Donald Crowhurst
Le frottole del navigatore solitario

Donald Crowhurst nacque nel 1932 nella città di Ghaziabad dell’India britannica. Era un ingegnere elettronico commerciante con la passione per il mare, dove spesso si recava per navigare con la sua barca a vela.

La sua attività, purtroppo, non era delle più floride, tanto che egli temeva di giorno in giorno di dover dichiarare bancarotta.

Era praticamente all’orlo della disperazione, quando nel 1968 gli capitò sott’occhio il bando di un concorso del giornale «Sunday Times»: infatti, si stava pubblicizzando la regata chiamata «Golden Globe Race», che prevedeva il giro del mondo senza scalo e il cui premio, in caso della sua vincita, era talmente ricco (5.000 sterline, pari a 60.000 sterline di oggi) che sarebbe stato un toccasana per la sua attività, per dare un futuro a se stesso e ai suoi cari e che avrebbe dimostrato quale abile navigatore egli fosse.

Il programma prevedeva che i partecipanti salpassero dall’Inghilterra, entrassero nell’Ocano Atlantico e, dopo averlo percorso da Nord a Sud, doppiassero il Capo di Buona Speranza, punta meridionale del continente nero, passassero a meridione dell’Australia e della Nuova Zelanda, per rientrare nell’Atlantico dopo aver doppiato il Capo Horn nel Sud del continente americano e raggiungessero l’Inghilterra per concludere il viaggio; le partenze erano tassativamente previste fra il 1° giugno e il 31 ottobre 1968.

A dargli il coraggio per partecipare furono i resoconti delle imprese marine compiute dall’Inglese Francis Chichester, fra le quali la più importante fu la circumnavigazione del globo in solitaria, senza scali, in 226 giorni, che gli meritò il titolo di «sir». E parteciparono alla regata anche altri navigatori famosi, fra i quali Bernard Moitessier e Robin Knox-Johnston. L’impresa, comunque, era dedicata a navigatori esperti e non a un dilettante quale era Crowhurst. Diciamolo, «inter nos», che, con antagonisti di tale livello, le speranze per un dilettante come lui erano al lumicino, ma tant’è: non si sa mai!

Così, per dimostrare la sua esperienza nella navigazione a vela mise in giro un sacco di panzane in merito ai suoi successi quale navigatore solitario; davanti a chi lo intervistava si dimostrava sicuro, fiducioso, tranquillo, come se quanto lo aspettava fosse un «dejà vu», cioè un avvenimento già vissuto e superato con successo.

Dopo il rifiuto da parte del Comitato Cutty Sark di prestargli l’imbarcazione Gipsy Moth IV, decise di costruirsi un trimarano, tipo di natante che lui non aveva mai usato. Con il denaro che gli era stato prestato da Stanley Best per sostenere la sua impresa Electron Utilisation in notevole difficoltà, egli avrebbe trasferito la somma nella costruzione di un catamarano, nel quale, come tecnico elettronico, avrebbe potuto applicare tutte le innovazioni e invenzioni che aveva in testa. Il Teignmouth Electron fu costruito nell’Essex da Cox Marine, mentre il suo allestitore fu J. Eastwood Norfolk.

Sui nove partecipanti alla regata, tre erano già partiti.

Ma il tempo inesorabile passava e, malgrado il suo impegno, il trimarano Teignmouth Electron non era ancora pronto per affrontare quell’impresa tanto lunga e rischiosa e quando giunse l’ultimo giorno utile per la partenza, il 31 ottobre 1968, malgrado tanti problemi di carattere tecnico, e non solo, non fossero stati risolti, egli si trovò nell’antipatico bivio se «bere o affogare»: il pensiero della sua incombente situazione prefallimentare gli diede il coraggio di salpare le ancore, partendo dal porto della città di mare del Devon, Teignmouth, per prendere il largo, con ridotte scorte di cibo.

