I Bernabò, una dinastia di orsanti
Tra le varie famiglie di orsanti che
operarono a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, una
delle più importanti era quella dei Bernabò
Con il termine di «orsanti» si indicano tutti quei coraggiosi girovaghi che sbarcavano il lunario facendo i domatori di orsi, di scimmie e di cammelli, esibendosi in spettacoli di teatro, facendo acrobazie e giochi con gli animali, e spettacoli di magia; partendo dall’Appennino tra il Settecento e l’Ottocento, dalla Alta Valle del Taro si sparsero per l’Europa, l’Africa Settentrionale e i Paesi Asiatici (Russia, Turchia…). Per sfuggire alla povertà persistente nelle valli tra l’Emilia, la Liguria e la Toscana (più che funghi, castagne e latte, quelle valli non davano), molte persone viaggiarono verso città per loro sconosciute come Parigi, Odessa, Amsterdam, Istanbul… Avendo esperienza nell’ammaestramento di animali, soprattutto orsi (che fino al 1733 vivevano nei boschi della zona), questi uomini allestirono spettacoli con animali addestrati. Verso la metà dell’Ottocento, nella sola Londra erano attivi circa seicento di questi «artisti di strada», quasi tutti provenienti dall’Appennino Parmense; l’epicentro originario di questi artisti era considerata la zona del Monte Pelpi, fra Bedonia e Compiano (un paese di donne, vedove bianche, di mogli, madri, sorelle e figlie a cui gli orsi avevano portato via gli uomini), in provincia di Parma: nella sola frazione di Cavignaga, a fine Ottocento, si contavano sessanta orsanti su duecento abitanti.
La più importante famiglia di orsanti era quella dei Bernabò, originari proprio di Cavignaga, un paese di poche case incastonato tra le valli del Taro e del Ceno nel Parmense. A quel tempo, era la fine dell’Ottocento, gli abitanti della zona erano contadini poveri che vivevano soltanto con le cose che producevano; la popolazione infatti lavorava per mangiare e il pagamento dei prodotti e del lavoro avveniva tramite il baratto. Alcune merci, come il mais o il sale, che venivano importate dalla pianura o dalla Liguria, erano scambiate con altre prodotte sul posto, come i formaggi o le castagne.
Nel XIX secolo parecchie compagnie di girovaghi partirono da Cavignaga e dai paesi circostanti per far fortuna in Prussia, ovvero in tutti i Paesi dove si parlava tedesco. Il centro di smistamento verso cui si dirigevano era Amburgo, da cui partivano poi per portare i loro spettacoli nelle più importanti città europee. Si muovevano a piedi e con un mese di cammino raggiungevano Amburgo e altre città come Kiel nello Schleswig-Holstein, la città più a Nord della Germania. Antonio Bernabò detto «Togno», nato nel 1857, apprese il mestiere da suo padre Giuseppe Bernabò (classe 1810), padre di ben dieci figli, alcuni dei quali divennero orsanti. Antonio era cresciuto giocando proprio con gli animali con cui suo padre lavorava: scimmie, pappagalli, cammelli e addirittura un orso.
Antonio iniziò questa attività nel marzo del 1869 a dodici anni, coi fratelli Gioacchino e Luigi, che si trovavano con la compagnia in Germania. Luigi e Gioacchino, più anziani, giravano con gli animali nelle varie piazze e Antonio restava di guardia ai carri e si dedicava ai mestieri più umili. Il suo carattere forte e deciso lo portava a desiderare di lavorare nel circo. Ammaestrare un orso era lavoro di anni; un cammello fatto venire da lontano, da esibire come curiosità esotica, costava una fortuna; se moriva, era una rovina. Mettere su una compagnia, era un azzardo, ripagato da guadagni incerti. Non sempre si era ben accolti, spesso gli orsanti avevano cattiva reputazione: sfruttatori di bambini (a loro venivano spesso affidati bambini da famiglie poverissime, in cambio di qualche soldo), sfaticati, sporchi e «inclini al furto e all’imbroglio»; soli con gli orsi, giullari, guitti, ciarlatani vivevano con arte e con inganno, elemosinando e forse un po’ rubacchiando. Comunque scrivani, giudici, avvocati, notai, commercianti e artigiani vivevano e prosperavano proprio grazie a questa particolare clientela che pagava con danaro sonante le loro prestazioni!
Un giorno, quando vide passare una compagnia del suo paese, il Circo Cavanna, ottenuto il benestare del padrone, Antonio salì sui carri diretti in Spagna. Di lui non si seppe più nulla e Luigi, non sapendo come giustificare la scomparsa del fratello, scrisse alla madre che Antonio era stato divorato dai lupi mentre attraversavano un bosco in Germania. A Cavignaga fu celebrato addirittura l’ufficio funebre! Lui, invece, stava bene e cresceva diventando un bravissimo orsante. Dopo sei anni, nel 1875, il Circo Cavanna fu venduto ad Antonio Cappellini, anch’egli di Cavignaga, che riconobbe il ragazzo. Nel settembre del 1875 i membri del Circo tornarono a Cavignaga, come facevano saltuariamente le compagnie, con Antonio, ormai diciottenne. Una mattina Antonio si presentò a casa, dove la madre lo riconobbe solo grazie ad una cicatrice sulla testa che si era procurato da bambino. Antonio ritornò così alla compagnia dei fratelli fino al 1888, quando il padre morì e lasciò in eredità due poderi e 25.000 lire a ciascuno.
