Venezia Giulia, Istria e Dalmazia nella storia del confine orientale italiano
Riflessioni sull’iniziativa del Governo per il Museo Nazionale dell’Esodo in Roma

La storia italiana è molto ricca di ricordi, e conseguentemente di musei destinati a perpetuare la memoria di tanti avvenimenti per la maggior parte dolorosi, e quella del confine orientale non fa naturalmente eccezione. Anzi, le iniziative museali dedicate a Venezia Giulia, Istria e Dalmazia sono state parecchie, specialmente nei luoghi che furono teatro di quella storia, a cominciare da Trieste. Ciò, per mezzo di musei intesi, alla stregua dell’antico etimo greco, come luoghi sacri alle Muse, e poi come raccolte di opere d’arte, e di oggetti notevoli sul piano storico, scientifico o culturale, degni di essere tramandati alla conoscenza dei posteri (confronta Vocabolario Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003, pagina 1.063). Non a caso, si usa parlare di «pezzi da museo» a proposito di oggetti di valore e di cimeli, generalmente non più attuali ma finalizzati, per l’appunto, al ricordo di «egregie cose» intese nel senso – sia poetico sia etimologico – di fatti importanti che non è possibile né commendevole dimenticare.

Agli inizi del 2024, gli ambienti dell’esodo giuliano, istriano e dalmata hanno registrato, con rinnovate espressioni di viva e sentita partecipazione, la notizia secondo cui il Governo Italiano, per iniziativa della Presidente del Consiglio, Onorevole Giorgia Meloni, e del Ministro per la Cultura Gennaro Sangiuliano, ha varato il progetto di un Museo Nazionale «ad hoc» da realizzare a Roma nel volgere di un triennio, con un investimento complessivo nell’ordine degli otto milioni di euro.

Questo progetto costituisce un indubbio salto qualitativo nelle iniziative istituzionali a favore del mondo esule, già presenti soprattutto in territorio giuliano, i cui riferimenti prioritari riguardano: a) il Museo di Basovizza, dedicato alla contigua miniera carsica trasformata in foiba, e specialmente ai caduti incolpevoli che vi persero la vita; b) il Museo di Padriciano, anch’esso sull’altipiano del Carso, con annesso campo profughi del dopoguerra, dove si viveva in condizioni orribili; c) le realizzazioni museali collocate nel capoluogo, da una parte nella sede dell’IRCI (Istituto Regionale per la Cultura Istriana Giuliana e Dalmata) e dall’altra presso Magazzino 18 (il grande deposito di masserizie mai ritirate dai profughi, nobilmente cantato da Simone Cristicchi).

Queste iniziative, con particolare riguardo all’ultima – avente lo scopo di attirare anche a livello centrale l’attenzione collettiva sulla tragedia di un intero popolo, progressivamente maturata durante gli ultimi anni del Secondo Conflitto Mondiale e quelli non meno drammatici del lungo dopoguerra – intendono elidere lacune informative tuttora vive che scontano sessant’anni di silenzi programmati durante la seconda metà del «secolo breve», oltre a residue opposizioni e resipiscenze, nonostante la vigenza ventennale della Legge istitutiva del Ricordo (30 marzo 2004 numero 92), che venne approvata dal Parlamento con voto quasi unanime (al Senato non vi furono pronunzie di segno contrario, mentre alla Camera si contarono 15 soli dissensi, espressi dall’Estrema Sinistra).

Il progetto del Governo Meloni è ampiamente commendevole, sia per avere inserito il disegno in una compiuta dimensione nazionale nell’intento di operare a tutto campo in base alla virtù «maieutica» raccomandata da Socrate ancor prima dell’era cristiana, sia per sopperire in maniera decisiva ai limiti non solo fisiologici incontrati dalla suddetta Legge. L’assunto diventa valido, a più forte ragione, alla luce dei troppi decenni trascorsi prima della sua promulgazione, da un lato nei conferimenti delle onorificenze postume ai caduti – oggi possibili soltanto previa domanda degli eredi – e dall’altro in celebrazioni affidate a Soggetti non sempre animati dalle opportune sensibilità patriottiche. In tale ottica, è giusto esprimere l’auspicio che l’iniziativa possa fruire di un «iter» conforme alla bontà del progetto, in guisa da diventare realtà in concomitanza con l’ottantesimo anniversario (febbraio 2027) del trattato di pace che sottrasse alla Madrepatria due regioni culturalmente e tradizionalmente italiane, quali Venezia Giulia e Dalmazia, e porre le basi di una consapevolezza storica finalmente diffusa e partecipata, anche a livello nazionale.

