Italia e Jugoslavia dal Ventennio fascista alla cooperazione europea
Un’esperienza storica maturata all’insegna di competizioni e dell’auspicata distensione

Dal momento in cui il nuovo Stato Jugoslavo ebbe il proprio battesimo alla fine della Grande Guerra, sulle ceneri dell’Impero Austro-Ungarico, le sue relazioni con l’Italia fecero registrare un andamento ondivago sia nell’immediato, sia nel lungo periodo del Ventennio Fascista, alimentando interpretazioni storiografiche non sempre univoche. Tali discrasie possono essere comprese meglio quando si pensi alla rilevanza degli eventi maturati in quell’epoca di forti contrapposizioni, ma nello stesso tempo, di una ricerca non sempre velleitaria di equilibri migliori, e di possibili esperienze collaborative.

In realtà, le contrapposizioni furono sostanzialmente maggioritarie. Basti pensare, anzitutto, alle vicende degli anni Venti, con la cosiddetta «Vittoria mutilata» dell’Italia, a tutto vantaggio della nuova Jugoslavia costituita con i trattati di Versailles quale «Regno degli Slavi del Sud», e quindi, all’Impresa dannunziana di Fiume che ne fu conseguenza logica. Poi, si consideri il colpo di Stato con cui, nel marzo 1941, il Governo Monarchico di Belgrado decise l’improvviso passaggio dall’Asse all’Intesa, provocando l’intervento degli Stati contigui, reso necessario dalle esigenze tattiche e strategiche imposte dal Conflitto Mondiale già in corso. Tale intervento, fra l’altro, non si sarebbe limitato alla discesa in campo della Germania e dell’Italia, ma coinvolse anche l’Ungheria e gli altri Stati Balcanici confinanti: nondimeno, le conseguenze, comprese quelle di lungo termine, si sarebbero avvertite soprattutto da parte italiana.

A proposito del trattato di pace del 1919, conviene rammentare che i suoi disposti sacrificarono in larga misura gli Accordi di Londra del 1915, con cui l’Italia aveva deciso per l’intervento nella guerra iniziata dieci mesi prima, abbandonando la vecchia alleanza con gli Imperi Centrali: ciò, con particolare riguardo alla rinuncia quasi totalitaria alla Dalmazia, sia pure con l’acquisizione della piccola «enclave» di Zara, senza dire del problema di Fiume, il cui Consiglio comunale, ancora negli ultimi giorni di guerra, aveva fatto appello al principio di autodeterminazione dei popoli per chiedere l’annessione all’Italia, prontamente osteggiata da parte jugoslava. Roma era sembrata accettare il fatto compiuto, ma non aveva messo in conto l’opposizione delle forze nazionali, che avallarono l’opposizione guidata da Gabriele d’Annunzio, diventata concreta con la Marcia di Ronchi, l’occupazione di Fiume, e infine, la proclamazione della Reggenza Italiana del Carnaro, che peraltro ebbe vita breve, perché travolta dal Natale di Sangue del 1920 e dalla creazione dello Stato Libero governato da Riccardo Zanella – a sua volta destinato all’insuccesso – alla luogotenenza del Generale Gaetano Giardino, e nel gennaio 1924 (a quattordici mesi dall’ascesa al potere del nuovo Governo Mussolini) al trattato di Roma che, lasciando alla Jugoslavia il sobborgo di Susak oltre la Fiumara, chiuse la questione con il trasferimento di Fiume sotto la piena sovranità italiana: un traguardo che apparve definitivo, anche alla luce delle prime aperture al dialogo con Belgrado.

Non a caso, la Convenzione di Nettuno dell’anno successivo avrebbe regolato in maniera organica e funzionale diversi problemi di notevole importanza locale come il traffico frontaliero, il regime della pesca nel Golfo del Carnaro, e la tutela dei diritti delle minoranze. In sostanza, a livello politico il tentativo di avviare intese di buon vicinato si distinse per il reciproco impegno, anche se fu pesantemente coartato dall’oltranzismo nazionalista jugoslavo che, sempre nel 1925, dette prova immediata delle sue intenzioni non certo pacifiche: ciò accadde, in particolare, con l’uccisione di due carabinieri a opera del movimento terroristico «Orjuna» e con la successiva assoluzione dei responsabili processati a Lubiana; poi, con manifestazioni croate e slovene contro le simpatie filo-italiane di parte serba; e soprattutto, con la mancata ratifica jugoslava del trattato di Roma e della Convenzione di Nettuno, fra le cui motivazioni si sarebbe invocata, come causa prioritaria, la statuizione del protettorato italiano sull’Albania (1926).

