La tragedia delle foibe e il Giorno del Ricordo 2016
Poche luci e molte ombre all’insegna del giustificazionismo istituzionale

La tragedia epocale del grande Esodo giuliano, istriano e dalmata, protrattasi per un lungo ed angoscioso decennio (1943-1954) durante il quale ebbero luogo a più riprese la triste diaspora dei 350.000 e l’olocausto davvero agghiacciante delle 20.000 vittime infoibate od altrimenti massacrate dai partigiani di Tito, fra cui non pochi traditori di parte italiana, sono tornate alla ribalta, almeno per un giorno, nella ricorrenza del 10 febbraio, che 12 anni or sono venne istituzionalizzata dalla Legge 30 marzo 2004 numero 92, approvata dal Parlamento – giova ricordarlo – con una maggioranza quasi plebiscitaria (alla Camera i voti contrari, tutti dell’estrema Sinistra, furono solo 15).

Qualcuno aveva insinuato che il «Giorno del Ricordo» si avviasse verso quella ritualità ripetitiva che in Italia, non certo all’avanguardia in una classifica spirituale della memoria storica, caratterizza parecchie celebrazioni di varia estrazione politica, ma questa volta, nel bene e nel male, il rischio è stato quanto meno rinviato.

In effetti, il 10 febbraio ha coinciso con una buona notizia che non era affatto scontata: la proroga per un ulteriore decennio della Legge istitutiva del Ricordo nella parte, ormai scaduta, relativa ai conferimenti di una Medaglia d’Onore in memoria delle vittime, e dell’annesso Attestato a firma del Presidente della Repubblica. Si tratta di un atto legislativo dovuto che ha cancellato un limite cronologico di detta normativa davvero poco comprensibile, come ha sottolineato Paolo Sardos Albertini, Presidente della Lega Nazionale di Trieste, nell’allocuzione del 10 febbraio al Sacrario Nazionale di Basovizza: al riguardo, sarebbe stato più logico che il legislatore avesse statuito una proroga definitiva a tempo indeterminato, ma tant’è. Non è forse vero che, per tradizione ormai inveterata, l’Italia si distingue per essere il Paese delle «mille proroghe»?

A proposito della commemorazione tenutasi a Basovizza, si deve aggiungere che le celebrazioni triestine hanno suggellato il buon diritto della città di San Giusto ad assumere il ruolo di capitale morale dell’Esodo: da un lato, per lo straordinario concorso delle Associazioni patriottiche e d’Arma, del volontariato e della cittadinanza, e dall’altro per l’elevato spessore morale degli interventi, ed in primo luogo di quello del Vescovo, Sua Eminenza Monsignor Giampaolo Crepaldi, che si è ben guardato dall’indulgere alle suggestioni buoniste delle varie vulgate, affermando che «il presente ed il futuro si presentano carichi di minacciose prospettive» donde scaturisce la necessità, riproposta dai valori etici del Ricordo, di un forte impegno collettivo e individuale «nell’esercizio di puntuali responsabilità» in campo politico, sociale e culturale.

Purtroppo, le luci di Trieste non hanno trovato adeguati corrispettivi in altre sedi, ed in particolare a Roma, che nella sua qualità di sede dei massimi poteri centrali ospita, per tradizione ormai consolidata, la celebrazione ufficiale del 10 febbraio: quest’anno, in assenza del Presidente della Repubblica impegnato all’estero, si è svolta nell’aulica atmosfera del Senato. Ebbene, spiace dire che nell’allocuzione di Pietro Grasso, pronunciata nella sua veste di seconda Autorità dello Stato, non sono mancati taluni riferimenti al giustificazionismo mutuati dall’estrema Sinistra Italiana ed ex Jugoslava, in specie quando il Presidente di Palazzo Madama si è soffermato sulla necessità di «elaborare una severa riflessione sulle colpe del fascismo, sui crimini e sulle sofferenze inflitte alla minoranza slovena e croata negli anni bui della dittatura».

Dopo siffatte dichiarazioni all’insegna di una rinnovata, presunta esigenza di riconciliazioni obiettivamente anacronistiche (grazie a Dio le relazioni fra l’Italia, la ex Jugoslavia e le nuove Repubbliche sorte sulle sue ceneri sono improntate da quasi 70 anni ad una cordialità sin troppo remissiva come ha dimostrato la storia di Osimo e dei suoi corollari), non sono mancate ulteriori affermazioni di analoga estrazione, come quelle del Ministro Stefania Giannini, intervenuta a nome del Governo, quando ha affermato che già dal 1923 l’Italia volle imporre alla Jugoslavia «un’umiliazione inaccettabile e dannosa» con l’ostracismo all’insegnamento in lingua croata e slovena.

