alleanza, a cui si aggiunse quella degli Ernici, una popolazione che aveva sede nella zona montagnosa a Est della moderna Ciociaria, che i Romani poterono disporre tutte le loro forze contro la minaccia degli Equi e dei Volsci.

I Volsci erano scesi fin dai primi anni del V secolo avanti Cristo dall’alta valle del Liri, avevano occupato la parte settentrionale del territorio in cui da tempo avevano le loro sedi gli Aurunci o Ausoni, erano sfociati da Sud nella Pianura Pontina che avevano occupato installandosi stabilmente a Terracina, da loro ribattezzata Anxur, e a intermittenza ad Anzio. In concomitanza anche gli Equi dall’alta pianura di Carsoli, nell’Appennino Centrale, si erano mossi verso la valle del Trerus (l’odierno Sacco) cercando di infiltrarsi nella vallata fra i Colli Albani e i Lepini, in modo da operare congiuntamente con i Volsci e avere accesso al porto di Anzio. La situazione divenne critica quando gli Equi, spintisi sui Colli Albani, riuscirono ad attestarsi sul monte Algido, così da tentare più volte di forzare una spaccatura per prendere alle spalle Tuscolo e riunirsi coi Volsci a Nord.

La guerra contro i Volsci vide grandeggiare la figura di Gneo Marcio, detto Coriolano per aver conquistato la capitale nemica, ch’era appunto Corioli: aveva non solo una mano sicura e pronta nel colpire l’avversario, ma anche una voce intensa e un volto dall’aspetto terribile, e in più un coraggio che sfociava nella temerarietà. Inanellò una vittoria dopo l’altra, sostenendo sempre il combattimento in prima fila, senza curarsi del numero o del valore dei nemici che aveva di fronte. Nonostante i successi militari, si alienò le simpatie della plebe e fu costretto all’esilio. Il suo desiderio di vendetta lo portò a offrire i propri servigi e la propria esperienza agli stessi Volsci (489-488 avanti Cristo), spingendone le truppe sotto le mura di Roma. Stretti dalla carestia, i Romani gli mandarono ambascerie su ambascerie per fargli togliere l’assedio, invano. Allora si recarono da lui la moglie e la madre, Volumnia; la prima si gettò ai suoi piedi in lacrime, senza ottenere nulla, ma la seconda era di pasta più dura, e rivolse al figlio parole terribili, arrivando addirittura a maledirlo: «È come madre o come prigioniera che vengo in codesto tuo accampamento? […] Rifletti e preparati, dovrai scavalcare il cadavere di colei che ti generò, prima di poter mettere piede in patria». A questo punto Coriolano ritirò l’esercito dei Volsci; fu ucciso in una congiura, come traditore, ma poi venne seppellito con tutti gli onori e la sua tomba fu adornata di armi e spoglie, come quella di un soldato valoroso e di un grande Generale. In seguito, venuti in guerra contro gli Equi e sconfitti dai Romani, i Volsci videro il fior fiore delle loro forze distrutto e furono costretti a sottomettersi a Roma. Sembra che alcuni membri della famiglia plebea dei Marcii provenissero proprio da Corioli.

Anche la guerra contro gli Equi vide un Romano emergere su tutti gli altri. Era stato nell’anno 457 avanti Cristo che, sotto la guida di Gracco Clelio, gli Equi erano penetrati all’improvviso nel Lazio, avevano occupato la città di Corbione e si erano accampati sul monte Algido, a Sud-Est di Roma: da lì, potevano in qualsiasi momento irrompere nella pianura e occupare l’intera regione. I Romani, senza troppi indugi, inviarono contro di loro un esercito, al comando del console Lucio Minucio Esquilino Augurino; due giorni dopo, alcuni cavalieri di questo esercito portarono a Roma la notizia che i soldati romani erano stati accerchiati dagli Equi e in poco tempo sarebbero caduti prigionieri. I senatori vennero convocati d’urgenza per trovare una soluzione.