Un anno dopo, il Governo di Roma predispose lo strumento per «italianizzare» la toponomastica dei territori acquisiti dopo la Grande Guerra, peraltro già prevalentemente italofoni almeno nei centri maggiori, e soprattutto i cognomi, su cui molto si sarebbe insistito in tempi successivi quale manifestazione di una presunta volontà persecutoria che in effetti non esisteva, perché parecchi di quei cognomi erano stati “slavizzati” in epoca asburgica, senza dire che la richiesta da parte degli aventi causa rimase facoltativa.

Verso la fine degli anni Venti il terrorismo slavo, anche attraverso l’altro movimento irredentista «TIGR» (acronimo di Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka – quest’ultima quale traduzione croata di Fiume) si produsse in nuovi tentativi di violenza organizzata, tra cui l’attentato di Pisino (1929) seguito dal processo e dalla condanna capitale a carico di Vladimir Gortan, mentre l’anno dopo si ebbero ulteriori attentati con vittime, al Faro della Vittoria e al «Popolo di Trieste», cui fece seguito un altro processo che vide alla sbarra una novantina di imputati e che si concluse con le condanne a morte dei «Quattro di Basovizza» (le sole, unitamente a quella del Gortan, comminate dal Tribunale Speciale nel ventennio compreso tra la Marcia su Roma e la deflagrazione del conflitto italo-jugoslavo del 1941 nell’ambito più ampio della Seconda Guerra Mondiale).

Si trattava di azioni organizzate e coordinate, finalizzate a scopi strategici eversivi, che diedero luogo a un centinaio di episodi analoghi, tanto che il «Corriere della Sera» del 4 aprile 1931 avrebbe potuto definire le condizioni del momento alla stregua di un autentico stato di guerra, reso più visibile dalla nuova «Unione Emigranti dalla Venezia Giulia» con sede a Belgrado, che avrebbe promosso la fuoriuscita di circa 30.000 persone, finalizzata anche a evitare il richiamo alle armi, con punte massime nel 1935, in concomitanza col conflitto italo-etiopico, e nel periodo precedente allo scoppio di quello italo-jugoslavo. A proposito della predetta Unione, conviene aggiungere che nel 1934 tenne a Maribor il suo primo Congresso, in cui fu confermato l’obiettivo primario di «staccare la Venezia Giulia dall’Italia». Nondimeno, l’Italia non disdegnava di foraggiare il separatista croato Ante Pavelic e i suoi ustascia, ospitandoli e istruendoli nel numero di diverse centinaia.

Eppure, i tentativi di alimentare una politica di buon vicinato non mancarono, nonostante tali oggettive difficoltà. Tra le cause più importanti del fenomeno si devono segnalare, fra l’altro, l’ostracismo anti-italiano delle maggiori Potenze Occidentali che fece seguito alla guerra d’Etiopia, bilanciato solo in parte dall’avvicinamento al Reich Tedesco, e soprattutto, la nuova «entente cordiale» formalizzata il 25 luglio 1937 col patto firmato dal Presidente Jugoslavo Milan Stojadinovic e dal Ministro degli Esteri Italiano, Galeazzo Ciano. Con questa intesa, le relazioni fra l’Italia e la Jugoslavia entrarono nel periodo migliore del Ventennio, anche se indussero motivate perplessità negli ambienti del patriottismo dalmata, che vedevano allontanarsi in maniera indefinita le speranze di riscatto della loro terra. D’altro canto, quell’avvicinamento ebbe sostanza concreta: fra le misure di maggiore consistenza politica, è congruo rammentare l’amnistia italiana ad alcuni condannati slavi, il rinnovato impulso al traffico frontaliero e agli scambi commerciali di carattere locale, qualche ripresa della stampa slovena in Italia, e la smobilitazione delle presenze ustascia in alcune zone appenniniche. Soprattutto, si ebbe un importante riflusso del terrorismo, confermando che le iniziative di cooperazione sono in grado di indurre frequenti risultati positivi.

