Le guerre macedoniche
Una mossa politicamente azzardata di Filippo V provocherà il crollo della terra che aveva dato i natali ad Alessandro Magno

Una caratteristica degli antichi Romani era che non dimenticavano le offese. Non le dimenticavano mai. E le avrebbero vendicate.

Il conflitto tra Roma e la Macedonia iniziò nell’anno 200 avanti Cristo. I Romani non avevano scordato che Filippo V, Monarca giovane e ambizioso, durante la Seconda Guerra Punica era stato alleato di Annibale, e tenevano d’occhio quel vicino poco fidato: possedeva il più potente esercito dei Regni Ellenistici dell’Oriente e solo un breve tratto di mare lo separava dalla Penisola. L’idea di stipulare un trattato segreto per trarre profitto dalle vittorie cartaginesi in Italia e attaccare il protettorato romano sulla costa orientale dell’Adriatico era stato suggerito a Filippo da Demetrio di Faro, Re Illirico esautorato dai Romani. Il trattato fu firmato nel 215 avanti Cristo, ma esso venne a conoscenza dei Romani che lo considerarono un atto di aperta ostilità. Il Senato inviò delle truppe al comando di Levino e più tardi di Sulpicio Galba, ma per la situazione critica in cui si trovava la Penisola fu costretto a fare affidamento soprattutto sugli alleati della Lega Etolica per combattere Filippo; nel 205 fu firmata la pace di Fenice, che fissava condizioni favorevoli al Re Macedone. Forse fu anche questo che lo spinse a concepire progetti più ambiziosi, come la conquista dell’Egitto insieme ad Antioco III di Siria, e a intraprendere una politica espansionista nell’Egeo; era un Monarca irruento e dispersivo, e nel suo programma di espansione del Regno vi fu ben poco di razionale e coordinato. Quando apparve il suo esercito presso Pergamo e Rodi, città alleate di Roma, il Senato decise di parare la minaccia inviando due legioni e una flotta di 50 navi sulle coste adriatiche nei pressi dell’odierna Corfù, per sorvegliare le mosse dell’avversario. Annibale era stato appena sconfitto e potevano essere fatti sforzi concreti sul fronte orientale. Le truppe romane si stabilirono con i loro accampamenti ai piedi delle montagne; di fronte a loro, sulle alture, stavano le postazioni macedoni.

Molte ragioni spingevano il Senato Romano a una nuova guerra: certo la necessità di difendere le proprie frontiere, ma anche per motivi economici, avere nuovi mercati per i ricchi e schiavi per le vaste tenute agricole appena acquisite in Sicilia e Sardegna nonché per le miniere di Spagna. Insomma, man mano che il dominio di Roma si estendeva, la guerra diventava sempre più non solo inevitabile, ma addirittura necessaria.

Per un certo tempo, tra Romani e Cartaginesi non accadde nulla: i due eserciti stettero parecchi mesi a sorvegliarsi a vicenda, senza combattere. Nella primavera del 198 avanti Cristo, desiderando arrivare a una soluzione, il Senato affidò il comando dell’esercito romano al giovane e risoluto Console Tito Quinzio Flaminino, un trentenne dai capelli ondulati e dal volto incorniciato da una corta barba: personaggio carismatico e abile diplomatico, appartenente al circolo liberale ellenizzante che si adunava intorno agli Scipioni a Roma, ma anche – secondo Polibio – dal carattere ambiguo e subdolo, ambizioso e avido di gloria. Questi arruolò altri 8.000 fanti e 800 cavalieri e partì da Roma deciso a iniziare al più presto le ostilità. Ma i Macedoni non sembravano aver voglia di muoversi e, d’altra parte, andare all’attacco come un ariete delle loro forti posizioni poteva tradursi in un disastro. Fu il caso ad aiutare Flaminino: alcuni pastori del luogo, forse per vendicarsi di maltrattamenti subiti a opera dei soldati macedoni, si offrirono di fargli da guida per aggirare le posizioni nemiche e prenderle alle spalle. Una parte delle truppe fu destinata a questa manovra, e dopo tre giorni l’accerchiamento delle posizioni macedoni rese possibile un attacco di sorpresa. Filippo riuscì a salvarsi, pur perdendo 2.000 uomini e tutti i bagagli. Con questo primo scontro, la guerra entrò nella sua fase «acuta»: tutti e due gli avversari furono consci che solo una grande battaglia campale avrebbe potuto decidere le sorti del conflitto.

