Croazia in Europa
Un decennale per riflettere

La Croazia è stata l’ultimo Paese a fruire dell’accoglienza in Europa, avvenuta nel 2013. In occasione del decennale, tanto più ragguardevole perché nel frattempo la compagine comunitaria ha perduto una «partnership» di alto rilievo come quella britannica, conviene rammentare che, soprattutto in Italia, l’evento fu oggetto di unanimi valutazioni positive se non anche encomiastiche, e talvolta, addirittura più lusinghiere di quelle che, con ben altri fondamenti e motivazioni, avevano coinciso in tempi molto più lontani con la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca.

È comprensibile, per ragioni economiche non meno importanti dei richiami all’ideale comunitario, che in quell’occasione, a Zagabria si fosse suonato l’Inno alla Gioia, tanto più che l’ingresso nella cosiddetta Casa comune coincideva con una pioggia di mezzi finanziari davvero ragguardevole, anche in proporzione al numero dei destinatari[1]. In effetti, la destinazione di quei mezzi riguardava prioritariamente le infrastrutture, cui furono equiparati notevoli interventi per il turismo – sempre idoneo a promuovere sviluppo – e per le costruzioni edilizie a esso collegate, sia nel momento alberghiero, sia in quello delle seconde case. Ne ha tratto origine un’espansione oggettivamente importante, molto avvertita anche sul piano della concorrenza, e quindi, con taluni effetti non proprio positivi soprattutto in Italia.

Si potrebbe discutere non poco sui criteri di commistione fra gli investimenti infrastrutturali, e come tali di competenza pubblica, e i finanziamenti ad attività privatistiche del terziario, ma il discorso porterebbe lontano. È il caso di precisare, invece, che le speranze italiane connesse alla nuova presenza croata in Europa si sono rivelate in buona misura illusorie. L’assunto vale anche per gli investimenti, che hanno continuato a preferire quelli provenienti dall’area germanica e danubiana, anche alla luce di tradizioni consolidate se non anche antiche, come quelle che risalgono al lungo periodo asburgico.

È vero che la Croazia ha tuttora una disoccupazione ai massimi livelli europei, cosa che contribuisce a rendere sempre competitivo il suo costo del lavoro, ma è altrettanto vero che le posizioni di partenza vedono in ovvio vantaggio i Paesi che avevano già consolidato parecchi rapporti competitivi.

Nel 2013 l’Italia non volle esimersi dall’alzare il gran pavese alla stregua di quanto aveva già fatto un decennio prima con la storica presenza del Capo del Governo Romano Prodi al valico confinario di Gorizia per «benedire» la nuova «partnership» con la Slovenia, non tanto per promuovere un disegno organico di cooperazione, quanto per inseguire i suoi tradizionali conati di amicizia transfrontaliera, se non anche di «pacificazione». Ciò, dimenticando che, grazie al cielo, la pace con il mondo balcanico, al pari di quella con gli Alleati, dura dal 1947 e non è mai stata posta in discussione, a costo di subire umiliazioni che sarebbero state facilmente evitabili e che non giovarono a chicchessia, come accadde nel 1975 con il trattato di Osimo.

Qualcuno, commentando la svolta storica con cui l’Europa comunitaria si è progressivamente spostata nel cuore dei Balcani sino al confine albanese, aveva ipotizzato che ciò potesse significare una singolare sorta di «riunificazione» dell’Adriatico: concetto attraente ma in sostanza metagiuridico, perché il mare non può essere oggetto di unificazioni, se non altro per la permanenza di rilevanti acque territoriali che la Croazia aveva già ritenuto di poter estendere «ad libitum» oltre i limiti legittimi a livello internazionale. Ciò, senza dire che la tendenza balcanica a forti discrasie conflittuali è rimasta tristemente endemica, non solo per ragioni formalmente fideistiche ma essenzialmente politiche come quelle che hanno dato luogo alle storiche contrapposizioni fra la stessa Croazia e la Serbia, o anche in Bosnia, Kosovo e Montenegro, dove la pace è un’opzione piuttosto precaria che si riesce a difendere non senza difficoltà grazie al deterrente di presenze militari estere con funzioni di calmiere.