Nondimeno, l’accordo Stojadinovic-Ciano ebbe vigenza breve, sebbene di buona rilevanza anche sul piano degli effetti strategici e psicologici. Infatti, il Presidente Jugoslavo, che nel 1938 aveva avviato un considerevole avvicinamento al Vaticano, sebbene osteggiato dall’opposizione ortodossa, segnatamente in Serbia, fu costretto alle dimissioni nel 1939 quando fu sostituito da Dragisa Cvektovic e condannato a un lungo esilio, dapprima a Mauritius e poi in America Latina. Tuttavia, lo spirito collaborativo avrebbe potuto conservare risultati più duraturi, qualora non fosse stato soppiantato dai venti di guerra che nel 1939 portarono al nuovo Conflitto Mondiale, e per quanto riguarda i rapporti fra Italia e Jugoslavia, alla rottura definitiva del 1941, desinata a produrre effetti di lungo termine. La storia non è in grado di accogliere presunzioni, né tanto meno illazioni, ma non è fuori luogo ipotizzare che, qualora Stojadinovic avesse potuto sviluppare i suoi programmi di politica estera a più lungo termine, le vicende del confine orientale italiano avrebbero assunto caratteri diversi, anche per quanto si riferisce alle tragiche vicende conclusive del grande Esodo plebiscitario e delle troppe vittime infoibate o diversamente massacrate dalle milizie di Tito.

In un quadro oggettivo, e per quanto possibile alieno da ogni strumentalizzazione di comodo, si deve riconoscere che nel Ventennio in questione, nonostante le difficoltà e le incomprensioni rivenienti da una lunga storia, non è mai esistita una volontà persecutoria di parte italiana, anche se gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, alla fine, hanno dato luogo a una stagione ferina di uomini «tutta ferocia» – secondo l’immaginifica definizione del Vico – in cui la logica spietata delle armi ha indotto la surreale lotta di «tutti contro tutti»: in un primo tempo, anche dopo il disfacimento della ex Jugoslavia avvenuto nello scorcio conclusivo del Novecento, con il conseguente avvento delle nuove Repubbliche indipendenti, due delle quali (Croazia e Slovenia) hanno perfezionato, ormai da parecchi anni, la propria adesione all’Unione Europea.

Oggi, nell’ambito del pur complesso spirito comunitario, è fondato confidare che la collaborazione possa consentire il superamento delle ricorrenti discrasie residue, e con esso, un’interpretazione costruttiva e razionale del principio di nazionalità, quale lezione della storia, accettazione del dialogo come strumento di antitesi alle controversie, arra di vero e durevole sviluppo civile.

(giugno 2023)

Tag: Carlo Cesare Montani, cooperazione italo-jugoslava, Italia, Jugoslavia, Versailles, Fiume, Belgrado, Germania, Ungheria, Imperi Centrali, Dalmazia, Zara, Roma, Susak, Canale della Fiumara, Carnaro, Albania, Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka, Pisino, Maribor, Venezia Giulia, Etiopia, Terzo Reich, Città del Vaticano, Serbia, Mauritius, America Latina, Croazia, Slovenia, Unione Europea, Gabriele d’Annunzio, Riccardo Zanella, Gaetano Giardino, Benito Mussolini, Vladimir Gortan, Quattro di Basovizza, Ante Pavelic, Milan Stojadinovic, Galeazzo Ciano, Dragisa Cvektovic, Maresciallo Tito, Giambattista Vico, Grande Guerra, Vittoria Mutilata, Accordi di Londra del 1915, Marcia di Ronchi, Reggenza Italiana del Carnaro, Natale di Sangue, Convenzione di Nettuno, Orjuna, TIGR, Faro della Vittoria, Il Popolo di Trieste, Marcia su Roma, Seconda Guerra Mondiale, Corriere della Sera, Unione Emigranti dalla Venezia Giulia.