Dopo il primo scontro vittorioso, le truppe romane occuparono parte della Macedonia e della Grecia senza incontrare eccessiva resistenza da parte del nemico. Alcune città elleniche li salutarono come «liberatori» e si allearono a loro; altre, che con la dominazione macedone avevano perso la libertà ma avevano conservato la prosperità, restarono dalla parte di Filippo.

Il Re era andato preparando un nuovo esercito, forte di una falange di 18.000 uomini, fiancheggiata da 5.500 fanti e 2.000 cavalieri; tra loro vi erano veterani ma anche ragazzi di 16 anni. Contro queste truppe il Console Flaminino poteva schierare circa 20.000 fanti, 20 elefanti e 400 cavalieri romani, più alcune migliaia di alleati greci e barbari.

La battaglia risolutiva avvenne in Tessaglia, a Cinocefale, nel luglio del 197 avanti Cristo. Si fronteggiarono la formidabile falange macedone, formata da soldati disposti in file serrate, e la legione romana, meno compatta ma più agile. I soldati macedoni erano armati più o meno come ai tempi di Alessandro Magno: imbracciavano sarisse, cioè lance lunghe sette metri e pesanti otto chili, ma sapevano maneggiare anche o il giavellotto o il «kopis», una spada ricurva; erano protetti da corazze di metallo o di lino, schinieri, elmi con creste di metallo, scudi rotondi dal diametro di 60 centimetri. La falange macedone marciando compatta travolgeva tutto e, nella difesa, le sue file raccolte potevano sostenere ogni assalto; ma aveva il difetto di necessitare di un terreno assolutamente piano e privo di ostacoli (alberi, fossati, burroni, avvallamenti, scarpate, corsi d’acqua, persino i cadaveri dei soldati abbattuti o gli scudi abbandonati al suolo creavano impedimento e dissolvevano la formazione) e oltretutto agiva soltanto frontalmente perché il pesante armamento impediva ai soldati di manovrare.

I legionari romani, protetti da scudi rotondi poco pesanti, si spostavano molto più velocemente. Erano inoltre armati armati di una spada corta e leggera, a doppio taglio, la famosa gladio: di origine iberica, pare sia stata adattata all’uso delle legioni da Scipione l’Africano, e sia stata uno dei «segreti» grazie ai quali i Romani sconfissero Annibale; micidiale sia di punta che di taglio, s’infilava rapida e guizzante sotto la guardia del nemico squarciandogli il ventre. Flaminino sfruttò abilmente le doti di manovrabilità della legione, attaccando la falange su un terreno aspro e aggirandola alle spalle: questa manovra sorprese i Macedoni, che persero ogni sicurezza e si sbandarono sul campo. La battaglia si trasformò così in una serie di duelli individuali, nei quali gli impacciati soldati di Filippo furono massacrati. Secondo le cifre più accreditate, 8.000 Macedoni caddero sul campo e 5.000 furono fatti prigionieri; i Romani ebbero solo 700 morti.

In conseguenza di questa vittoria, il Console Flaminino poté imporre la resa al Re di Macedonia: rientro nei suoi confini, alleanza con Roma e – soprattutto – abbandono di ogni pretesa sulle libere città della Grecia.

L’annuncio fu dato nel bosco di Poseidone, presso la città di Corinto: lì si svolgevano, ogni due anni, le «gare istmiche», competizioni sportive ed artistiche che appassionavano l’intera Grecia. Era quindi una «vetrina» perfetta per soddisfare l’autostima del Console. Così, nell’anno 196 avanti Cristo, il giorno dell’inaugurazione dei giochi, mentre un’enorme folla gremiva lo stadio, si presentò sull’arena un araldo seguito da un trombettiere. La tromba intimò il silenzio. Tra l’attenzione di tutti, con voce chiara e forte, l’araldo scandì: «Il Senato Romano e il comandante Tito Quinzio Flaminino, vinti Filippo e i Macedoni, ordinano che i Greci siano liberi, senza dover pagare tributi, e in possesso delle proprie leggi». Un uragano di applausi accolse queste parole, e l’urlo di gioia e il rumore delle acclamazioni furono così forti che – assicura lo storico Plutarco – alcuni corvi che volavano sopra lo stadio precipitarono morti. Per i Greci quella notizia significava il ritorno alla libertà, dopo circa un secolo e mezzo di dominazione straniera: battuto dai Romani, Filippo V aveva cessato di essere il loro interessato «protettore», più o meno ben accetto. Roma, vinto il padrone, aveva restituito la libertà ai suoi servi: anzi, offriva loro la sua protezione senza chiedere apparentemente nulla in cambio. Apparentemente.