Se in quei territori esistono, come pare indubitabile, considerevoli reminiscenze della Serenissima, va pur detto che la sovranità di Venezia non vi assunse caratteri prioritariamente territoriali, perché il dominio della Repubblica di San Marco ebbe carattere in prevalenza mercantile. Va aggiunto che nel caso dell’Europa non si può comunque parlare di una sua peculiare e specifica sovranità che appartiene «ipso jure» agli Stati, fatta eccezione per gli affievolimenti derivanti, secondo logica, dalla loro presenza nell’Unione.

Il partenariato italo-croato che fu inaugurato con l’accoglimento di Zagabria nella Casa comune ha avuto effetti positivi, riconosciuti nei commenti di prammatica, grazie all’abolizione delle garitte di confine e allo sveltimento delle operazioni doganali nei rapporti di scambio, ma si tratta di vantaggi ai quali non si può attribuire una valenza strategica decisiva, se non altro per il loro carattere omogeneo a quello di gran parte delle frontiere in essere nel Vecchio Continente.

Quanto alla «pacificazione» di cui l’Italia ha prodotto prove ripetute e talvolta gratuite, sarebbe il caso che il miglioramento dei rapporti reciproci, auspicato nelle tante dichiarazioni di circostanza, trovi efficace ed effettiva conferma bilaterale, a cominciare dall’impegno della Croazia, esemplificativo di una prioritaria linea etica, nel fare piena luce sui crimini del dopoguerra culminati nella tragedia delle foibe e delle esecuzioni indiscriminate[2]; e per dare onorata sepoltura a tanti caduti di quella stagione plumbea, rimasti senza tomba, in deroga negatrice di qualsiasi «pietas».

Si tratta di un auspicio nell’interesse della comune riflessione, e nello spirito sempre attuale della piccola «Vedetta d’Italia», il primo e non dimenticato Notiziario degli Esuli da Fiume, di cui è cosa congrua e giusta ricordare il commendevole occhiello: «Le idee non si strozzano, ché anzi dal patibolo risorgono, terribilmente feconde».


Note

1 La Croazia, secondo dati ufficiali del 2021, ha una popolazione pari a quasi quattro milioni di abitanti, distribuiti su un territorio che assomma a circa 56.000 chilometri quadrati, con una densità nell’ordine dei 70 abitanti per chilometro quadrato. In altri termini, queste cifre la collocano fra gli Stati Europei dalle dimensioni minori, che peraltro non elidono la sua posizione strategica nell’area dall’Alto Adriatico e della Penisola Balcanica, ai confini di Bosnia, Montenegro, Serbia, Slovenia, Ungheria. Ha raggiunto l’indipendenza nel 1991, a seguito delle vicende politico-militari che indussero la crisi della Repubblica Federativa Jugoslava e l’avvento delle nuove Repubbliche indipendenti.

2 Per una silloge di primo riferimento, confronta Vincenzo Maria De Luca, Foibe: una tragedia annunciata: il lungo addio italiano alla Venezia Giulia, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2012, 250 pagine. Una storia di lungo periodo dalle origini alla creazione della nuova realtà istituzionale scaturita dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’avvento del titoismo, è quella di AA.VV., Storia della Jugoslavia: gli Slavi del Sud dalle origini a oggi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1969, 314 pagine.

(novembre 2023)

Tag: Carlo Cesare Montani, Croazia, Europa, Berlino, Zagabria, Italia, Gorizia, Slovenia, Osimo, Balcani, Adriatico, Serbia, Bosnia, Kosovo, Montenegro, Venezia, Fiume, Ungheria, Inno alla Gioia, Romano Prodi, Alleati, Vedetta d’Italia, Vincenzo Maria De Luca, Croazia in Europa, trattato di Osimo.