E i guai iniziarono a mostrarsi quasi subito, mettendo in difficoltà la navigazione. A parte i problemi tecnici, che si esprimevano con rumori sospetti nello scafo, qualche elemento che saltava, infiltrazioni di acqua, come riscontrò dopo pochi giorni dalla partenza mentre attraversava il Golfo di Biscaglia, egli non aveva l’esperienza necessaria per far navigare al meglio un tipo di imbarcazione che non conosceva, con stabilità precaria, e che non era adatta per i grandi viaggi nella sconfinata vastità degli oceani, dove non mancano venti a 150 chilometri orari e onde di una decina di metri, come sarebbe venuto a galla se fosse stata collaudata in alto mare, tanto che presto i concorrenti si allontanarono sempre più ed egli si trovò solo. Allora comprese, un giorno dopo l’altro, che il programma previsto di percorrere circa 350 chilometri al giorno era dimezzato ed era andato amaramente deluso. Si rese conto della corbelleria fatta, con un’inusitata tracotanza, per aver voluto compiere un qualcosa che era troppo al di sopra delle sue capacità. E capì che era nei guai fino al collo.

Per non mettere la giuria nelle condizioni di controllare dove si trovasse esattamente nella vastità dell’Oceano Atlantico durante la prima parte della regata, finse un’avaria ad attrezzature e dispositivi vari di bordo e continuò a comunicare via radio ai responsabili della gara indicazioni non veritiere, a dimostrazione che tutto stava procedendo come previsto. Intanto, avviò la stesura del diario di bordo, nel quale annotò quanto avveniva realmente ogni giorno; per cui, nero su bianco, chiaramente risulta che non lasciò mai l’Oceano Atlantico e che nessuno dei capi previsti dal regolamento della gara era stato doppiato.

Il tempo passava e Crowhurst, facendo un esame di coscienza, comprese del fallimento della sua impresa, giacché non solo non avrebbe compiuto il giro del mondo, ma forse non sarebbe nemmeno riuscito a uscire dall’Atlantico. Che fare? Ecco il dramma! La scelta più ragionevole forse sarebbe stata quella di confessare che si ritirava dalla gara e che rientrava in Inghilterra con le pive nel sacco. Però, però: «E se me ne rimanessi buono, buono in questo oceano senza farmi intercettare da nessuno, in attesa del rientro degli altri concorrenti, per accodarmi a loro, per rientrare insieme, come se avessi circumnavigato il globo?» Pur non vincendo la gara, si era convinto che i racconti delle sue imprese gli avrebbero fruttato qualche aiuto finanziario, che sarebbe servito a mettere una pezza alle sue malandate condizioni economiche.

Così decise e, dopo essersi mostrato sbruffone, come se stesse veleggiando nel migliore dei modi, in una ripresa fatta con la sua telecamera, nel febbraio 1969 comunicò in Inghilterra che aveva grossi problemi di trasmissione, e chiuse la radio.

Non si sa per quale ragione abbia voluto al diario in atto aggiungerne un altro dove raccontava ciò che la sua fantasia gli faceva vivere e che era, poi, quanto raccontava alla giuria la quale, in base a ciò, riteneva che egli fosse in testa alla gara. Fatto che era creduto pure dagli appassionati della vela, convinti che quel dilettante inesperto avesse delle qualità inaspettate e che fosse in testa alla gara, anche se quelli che avevano la testa attaccata al collo avevano parecchi dubbi in proposito. È bene ricordare che la giuria non poteva controllare la veridicità delle notizie che giungevano, perché allora i rilevamenti satellitari erano ancora «in fieri».

Intanto la sua imbarcazione sommava problemi su problemi, tanto che, temendo di naufragare, contravvenendo alle norme della gara, approdò sulle coste dell’Argentina per tentare di rimetterla in sesto; qui fu intercettato dalla guardia costiera e, favorito dalla non conoscenza dell’inglese da parte della vigilanza e dello spagnolo da parte sua, non essendo stato riconosciuto, tutto filò liscio, e fu lasciato libero di riprendere il mare.

E nel suo comportamento cominciarono a evidenziarsi pericolosi segnali di squilibrio mentale dalle registrazioni e riprese da lui fatte.

Quando i tre superstiti dei partecipanti alla gara entrarono nell’Oceano Atlantico, Crowhurst per un soffio evitò di essere intercettato dal navigatore Nigel Tetley, il concorrente che era nettamente in testa alla gara e che stava per rientrare in Inghilterra. Crowhurst era sicuro che, se fosse giunto secondo o anche terzo, qualche cosa avrebbe ragranellato.