A Flaminino i Greci resero onori eccezionali come il culto della persona e l’emissione di monete recanti la sua effigie; il Console garantì persino la completa evacuazione delle sue truppe. In realtà il suo idealismo celava un’accorta valutazione degli interessi strategici di Roma e dietro l’ostentato filo ellenismo c’era un orgoglioso aristocratico romano che pretendeva dai Greci liberati ossequio e gratitudine per i benefattori; non tardò però ad accorgersi che la sua autorità personale non era sufficiente a impedire che l’Etolia abbracciasse una politica favorevole alla Siria e a contenere le tendenze espansionistiche dell’Acaia nel Peloponneso. La guerra contro Siria ed Etolia (191-189 avanti Cristo), se giustificò le sue convinzioni sull’opportunità dell’autonomia dei Greci, compromise i rapporti con le città elleniche; oltretutto, anche se aveva restituito ufficialmente ai Greci la loro libertà, in pratica la Repubblica Romana esercitava un controllo abbastanza stretto sulla vita e sulle attività delle varie città dell’Ellade. Il Senato di Roma era disposto a lasciare i Greci liberi, a patto che la guerra e le lotte interne cessassero: ma la libertà senza guerre era un mito e significava vita monotona e tediosa per le città-stato elleniche, e i poveri si lamentavano dell’appoggio che Roma dava ai ricchi contro di loro. In Macedonia, intanto, Filippo V aveva provveduto a rafforzare la frontiera settentrionale del Regno, e a incrementare la situazione economica e demografica. Morì nel 179 avanti Cristo, forse mentre pianificava un’altra guerra contro Roma, e le sue mire espansionistiche furono fatte proprie dal figlio maggiore, Perseo, giovane di notevole personalità e intraprendenza: una moneta d’argento dell’epoca lo ritrae con un volto dalla barba cortissima e dai lineamenti delicati, quasi femminei, una massa di capelli modellati in riccioli sul capo e un’espressione risoluta. Non era benvoluto dai Romani: aveva tramato l’uccisione del fratello e rivale filo romano Demetrio (avvelenato con la falsa accusa di tradimento), e subito dopo essere salito al trono si adoperò per consolidare il potere e il prestigio della Macedonia con il risanamento economico e frequenti interventi politici in Grecia a sostegno della causa democratica.

Animato dal desiderio di riconquistare le antiche grandezza e indipendenza, Perseo dovette scontrarsi coi Romani. Raccolse un esercito di 39.000 fanti e 4.000 cavalieri, ma con le casse dello Stato e il vettovagliamento avrebbe potuto assoldare un esercito tre volte superiore; non trascurò di riattizzare il malcontento che in molte città greche si era formato verso i Romani: sapeva bene quanto potesse rivelarsi preziosa, per lui, l’alleanza dei Greci. Quando stimò che la sua preparazione fosse ormai a buon punto, diede inizio alle ostilità.

Le schiere romane e macedoni si scontrarono più volte con alterna fortuna, ma senza impegnarsi in una battaglia che fosse risolutiva.

Nel 168 avanti Cristo, a capo dell’esercito romano fu posto il Console Lucio Emilio Paolo, sessantenne, figlio di quel Lucio Emilio Paolo ch’era stato ucciso a Canne da Annibale. Uomo integerrimo, coniugava la tradizionale austerità romana con la passione per la cultura greca. Questi si preparò all’incarico con ogni cura: ottenne truppe di rinforzo, fece affluire in Grecia armi e viveri, poi si dedicò a riorganizzare l’esercito, ristabilendo la disciplina e badando soprattutto a tenere alto il morale delle truppe; ogni soldato, raccomandava, doveva curare il proprio corpo per averlo al massimo dell’efficienza e della velocità, le armi sempre pronte, le razioni di cibo predisposte per gli ordini improvvisi. Sotto la sua guida, i legionari smisero di oziare: nel campo si poteva vedere chi affilava le spade, chi lucidava gli elmi e le visiere oppure gli scudi e le corazze, chi adattava l’armatura al corpo indossandola e provando che i movimenti non ne venissero impacciati, chi vibrava le aste, chi faceva brillare le spade o ne provava la punta.

