Declino e caduta dell’Impero Romano
Non una, ma una lunga serie di cause
portarono alla fine di una delle più grandi civiltà che il
mondo ricordi
«I due più grandi problemi della storia» sosteneva J. Reid nel primo volume della Cambridge Medieval History «sono: come renderci ragione del sorgere di Roma e della sua decadenza».
Noi oggi viviamo, nei Paesi Occidentali, pressappoco nello stesso modo in cui vivevano gli antichi Romani: possiamo essere proprietari, obbediamo alle leggi promulgate dallo Stato, traiamo la nostra ricchezza dal commercio e dagli scambi. Nel Medioevo, grosso modo dal V al XV secolo, le cose andavano diversamente; durante il feudalesimo (IX-XII secolo) si può anzi dire che andassero in modo contrario: la proprietà individuale non esisteva più, lo Stato era sparito, la moneta rara, le città inesistenti, il commercio nullo; la sola sorgente di ricchezza era la terra, a cui la massa degli uomini era legata dal servaggio.
La storiografia ufficiale banalizza il problema della fine di Roma e di tutta la civiltà antica attribuendola alle invasioni dei popoli germanici nel V secolo; ma è una spiegazione che non regge. I Romani erano abituati da secoli a combattere i barbari, e a vincerli. Le orde di Germani che dilagano per ubertose campagne distruggendo e bruciando ogni cosa, appartengono all’immaginario popolare, non alla storia. I Visigoti di Alarico che saccheggiarono Roma il 25 agosto 410, riuniti a Pavia prima dell’assalto, sappiamo che non erano più di 20.000, donne, vecchi e bambini compresi: di fronte a loro, c’era un Impero immenso, che distendeva le sue leggi, il suo ordine e la sua pace dalla Scozia al Golfo Persico, dal Sudan al Danubio e al Reno. Ma un Impero che era già morto per conto suo, consumato, imputridito, rovinato; la caduta dell’Impero Romano non fu un crollo improvviso, ma il risultato di una corrosione che andò avanti per secoli – ci sono Stati che non hanno nemmeno vissuto il tempo che ci ha messo Roma a cadere.
Per capire che cos’era successo, bisogna riferirsi a come si era costituito l’Impero Romano e di che cosa viveva. Roma, piccolo borgo di contadini poveri e coraggiosi, a forza di contendere ai suoi vicini le buone terre da grano, era partita senza saperlo alla conquista del mondo, edificando uno dei più grandi e longevi Imperi della storia senza avere un preciso piano di espansione. Prima soggiogò i vicini più prossimi per assicurare le proprie frontiere, poi passò a battersi e a sconfiggere nuovi nemici su nuove frontiere, limitandosi inizialmente a fare quello che richiedevano le circostanze del momento. L’Italia sottomessa; Cartagine, possibile rivale e padrona del mare, distrutta; e per finire, tutto il bacino mediterraneo occupato. I soldati vinti ridotti in schiavitù, i Paesi conquistati messi a sacco, le loro ricchezze e i loro tesori – quelli dell’Oriente soprattutto – portati a Roma. L’Impero era «una civiltà che non mancava né di vigore, né di maturità, né di virilità», come la definì H. Urs von Balthasar (Das Ganze im Fragment; traduzione italiana: Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano): poche civiltà sono state così sicure di se stesse, così coscienti della propria grandezza.
La Roma del tempo d’Augusto e di Virgilio, quella, nel secolo seguente, dei buoni Imperatori Antonini, volle riprendere e completare l’opera civilizzatrice di Atene: Pax Augusta, l’ordine ovunque, il diritto, un’amministrazione non corrotta, uno Stato liberale che riduce i suoi servizi e, di conseguenza, le sue esigenze, al minimo. Ma le sue immense ricchezze venivano divise non fra tutti i Romani, ma fra i loro capi, i ricchi, senatori e generali, forse duecento famiglie: persone immensamente, favolosamente ricche e potenti.
