Quote della popolazione extracomunitaria in Europa
Un fenomeno in rapida crescita destinato a modificare rapporti politici e sistema economico

La questione delle «invasioni» extra-comunitarie in Europa sta assumendo proporzioni sempre più importanti ma proprio per questo è necessario conoscerla meglio per mezzo delle cifre reali, dalle quali emerge senza alcun ragionevole dubbio che i Paesi maggiormente interessati da questo flusso, almeno per il momento, sono relativamente pochi: nell’ordine, Francia, Bulgaria, Germania, Regno Unito, Spagna e Italia, che assorbono quote largamente maggioritarie del fenomeno immigratorio, mentre gli altri finiscono per assumere un ruolo sostanzialmente comprimario.

In Francia e in Germania l’incidenza degli arrivi ha raggiunto o superato la quota di un quinto rispetto alla popolazione residente: trattandosi dei due maggiori Paesi Europei, va da sé che il loro apporto agli ingressi extra-comunitari è stato decisivo, ben più di quanto si possa dire per gli altri Paesi maggiormente interessati, a cominciare dalla stessa Bulgaria, prima destinazione geografica dei più recenti flussi migratori in arrivo dall’Ucraina dopo lo scoppio del conflitto con la Russia. Fra i Paesi di accoglienza prioritaria trovano posto, del pari, anche la Gran Bretagna e la Spagna, sia pure per motivazioni diverse, quali le provenienze maggioritarie dalle zone d’influenza inglese nel primo caso, e quelle dall’Africa Mediterranea nel secondo, mentre l’Italia figura in sesta posizione, ma con flussi globali in notevole accelerazione.

Oltre le cifre globali necessariamente approssimative, se non altro perché una parte non marginale dei movimenti si riferisce a quote d’immigrazione non ufficiale, dal quadro d’insieme emerge che i sei Paesi in questione si differenziano nettamente dagli altri, dove l’incidenza del fenomeno migratorio sugli equilibri economici e sociali interni si riduce sino a quote minime, se non tendenti quasi a zero, mettendo in luce l’esistenza di un’Europa bipolare, caratterizzata da livelli ben diversi della predetta «invasione» e quindi, da squilibri potenzialmente maggiori nei Paesi leader, a cominciare da Francia e Germania, dove quello dell’immigrazione è diventato un problema prioritario.

La storia dimostra che il fenomeno non è nuovo, perché le ondate d’immigrazione si sono susseguite nei secoli con ricorrenze frequenti, da quelle barbariche del primo millennio ai grandi flussi degli ultimi secoli, provenienti prima dall’Oriente e poi da oltremare. Tuttavia, non ci sono dubbi sul fatto che la sua consistenza abbia raggiunto dimensioni straordinarie, destinate a produrre effetti di lungo termine, verosimilmente irreversibili anche sul piano delle fedi religiose, delle organizzazioni politiche, della cultura e della stessa tendenza al confronto conflittuale: fermo restando, a quest’ultimo riguardo, l’auspicio che il sistema giuridico mondiale sia davvero in grado di elidere ogni possibile contrasto.

Il mondo sta diventando sempre più piccolo, se non altro per l’elisione delle grandi distanze e per lo sviluppo dell’integrazione che ne è scaturito, sia pure fra notevoli difficoltà, inducendo spunti utili a dirimere le controversie, ivi comprese quelle rivenienti da fattori razziali. Indubbiamente, molto resta da fare, anche sul piano di un’autentica funzionalità delle Organizzazioni internazionali e della loro capacità d’intervento correttivo, ma il progresso civile costituisce la sola «chance» di garantire a popolazioni rapidamente crescenti la possibilità di fruire di un mondo davvero migliore, e libero, se non altro, dalla fame e dal sottosviluppo.

Le provenienze più importanti dell’immigrazione in Europa hanno avuto riguardo prevalente a quella in arrivo dall’Africa, e subordinatamente dall’Asia, con ovvie priorità per quelle caratterizzate da alti livelli di povertà. Anche sul piano delle previsioni a breve e medio termine, è proprio quello africano il continente più propenso ad alimentare crescenti flussi migratori, se non altro per il fallimento delle iniziative volte a promuovere gli interventi dei Paesi sviluppati per l’avviamento di adeguate iniziative industriali in Africa, con priorità per quelle di valorizzazione e di verticalizzazione delle cospicue risorse locali. Al riguardo, basti rammentare che, a vent’anni dalla Conferenza mondiale del 2002 in cui era stato deciso di destinare a tal fine almeno un punto percentuale del prodotto lordo di detti Paesi, tale disegno è rimasto puntualmente sulla carta, confermando l’antico assunto circa il destino di tante buone intenzioni, ma nello stesso tempo, la loro permanente attualità.

In questo senso, non è motivo di soverchia sorpresa che le cosiddette «carrette del mare» trasferiscano attraverso il Mediterraneo cifre crescenti di disperati, troppo spesso con la triste conseguenza di tante vittime incolpevoli, sacrificate all’ingordigia degli «scafisti» e all’incapacità dei Paesi leader di governare questi flussi in maniera accettabile, tanto più che solitamente si tratta di clandestini, non senza talune infiltrazioni malavitose. In poche parole, nella migliore delle ipotesi l’Europa ha messo in luce una sostanziale impotenza, cui non sono estranei, peraltro, ricorrenti atteggiamenti di «laisser faire».