La creazione e la frequentazione dei musei esprimono, da un lato, l’impegno storico e culturale dei Soggetti preposti, e dall’altro, l’acquisizione di un messaggio informativo e formativo da parte dei visitatori, che secondo logica dovrebbero essere i cittadini tutti, senza distinzioni sociali e politiche, in ossequio all’antica prescrizione latina, secondo cui «indocti discant et ament meminisse periti» («chi non sa, impari, e chi conosce si compiaccia di ricordare»). Ciò, con un occhio di particolare riguardo ai giovani, che troppo spesso, almeno in Italia, hanno sofferto per disinformazioni non attribuibili alla propria volontà, ma a quella altrui. Ecco un intento da condividere, a più forte ragione, in una storia come quella giuliana, istriana e dalmata, dove sono stati frequenti i riduzionismi e le manipolazioni, se non anche le cancellazioni, cosa che rende a maggior ragione congrua l’idea governativa del Museo Nazionale.

D’altra parte, bisogna onestamente ammettere che il Ricordo, laddove fine a se stesso, corre il rischio di diventare celebrazione ripetitiva, avulsa da un reale approfondimento delle cause e degli effetti di quanto accadde nella storia, e quindi dall’impegno conseguente a «trarre gli auspici» nell’ambito di una volontà generale idonea a perseguire obiettivi condivisi, sia nel breve sia nel lungo termine: da un lato – a titolo d’esempio – la formulazione di scuse ufficiali da parte delle nuove Repubbliche ex Jugoslave per i delitti contro l’umanità perpetrati nella truce stagione della Seconda Guerra Mondiale, o peggio ancora, in quella successiva, solo formalmente disarmata; e dall’altro lato – sempre allo stesso titolo – la costruzione di un’effettiva unità europea fondata su Valori realmente comuni come quelli della pace, della cooperazione e del rispetto.

«Ergo», ben venga il nuovo Museo, fermo restando che la sua istituzione dovrà coincidere con un dialogo veramente costruttivo, idoneo a superare antiche antinomie nel coordinamento con ogni altra iniziativa funzionale all’ottimizzazione delle relazioni internazionali di competenza, e nello stesso tempo, all’affermazione delle verità storiche.

L’iniziativa sarà tanto più utile e produttiva, nella misura in cui riesca a prescindere dalle discrasie, talvolta cristallizzate, che hanno frapposto ostacoli talvolta non dappoco alla collaborazione fra le varie organizzazioni del complesso «arcipelago» giuliano, istriano e dalmata. La cosa è oggettivamente perseguibile, sia per l’importanza trainante del nuovo Soggetto, sia per la possibilità di trovare, per suo tramite, un minimo denominatore comune, che potrebbe essere finalmente costituito dal cosiddetto «irredentismo etico» promosso a suo tempo da un protagonista di assoluto riferimento quale Monsignor Luigi Stefani, esule da Zara, e personaggio di spicco nella cultura cattolica fiorentina dal dopoguerra (1947) in poi.

Uomo di dottrina e di fede lungi da ogni compromesso ma capace di dialogare attivamente con chiunque – a cominciare dal cosiddetto «Sindaco Santo» nella persona altrettanto carismatica dell’Onoravole Giorgio La Pira con cui ebbe una frequentazione spesso intensa –, Monsignor Stefani fu particolarmente propenso all’azione, anzitutto nel campo dell’assistenza e della beneficenza. Nondimeno, fu assai attivo anche nella lunghissima presidenza del Comitato provinciale ANVGD (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) cui seppe conferire una straordinaria incisività, avvalendosi dell’apporto di molti giovani, per un consenso destinato a diventare autentico modello di riferimento[1].

Monsignor Stefani (Zara 1913-Firenze 1981) comprese subito che nell’Italia del dopoguerra, e poi in quella delle contestazioni e dei cosiddetti movimenti «sessantottini», un irredentismo finalizzato all’affrancamento di terre sia pure italiane da sempre come quelle giuliane, istriane e dalmate non aveva spazio, mentre le prospettive sarebbero state ben diverse nel caso di riferimento etico alle persone. In effetti, gli esuli avevano offerto una prova plebiscitaria di dedizione a verità e giustizia, alla luce di una scelta assoluta di «non violenza»[2] con la sola ragguardevole eccezione dell’insegnante fiorentina Maria Pasquinelli che il 10 febbraio 1947 (firma del trattato di pace) «spense» – come a suo tempo sarebbe stato detto da Nicolò Machiavelli – la vita del Generale Robert De Winton, Governatore Britannico della piazzaforte di Pola, in segno di disperata protesta nei confronti di Alleati grettamente punitivi a danno dell’Italia, e prioritariamente dei profughi[3].