Dopo febbrili consultazioni, si decise di affidare la salvezza della Repubblica a un solo uomo, Lucio Quinzio, detto «Cincinnato» (cioè «ricciuto»). Era costui un patrizio, ridotto in miseria per colpa del figlio Cesone che lo aveva privato dei suoi averi; non possedeva quasi nulla e viveva ritirato in un suo piccolo podere sulla riva destra del Tevere. Gli ambasciatori del Senato, incaricati di comunicargli la nomina a capo supremo dell’esercito, lo trovarono intento a guidare l’aratro.

«Il Senato ti affida la difesa della Repubblica» gli dissero.

Subito Cincinnato abbandonò l’aratro, indossò la toga e s’avviò con gli ambasciatori alla volta di Roma. Il giorno seguente, ancor prima dell’alba, radunò tutto il popolo nel Foro: «Ascoltate bene. Ciascun uomo atto alle armi si provveda immediatamente di viveri e di dodici pali: prima del tramonto ci metteremo in marcia».

Nessuno osò discutere un ordine che sarebbe potuto apparire strano e, in capo a poche ore, l’esercito fu pronto. In piena notte, dopo una marcia velocissima, i soldati romani raggiunsero il monte Algido. Fermate le truppe a una certa distanza, Cincinnato avanzò a cavallo per vedere tra le tenebre dove fosse accampato il nemico. Poi, diede inizio al suo piano: ordinò ai soldati di circondare nel massimo silenzio gli Equi e, non appena fosse compiuto l’accerchiamento, di alzare il grido di guerra e di piantare in fretta i pali, l’uno vicino all’altro. Nel riconoscere il grido di guerra dei Romani, il console Minucio comprese a volo e lanciò immediatamente i suoi soldati contro il nemico. Così, mentre gli Equi si difendevano da quell’attacco inaspettato, i soldati di Cincinnato ebbero agio di piantare i loro pali in tranquillità.

Le luci dell’alba mostrarono a un esercito equo esterrefatto che, nel corso della notte, senza che nessun guerriero se ne fosse accorto, la situazione si era capovolta: ora erano gli Equi a trovarsi assediati. Accerchiati e presi ormai tra due fuochi, non restò loro altro che la resa. Il piano ideato con rapidità da Cincinnato era riuscito in pieno, la Repubblica era salva!

Cincinnato impose agli Equi condizioni di pace molto dure: i nemici furono costretti a consegnare Gracco Clelio e tutti gli altri loro capi, dovettero sgombrare la città di Corbione e consegnare ai vincitori tutto ciò che possedevano, persino le vesti. Ma Cincinnato li costrinse a un’ulteriore umiliazione: ordinò che ciascuno di essi, prima di essere rimandato in patria, passasse sotto il «giogo», che era formato da tre lance, due piantate in terra e l’altra legata trasversalmente a queste, in modo che un uomo non potesse passar sotto in posizione eretta; l’umiliazione consisteva nel fatto che i soldati dell’esercito sconfitto, costretti a passare sotto il giogo, dovevano piegare la schiena e quindi inchinarsi dinanzi ai vincitori.

Rientrato a Roma, Cincinnato rifiutò le ricchezze che gli erano state offerte come ricompensa per la splendida vittoria, preferendo tornare al suo modesto podere. Tale esempio fece scuola: tra i suoi «imitatori» più illustri vi fu – molti secoli dopo – l’Imperatore Domiziano, che dopo aver rinunciato al potere si ritirò nel suo palazzo di Spalato, conducendo una vita frugale e coltivando l’orto con le proprie mani.

L’ultimo atto della guerra contro gli Equi avvenne il 19 giugno del 431 avanti Cristo, quando il dittatore Postumio Tuberto riportò sul nemico una memorabile vittoria sull’Algido (avvenimento sicuramente autentico). Gli Equi perdettero l’antica aggressività e i Romani, sui territori appena conquistati, insediarono propri coloni in piccole località, Boia, Verrugo, Labici, Carventum, Corbione, Vitellia, creando una solida testa di ponte sui colli Albani, in territori confinanti da una parte con Tuscolo e dall’altra con Praeneste, in modo da controllare la strada lungo la quale scorreva il commercio interno tra l’Etruria e la Campania. E fu proprio questa la causa principale della dura guerra che i Romani avrebbero dovuto presto sostenere contro la città etrusca di Veio!

(luglio 2019)

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