Non sono mancate conseguenze ragguardevoli, soprattutto nei Paesi di maggiore immigrazione, anche sul piano dei rapporti economici e sociali, a cominciare da quelli di lavoro, vista la concorrenza ribassista praticata dagli immigrati, propensi ad accettare condizioni largamente peggiorative anche rispetto ai minimi sindacali vigenti: di qui, talune maggiori difficoltà per l’occupazione dei lavoratori «nazionali» tradotte in crescite talvolta considerevoli di «senza lavoro». Il problema può essere più importante di quanto sembri a prima vista, perché idoneo a produrre un disagio fonte di proteste non sempre infondate, e di conseguenze politiche dagli effetti durevoli. Ciò, senza contare altri effetti non facilmente quantificabili ma comunque palesi, come quelli sulla qualità e sulla stessa produttività del lavoro.

Il meno che si possa dire è che in Europa, continente visto come destinazione preferita dell’immigrazione, con particolare riguardo alle provenienze dal «serbatoio» africano, quello di regolare i flussi costituisce un problema oggettivamente complesso. Nondimeno, proprio per questo è tale da richiedere misure comuni, adottate con criteri di ragione solidale ma nello stesso tempo, di realismo, non essendo interesse di chicchessia aprire le porte a una vera e propria «invasione» largamente superiore, almeno sul piano dei numeri potenziali, a quelle degli antichi «barbari». Intanto, sono proprio le cifre, con il loro linguaggio impietoso che trascende ogni possibile discrasia, a dimostrare che la questione appartiene al ristretto novero di quelle veramente fondamentali, unitamente al clima, alla salute pubblica e al controllo delle armi, e quel che più conta, in una prospettiva dalle dimensioni bibliche.

Soprattutto, è congruo e funzionale attirare l’attenzione sul rischio che la tecnica del rinvio, adottata a diversi livelli decisionali, sia la meno adatta a perseguire un programma organico di sviluppo «compatibile» basato sulla cooperazione internazionale, e quindi, su interessi convergenti di Stati e di popoli. Non è mai troppo tardi per agire con ragione e consapevolezza, e per quanto possibile con fede, nell’intento, certamente condiviso da maggioranze plebiscitarie, di assicurare al mondo un avvenire umano e civile conforme agli auspici della «volontà generale».



Paese

% popolazione extracomunitaria
Popolazione
(in milioni)

Popolazione
extracomunitaria (in milioni)

Ordine

Francia

35
64.1
22.4
(1)

Bulgaria

30
7.0
21.00
(2)

Germania

24
83.0
19.92
(3)

Regno Unito

25
63.1
15.78
(4)

Spagna

25
46.8
11.70
(5)

Italia

15
60.4
9.06
(6)

Olanda

22
16.8
3.70
(7)

Romania

18
19.2
3.46
(8)

Belgio

28
11.6
3.25
(9)

Portogallo

20
10.2
2.04
(10)

Svezia

20
9.9
1.98
(11)

Svizzera

15
8.7
1.31
(12)

Ungheria

10
9.7
0.97
(13)

Austria

10
9.0
0.90
(14)

Norvegia

15
5.4
0.81
(15)

Danimarca

11
5.8
0.64
(16)

Slovacchia

10
5.5
0.55
(17)

Repubblica Ceca

5
10.7
0.54
(18)

Irlanda / Eire

10
4.9
0.49
(19)

Finlandia

8
5.5
0.44
(20)

Grecia

3
10.4
0.31
(21)

Slovenia

2
2.1
0.04
(22)

Croazia

1
4.1
(Parlamento)
0.04
(23)

Altri[1]

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Nota

1 Gli altri Paesi dell’Unione Europea (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta) hanno un’incidenza della popolazione extracomunitaria inferiore al punto percentuale. Le quote di Andorra, Città del Vaticano, Liechtenstein, Monte Athos, Principato di Monaco, San Marino, sono comprese in quelle degli Stati con cui vigono accordi di rispettiva unione doganale. Per quanto riguarda la Polonia nell’ambito di quelli comunitari, e gli altri Paesi Europei non appartenenti all’Unione (Albania, Armenia, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Georgia, Islanda, Macedonia, Moldova, Montenegro, Serbia, Ucraina) non sono disponibili dati aggiornati.

(settembre 2023)

Tag: Carlo Cesare Montani, Europa, Francia, Bulgaria, Germania, Regno Unito, Spagna, Italia, Ucraina, Russia, Africa, Asia, Mare Mediterraneo, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Andorra, Stato della Città del Vaticano, Liechtenstein, Monte Athos, Monaco, San Marino, Polonia, Albania, Armenia, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Georgia, Islanda, Macedonia, Moldova, Montenegro, Serbia, Unione Europea, Conferenza mondiale per la Cooperazione, 2002, priorità del fattore lavoro, invasioni barbariche, flussi migratori.