Si accodò a loro e riaccese la radio, comunicando alla giuria che stava rientrando. Naturalmente la notizia tranquillizzò i familiari.

Continuò a falsificare i registri di bordo, per far credere che tutto procedeva per il meglio e che era davanti a tutti.

Nel marzo 1969, Bernard Moitessier si ritirò e il 21 aprile Robin Knox-Johnston giunse in porto, dopo 312 giorni di navigazione. La giuria attese, prima di dichiararlo vincitore, perché Tetley, che era partito dopo ed era a circa 9.300 chilometri dalla meta, aveva buone probabilità di completare la circumnavigazione del globo in un tempo inferiore. Ma sfortunatamente le cattive informazioni date da Crowhurst, secondo le quali gli era con il fiato sul collo, lo indussero a chiedere troppo al suo trimarano, danneggiandolo a tal punto che il 21 maggio affondò, quando era a non più di 2.200 chilometri dal traguardo; lui si salvò su una zattera, dopo essere riuscito a comunicare via radio la sua posizione, e fu tratto in salvo il giorno successivo al naufragio.

Intanto il farneticante Crowhurst cominciò a meditare sul suo avvenire e a rendersi conto che la verità sulla sua regata sarebbe stata smascherata e non avrebbe tardato a diventare di dominio pubblico, con la scoperta che tutto quanto aveva comunicato non era che una grossa serie di falsità e, puntuale, arrivò una pericolosa crisi di nervi. E se fosse tornato in Inghilterra, avendo fallito tanto ingloriosamente la sua impresa, avrebbe dovuto restituire il danaro elargitogli da chi aveva creduto nella possibilità di una sua vittoria, sotto gli occhi di tutti, per cui sarebbe stato costretto ad alienare casa e laboratorio, incontrando le ire dei familiari. Pertanto, fece rotta per i Caraibi, lasciando muovere il suo trimrano come se fosse un relitto, e, mentre procedeva lentamente, la sua mente malata gli consigliò che cosa fare...

Così, dopo l’ultimo contatto radio con la giuria del 29 giugno 1969 (fino ad allora erano trascorsi 240 giorni dalla data di partenza), il suo silenzio cominciò a preoccuparla. Furono attivate ricerche, ma senza risultato. Infine, il 16 luglio fu trovata la sua imbarcazione al largo delle isole Bermuda senza nessuno a bordo: Donald era scomparso e le ipotesi più attendibili propendevano per il suicidio, avvenuto buttandosi in acqua e lasciandosi annegare. Secondo alcuni, il corpo non fu mai ritrovato, secondo altri fu individuato galleggiante in mare dopo diverso tempo.

Le ultime annotazioni del diario portavano la data del 1° luglio, due giorni dopo l’ultimo contatto radio, alle ore 11:20 e 11:40 del mattino: nelle stesse, fra l’altro, si leggeva: «È finita, è finita...»

Dai suoi diari risultò chiaramente che Crowhurst non era nella scia di Tetley, ma più a Sud, nell’Atlantico.

Naturalmente, il fatto non poté passare sotto silenzio. Furono sollevati molti interrogativi a proposito delle competizioni negli oceani, cercando di capire quali possano essere le reazioni fisico-mentali dei partecipanti a gare tanto impegnative, i cui limiti non sono da tutti affrontabili e superabili. Furono riviste le regole delle regate e non mancò un’appendice dedicata ai problemi psicofisici dei partecipanti, che per giorni e giorni erano soli, con se stessi e i loro pensieri, non avendo nulla da fare nei momenti di bonaccia e mare calmo, dando una grande importanza al supporto psicologico.

Insomma, si tratta di gare veramente interessanti, ma riservate a persone dotate di esperienze di navigazione in acque tempestose non molto comuni e, soprattutto, in possesso di solidità mentale capace di superare qualsiasi difficoltà fisico-mentale.

(ottobre 2023)

Tag: Mario Zaniboni, Donald Crowhurst, Ghaziabad, Sunday Times, Golden Globe Race, Francis Chichester, Bernard Moitessier, Robin Knox-Johnston, Electron Utilisation, Teignmouth Electron, Nigel Tetley, Caraibi, Bermuda, problemi psicofisici, solidità mentale.