Questi Romani non si accontentarono di godersi la vita con i grandi beni di cui potevano disporre, ma si preoccuparono di collocare il capitale perché desse un interesse. Comprarono quindi della terra o se ne fecero attribuire per diritto di conquista e vi produssero del grano a buon mercato, grazie alla manodopera servile, formandosi così possedimenti tanto vasti che, per esempio, nel III secolo della nostra èra, tutta la Tunisia attuale non apparteneva che a sette persone. E i piccoli contadini, incapaci di resistere alla concorrenza dei grandi proprietari, furono costretti a cedere a poco a poco e a basso prezzo le loro terre. Tuttavia i Romani facevano anche venire le sete dalla Cina, le spezie dall’India, dal Levante gli oggetti d’arte che l’Occidente non produceva. Così a poco a poco, finite le conquiste, il denaro predato in Oriente tornava in Oriente. I Romani non avevano nulla da esportare in cambio delle loro importazioni, ma anche se se ne resero conto, nulla poté arrestare l’emorragia dell’oro. Tutto ciò durò circa due secoli e improvvisamente, verso il 200, ci si accorse che non c’era più denaro nell’Impero. Gli Imperatori poterono ben svalutare la moneta, mettere piombo nell’oro, moltiplicare i pezzi di bronzo, nulla servì. I prezzi delle cose necessarie per vivere salirono vertiginosamente. Nel 344 il grano egiziano costava 6.680 volte di più che nel 294. Mezzo secolo dopo, sarebbero occorse 16 tonnellate di monete di bronzo per comperarne 25 chilogrammi. Qualsiasi commercio diventò impossibile. (La pressione tributaria, ovviamente, salì: si cercava di far quattrini in ogni modo, e le tasse colpivano tanto la persona, quanto i suoi beni. Chi ci rimise, in particolare, era la classe media, la «borghesia», sempre più tartassata e impoverita).
Bisognava tornare alla terra e chiederle di produrre quello di cui c’era bisogno, ma mancavano le braccia. Dopo due secoli di pace romana, era ormai lontano il tempo in cui ci si potevano procurare delle «infornate» di schiavi; bisognava aver cura di quelli che restavano, ed erano Cristiani. Bisognava impedire agli ultimi contadini liberi, agli ultimi artigiani, di abbandonare il loro lavoro e di emigrare verso la città. Cipriano verso il 230, rispondendo all’accusa che i Cristiani erano la causa delle disgrazie dell’Impero (un’accusa riesumata di tanto in tanto anche ai giorni nostri), nell’Ad Demetrium attribuiva queste a cause naturali: «Voi dovete sapere che il mondo è diventato vecchio e non ha più il suo antico vigore. Esso porta i segni del suo declino. La pioggia e il calore del sole sono in diminuzione; i metalli sono quasi esauriti; l’agricoltore sta scomparendo dai campi».
Una serie di cause affrettò il declino dell’Impero. La famiglia, fulcro di ogni società, non reggeva: si divorziava con troppa disinvoltura, i figli non erano graditi, i giovanotti dimostravano scarso slancio di fronte alla prospettiva del matrimonio. Ci si sposava tardi, e ciò comportava una drastica diminuzione delle nascite; l’aborto, l’infanticidio, l’evirazione dei fanciulli diventarono pratiche comuni. Pestilenze e carestie falcidiavano la già scarsa popolazione. Solo gli Orientali e i Germani erano in continua crescita demografica, dentro e fuori l’Impero; e gli Imperatori furono costretti ad aprire le frontiere a questi «immigrati», che disprezzavano la civiltà romana e non sentivano alcun desiderio di preservarla (esattamente l’atteggiamento dei musulmani di oggi nei confronti della civiltà occidentale). La decadenza dello spirito civico, dell’amore per le funzioni pubbliche, la perdita della voglia di arruolarsi nelle forze armate costrinse a ricorrere ai mercenari germanici, che giuravano fedeltà al loro comandante, anziché all’Imperatore.
Le tribù barbare cominciarono ad invadere i territori romani senza incontrare resistenza. I pretoriani, cioè le guardie dell’Imperatore, cercavano di vendere il Trono al miglior offerente, ma questi Imperatori venivano assassinati se non potevano pagare la fedeltà dell’esercito, oltre alle forti somme di danaro ch’essi dovevano dare ai capi barbari per evitare che attaccassero le frontiere.
Dal 235 al 284 l’Impero conobbe una crisi terribile nella quale quasi soccombeva; ma, grazie alla politica energica di Diocleziano, la sua storia prese nuovo slancio: con lui s’instaurò un nuovo tipo di Stato, una Monarchia assoluta che si appoggiava su un potente apparato amministrativo. Ma le capitali erano ormai Ravenna, Milano, Treviri, Costantinopoli, Sirmio; Roma era rimasta solo un centro culturale e religioso, non era che il fantasma di se stessa, dell’antica Capitale del Mondo: greggi di capre pascolavano nel Foro e solo una sparuta rappresentanza degli antichi cittadini si aggirava ancora tra le sue vie. Alle frontiere dell’Impero, gli Imperatori avevano installato dei popoli barbari con statuto federale e avevano rinforzato i limes – linee fortificate tra il Reno e il Danubio – per contenere i Germani.