Dopo poche settimane i due eserciti, romano e macedone, si trovarono l’uno di fronte all’altro nei pressi di Pidna, in Macedonia. Un fiume separava i due accampamenti. La battaglia si può dire che fu decisa più dai soldati, che dai Generali: durante un servizio di pattuglia due squadre di Romani e di Macedoni si scontrarono, la mischia si accese furibonda e fece accorrere numerosi soldati da una parte e dall’altra, finché i due comandanti decisero di muovere l’intero esercito. Dalla parte di Perseo avanzavano i Traci, uomini di alta statura e dall’aspetto temibile, vestiti con tuniche bianche e nere, scintillanti nel metallo dei loro scudi e dei loro schinieri, armati di asce da battaglia con puntali di ferro; dietro di loro venivano truppe mercenarie, e dietro ancora la falange dei «leucaspidi» (cioè degli «scudi bianchi»), con armature dorate e vesti scarlatte, il fior fiore dell’esercito macedone per vigore giovanile e per valore; infine uscirono dal campo i reparti degli scudi di bronzo (la falange dei «calcaspidi»), riempiendo l’aria con le loro grida. Quando Emilio Paolo vide avanzare in ranghi compatti la falange macedone, adottò la stessa tattica di Flaminino: fece compiere ai suoi uomini delle incursioni a piccoli reparti, cosicché i falangiti erano costretti a opporsi a loro con lo schieramento spezzato in più punti. Circondati e attaccati da ogni parte, i Macedoni tentarono più volte di girarsi con le lunghe lance, ma i Romani, più agili, riuscirono a infiltrarsi nella fitta schiera nemica menando strage a colpi di spada. Al termine del combattimento, interrotto solo dal calar delle tenebre, più di 20.000 Macedoni erano rimasti uccisi sul campo, e 11.000 furono fatti prigionieri; i Romani ebbero un centinaio di morti. La vittoria romana era stata completa e risolutiva!

A Delfi, fu eretta una colonna sormontata da una statua equestre a perenne commemorazione della vittoria di Pidna, mentre Perseo, preso prigioniero a Samotracia, fu costretto ad assistere al trionfo del suo nemico: il carro trionfale procedeva preceduto dai littori e seguito dal Re vinto e dai suoi due figli, in catene; in coda c’era il bottino di guerra, numerosi carri carichi di oro e di argento, che rimpinguò le casse dello Stato Romano. Perseo morì in prigionia in Italia nel 165 avanti Cristo, e con lui si estinse la Monarchia Macedone: dei suoi figli, che portavano i nomi altisonanti di Filippo e Alessandro, uno morì due anni dopo il padre, l’altro diventò un oscuro scrivano di magistrati romani. Il Regno che aveva dato i natali ad Alessandro Magno cessava di esistere, venendo diviso in quattro Repubbliche rigidamente separate l’una dall’altra, sul modello della Grecia: l’intera classe dirigente fu deportata in Italia e quanti avevano combattuto per Perseo vennero tolti di mezzo. Venti anni dopo, la Macedonia sarebbe stata definitivamente trasformata in una provincia del sempre più vasto dominio di Roma!

(aprile 2020)

Tag: Simone Valtorta, guerre macedoniche, Filippo V, Alessandro Magno, Roma antica, conflitto tra Roma e la Macedonia, Seconda Guerra Punica, Regni Ellenistici d’Oriente, Demetrio di Faro, Levino, Sulpicio Galba, Lega Etolica, pace di Fenice, Antioco III di Siria, Pergamo, Rodi, Senato Romano, Tito Quinzio Flaminino, circolo degli Scipioni, Polibio, Macedonia, Grecia, guerre romano-macedoniche, falange macedone, battaglia di Cinocefale, gladio, Repubblica Romana, Perseo di Macedonia, Lucio Emilio Paolo, battaglia di Pidna, guerre romano-macedoni, falange, leucaspidi, calcaspidi, Samotracia, Monarchia Macedone.