Questa nuova idea, che traeva spunti basilari dalla morale cristiana, ebbe momenti di notevole condivisione anche a livello politico, oltre che nell’ambito associativo, e parve destinata a fare scuola, ma fu sostanzialmente accantonata verso la fine degli anni Settanta, in concomitanza con l’evoluzione della stessa ANVGD in senso «collaborazionista» sia in campo nazionale, sia in quello dei rapporti con la vecchia Jugoslavia, anche alla luce della scomparsa di Tito, che avrebbe anticipato di poco quella di Monsignor Stefani. Le conseguenze furono assai rilevanti anche sul piano strategico: qui, basti rammentare che la pregiudiziale irredentista fu rimossa dallo Statuto associativo, nonostante l’interpretazione «rivoluzionaria» conferitale proprio da Monsignor Stefani, memore del suo passato di cappellano militare in forza alla Divisione «Tridentina» quando confortava feriti e moribondi sul campo di battaglia, ivi compresi quanti appartenevano alle forze del «caro nemico».

La realizzazione del Museo di Roma si annuncia come «quid novi» nella storia del movimento giuliano, istriano e dalmata, e può diventare, trascorsi quattro quinti di secolo dall’infausto trattato di pace, un momento di rinnovate riflessioni capaci di fare ammenda, per quanto possibile, di alcuni importanti errori del passato, iniziando dal lungo silenzio tradotto in ostracismo. All’inizio del terzo millennio, si tratta effettivamente di una svolta, che potrà essere tanto più efficace laddove non si limiti a ricordare, ma si estenda alla riflessione, e quindi, alla gestione più obiettiva e costruttiva dei rapporti internazionali: nella fattispecie, con un occhio di particolare riguardo a quelli con le Repubbliche ex Jugoslave, «in primis» con Croazia e Slovenia.

A questo proposito, un ruolo non marginale potrà dipendere dalle manifestazioni collaterali che l’iniziativa dovrà certamente ospitare in campo culturale, con riguardo prioritario alla storia, e quindi alla storiografia. Al momento, sarebbe certamente prematuro esprimere giudizi, ma un primo richiamo assolutamente oggettivo la cui attualità rimane identica anche dopo due millenni, è quello al noto aforisma di Tacito, uno tra i maggiori storici latini, secondo cui «chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno deve parlare senza amore e senza odio». Parole sante: sebbene sia difficile per il mondo esule rinunciare ai naturali richiami dell’amore per la propria Patria, la perseveranza nel rifiuto dell’odio in favore della collaborazione dovrà promuovere analoghe disponibilità anche da parte altrui.

La storia, soprattutto nelle interpretazioni dei fatti e delle idee da cui trassero origine, non è una realtà statica, come si vorrebbe nell’ambito di talune interpretazioni ormai datate. Al contrario, gli approfondimenti che derivano dalla disponibilità di nuovi documenti, di testimonianze integrative e di interpretazioni motivatamente difformi dalle «vulgate», ne possono costituire il «sale» necessario, come da pertinente ipotesi di Benedetto Croce.

Con riguardo alle vicende dell’altra sponda adriatica (e non solo), un acuto diplomatico dalmata come l’Ambasciatore Gianfranco Giorgolo ha posto in evidenza, or non è molto, che «l’Italia è sempre stata maestra nel fare gli interessi degli altri». Si tratta di un rischio sempre incombente, ora da esorcizzare anche a proposito del futuro Museo, allo scopo di prevenire l’ipotesi di nuovi attentati all’interesse nazionale, oltre che alla celebre «astuzia della ragione» di cui al pensiero hegeliano. La cooperazione internazionale è buona cosa, se non anche un valore non negoziabile, ma nel caso di specie la tutela del proprio buon diritto costituisce, ancor prima dell’interesse, un imperativo categorico di chiara e prioritaria valenza etica.


Note

1 Confronta Carlo Montani, Don Luigi Stefani: pensiero e azione di un patriota dalmata, seconda edizione, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Risma Editrice, Firenze 1996, 80 pagine. Il protagonista di questa storia fu anche uomo di alta cultura, come attesta una bibliografia di 24 opere personali, riportata in calce al suddetto memoriale. Tra le iniziative assunte in ambito ANVGD, è congruo ricordare la creazione del Gruppo Giovanile Adriatico, un intenso rapporto collaborativo con la stampa, le conferenze organizzate nella sede del Comitato, e naturalmente, gli aiuti a profughi in condizioni di bisogno.

2 Questa scelta avrebbe trovato un momento di straordinaria visibilità nell’autunno del 1956, in occasione della grande Rivoluzione Ungherese, quando Don Luigi (non ancora Monsignore ma Cappellano della Misericordia Fiorentina) partì per il valico austro-magiaro di Nickelsdorf con un gruppo di amici per dare aiuto ai profughi che tentavano di sfuggire alla violenza sovietica portandone alcuni in Italia, dove ebbero asilo.

3 La protesta fu ampiamente condivisa a livello popolare: non a caso, a mezzogiorno del 10 febbraio, mentre il Ministro Plenipotenziario Antonio Lupi di Soragna – in assenza dei politici – si apprestava a firmare, l’Italia si chiuse in un «assordante» silenzio per dieci minuti, testimoniando, oltre la logica degli schieramenti di partito, l’esistenza di un dissenso assai diffuso.

(marzo 2024)

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