Verso il 300, Diocleziano decise di fissare ciascuno al suo posto: lo stesso mestiere di padre in figlio, di padre in figlio la stessa terra da coltivare, e l’obbligo di sposarsi nella propria corporazione e nella propria classe. Questa sarà esattamente la sorte dei servi del Medioevo. Ma non bastava: il grande proprietario giunse a cedere un diritto su una parte del suo dominio a degli uomini liberi, i cosiddetti coloni, in cambio di un lavoro e di manodopera: faranno sulla sua terra l’aratura e la mietitura. E poiché l’Imperatore non poteva pagare i suoi funzionari e i suoi soldati, e quindi non poteva farsi obbedire, il grande proprietario divenne un vero Sovrano nel suo dominio. Lui solo poteva ancora riscuotere le imposte, ma lo faceva per se stesso; lui poteva rendere giustizia, ma la sua; lui poteva prendere le persone condannate per debiti e buttarle in prigione: le sue prigioni private. Egli solo poteva sollevare la sua milizia per difendere il dominio, la villa, la futura Signoria. In cambio di ciò, obbligherà i contadini a lavorare per lui. Era tutto pronto per il Medioevo.
Alla morte dell’Imperatore Teodosio, nel 395, l’Impero venne diviso in due, con Ravenna capitale dell’Occidente e Costantinopoli dell’Oriente – due Stati separati e in lotta fra loro. Fu a questo punto che arrivarono i Germani, a dare il colpo di grazia all’agonizzante Impero.
Alla fine del IV secolo, sotto la spinta degli Unni – popolazioni turco-mongoliche – i barbari avanzarono verso Occidente per ondate successive: in un primo tempo i nomadi iranici, Sarmati e Alani, poi i Goti. Nel 376 il popolo visigoto domandò asilo all’Imperatore Valente e varcò il Danubio. Due anni più tardi, la cavalleria dei Goti sconfisse l’esercito romano ad Adrianopoli e Valente venne ucciso. I Visigoti si espansero nell’Impero e saccheggiarono Roma nel 410. La caduta della Città Eterna provocò sbigottimento: Agostino rassicurò i Cristiani scrivendo il De civitate Dei. I Visigoti finirono per installarsi, con l’autorizzazione imperiale, nel Sud della Gallia e in Spagna.
JN Sylvestre, Sacco di Roma ad opera dei Visigoti, 1890
Alani, Svevi e Vandali, che avevano varcato il Reno nel 406, traversarono la Gallia e la Spagna. Sotto il comando di Genserico, i Vandali continuarono la loro avanzata fino in Africa. Impadronitosi di Cartagine, il grande porto esportatore di grano, il Re Genserico perseguitò i Cattolici.
Gli Unni di Attila, installati nel bacino del Danubio, invasero l’Occidente nel 451. Non poterono impadronirsi di Parigi, difesa da Santa Genoveffa, né di Orleans, e vennero infine sconfitti da Ezio e dalle sue truppe romane e gote ai Campi Catalunici, nei pressi di Troyes. L’anno successivo, Attila tentò di invadere l’Italia, ma rinunciò ad avanzare più a Sud di Mantova, cedendo alle richieste di Papa Leone Magno.
Nella seconda metà del secolo, gli Stati barbari si diedero un’organizzazione. I Burgundi si installarono tra Langres e Avignone, in Sapaudia (termine che darà poi origine a «Savoia»). Gli Angli, gli Juti e i Sassoni invasero la Bretagna e respinsero i Celti verso Occidente. I Visigoti estesero il loro dominio dalla Loira fino al Sud della Spagna.
Veri e propri zimbelli nelle mani dei principi barbari, a Ravenna gli Imperatori si succedevano velocemente, finché Odoacre decise di mettere fine alla farsa: prese il posto dell’ultimo Imperatore, Romolo Augustolo, e restituì le insegne imperiali a Costantinopoli, accontentandosi di governare l’Italia – nominalmente – come «patrizio» dell’Imperatore d’Oriente. L’Impero Romano, in Occidente, era definitivamente crollato. E non risorgerà più!