Il fascismo, al pari dell’Italia liberale e di quella repubblicana, non è stato certamente immune da importanti responsabilità storiche, ma ciò non cancella il fatto che durante il Ventennio la Venezia Giulia e l’Istria abbiano conosciuto una fase di intenso sviluppo economico e sociale, tradotto in tangibili vantaggi anche a favore delle minoranze croate e slovene, più volte documentati. In ogni caso, non esiste una correlazione proporzionale, sia di tipo etico che politico, fra la violenza indiscriminata delle foibe e del genocidio perpetrato a danno degli Italiani (poi ammesso senza mezzi termini dai massimi collaboratori di Tito) e le «malversazioni» a carico degli Slavi nel campo dell’informazione e della scuola, conformi allo spirito del tempo sia nel resto d’Europa che altrove (cui non fu estranea la necessità di combattere, col necessario vigore, il terrorismo della costante campagna di violenza ordita dalle organizzazioni clandestine foraggiate da oltre confine).

Quanto alla guerra «lampo» contro la Jugoslavia, scoppiata nell’aprile 1941 e conclusa dopo due settimane, parimenti indicata dal giustificazionismo come ulteriore motivazione delle foibe, vale la pena di ricordare che l’Asse vi fu costretta dall’improvviso cambiamento di campo da parte del Governo di Belgrado a seguito del colpo di Stato che mise fine alla precedente alleanza con Italia e Germania: un fatto oggettivamente incontestabile ma ignorato o sottaciuto da buona parte della storiografia.

Il Presidente del Senato ed il Ministro dell’Istruzione e della Ricerca conoscono certamente la storia. Quindi, è logico presumere che abbiano voluto indulgere alle ormai vecchie pregiudiziali del giustificazionismo, adeguandosi alla vulgata partigiana, aliena dal perseguire l’obiettivo della riconciliazione nazionale, questo sì, moralmente prioritario ma tuttora molto lontano, a differenza di quanto è accaduto, se non altro per opportunità diplomatica, sul fronte delle relazioni con Croazia e Slovenia.

In questo clima, è logico che Esodo e foibe vengano percepiti, in specie dai giovani, generalmente digiuni di storia e non certo per colpa loro, come effetti di responsabilità italiane che invece costituiscono un vero e proprio paralogismo, o nel migliore dei casi, un’affermazione del tutto soggettiva; ed è parimenti logico che l’uomo della strada rimanga solitamente ignaro di quelle tragedie, od attribuisca alle loro vittime un ruolo secondario, oltre ad un destino in qualche misura voluto, visto che i Giuliani e i Dalmati, come pontificavano i candidati comunisti del 1948, erano «fascisti» della peggiore specie, se non anche «banditi» in fuga dal paradiso di Tito. Il danno si coniuga spesso con la beffa: questo è un caso emblematico.

In buona sostanza, ancora una volta le ombre del Ricordo sembrano prevalere tristemente, tanto più che l’informazione giornalistica e televisiva, salvo eccezioni, non è mai aliena dall’adeguarsi alle vulgate: a più forte ragione, quando l’input viene dall’alto. Un esempio? Lo stesso Toni Capuozzo, che pure si era distinto, negli anni scorsi, per giudizi calibrati e per quanto possibile oggettivi, non ha mancato di mandare in onda, davanti alla famigerata targa della stazione di Bologna, un servizio in cui, pur contestando il falso storico compendiato su quella brutta pietra (non vi furono «iniziali incomprensioni» a danno dei profughi rapidamente superate, ma la documentata e lunga iterazione di un comportamento perverso nei loro confronti), non ha mancato di evocare, sulla scorta di più elevate affermazioni, le «colpe» ed i «crimini» del fascismo come matrice scatenante di quella tragedia (ripetendo l’assunto anche in Senato, durante la diretta della cerimonia ufficiale). Ma l’elenco di analoghe deviazioni da una corretta interpretazione storica sarebbe naturalmente lungo, nella sottintesa volontà di declassare le responsabilità ex jugoslave al livello di una semplice «jacquerie» e di minimizzarle sul piano etico.

Concludendo, si può affermare che la ritualità ripetitiva esiste davvero: non già nelle attenzioni dovute ad una ricorrenza fondamentale come quella del 10 febbraio, anniversario del «diktat» imposto all’Italia (ed anche del gesto di Maria Pasquinelli scontato in una lunga vita di amare delusioni e di profonda maturazione cristiana), ma nella proliferazione di un giustificazionismo di facciata, obiettivamente acritico, se non anche di mera convenienza politica. È un buon motivo in più per rinnovare il grido di dolore giuliano, istriano e dalmata all’insegna della verità storica e della giustizia, e con esso, un atto di speranza e di fede: come scrisse nel 1959 l’eroico Vescovo di Trieste, Sua Eminenza Monsignor Antonio Santin, le vie dell’iniquità non possono essere eterne.

(maggio 2016)

Tag: Carlo Cesare Montani, Italia, Giorno del Ricordo 2016, foibe, giustificazionismo, Esodo giuliano istriano dalmata, partigiani di Tito, vittime infoibate, Legge 30 marzo 2004 numero 92, Giorno del Ricordo, 10 febbraio, Paolo Sardos Albertini, Basovizza, San Giusto, Trieste, Giampaolo Crepaldi, Pietro Grasso, colpe del fascismo, ex Jugoslavia, Osimo, Stefania Giannini, Toni Capuozzo, fascismo, Maria Pasquinelli, Antonio Santin, tragedia delle foibe.