Con la sua parte di eredità, Antonio decise di acquistare un circo tutto per sé e di viaggiare, prima da solo, poi con il primogenito Roberto, in Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Grecia, Turchia, Egitto. Sentì dire che in Crimea si vendevano a buon mercato cammelli delle steppe asiatiche e, senza sapere dove o che cosa fosse la Crimea, vi volle andare; sbarcò a Odessa, cercò, contrattò, affittò vagoni ferroviari e, di lì a due mesi, invase il mercato tedesco con cinquantasette cammelli. Con il guadagno, formò una sua compagnia di orsanti, il Circo Bernabò, andandosene in giro per l’Europa, l’Egitto e l’Impero Turco. Sapeva spiegarsi non solo in quasi tutte le lingue europee, ma anche in arabo e in turco. Arrivò a possedere quattro grandi circhi, vincendo così il timore del pubblico: gli spettatori a quel tempo diffidavano del «tendone», temevano che una volta entrati, dopo aver pagato il biglietto, non avrebbero visto niente. Invece Bernabò riuscì a stupirli e, grazie ai guadagni, ad attraversare col suo Royal Italian Circus l’intero continente europeo e tutto il Nord Africa.
Il Circo Bernabò: Antonio è l'uomo al centro con la barba; fotografia di Lydia Pasquini
Nel 1903 a Costantinopoli rappresentò al Serraglio (palazzo imperiale) un suo spettacolo forense; impressionato da quel palazzo e dalle innumerevoli concubine del Sultano Habdul Hamid II che assistevano allo spettacolo nascoste dietro grate e veli, riportò a tutti i compaesani i dettagli di quel giorno straordinario. Lo spettacolo piacque così tanto al Sultano che questi decise di acquistare per intero il circo di Antonio al prezzo di 80.000 lire d’oro e di consegnargli la croce di Cavaliere del Lavoro della Corona Turca. Con quella cifra si sarebbero potute comprare allora 150 biolche di terra in pianura (circa quaranta ettari); Antonio, ritornato in Germania, a Breslavia, nella Slesia Prussiana, acquistò invece molti cammelli e dromedari e costituì un circo ancora più grande. Per spostarsi di città in città occorrevano ad Antonio ben otto vagoni di treno. Con il circo, per alcuni anni, si arricchì ulteriormente.
Si era avverato il sogno della sua vita: dai poveri monti di Cavignaga e Compiano aveva raggiunto addirittura gli onori della corte di Costantinopoli.
Il Cavalier Antonio Bernabò; fotografia di Lydia Pasquini
Di lui si raccontano molti aneddoti: gli avevano detto – e lui quasi non ci credeva – che al Polo gli orsi erano bianchi, e lui ne voleva ammaestrare uno, che sarebbe stata una rarissima attrattiva per un orsante. Allora lui e l’amico Bartolomeo Caramatti, che aveva raggiunto perfino la Russia a piedi, partirono con un cammello per il Polo, alla ricerca dell’orso bianco. In Finlandia li fermò il freddo, tanto che, per far ripartire il povero cammello, che la notte dormiva all’aperto, dovevano sbloccarlo dal ghiaccio gettandogli acqua calda sulle zampe. Dell’orso bianco non trovò traccia, ma tornò con racconti incredibili, tra i quali quello che, lassù, la notte dura sei mesi.
L’esibizione che amava di più era il combattimento con l’orso. Antonio con il suo orso ci parlava, a bassa voce, lo accarezzava, perché gli orsi sono fatti così: obbediscono solo se si affezionano. Poi, sulla pubblica piazza ci faceva la lotta, ma per finta, per far quattrini dopo, con la questua. E i Tedeschi buttavano marchi su marchi dentro il cappello, senza smettere di ridere vedendo quell’Italiano piccolo e magrolino che riusciva ad atterrare un gigante bruno, con la museruola sì, ma pieno di artigli. Ma c’era il trucco: Antonio sapeva che gli orsi soffrono tremendamente il solletico e aveva scoperto che, per farlo saltare per terra, bastava una grattatina sotto le zampe posteriori…
Addestrare un orso era comunque pericoloso: un attimo di disattenzione o di incertezza nel suo trattamento poteva sfociare in una tragedia. Bernardo Dallara nel 1844 fu sbranato dai suoi tre orsi, e si dice che un altro orsante sia stato sbranato dal suo orso a cui una sera aveva dimenticato di dar da mangiare.
Roberto Bernabò, figlio di Antonio, a cavallo; fotografia di Lydia Pasquini
Purtroppo nel 1914, quando scoppiò la Grande Guerra, Antonio si trovava a Belgrado e Sarajevo. I Serbi gli consigliarono di rientrare al più presto in patria lasciando gli animali a Belgrado e gli promisero che dopo la guerra sarebbe stato rimborsato. Ma il conflitto cambiò le sorti della Serbia (pur vincitrice) e gli impegni assunti dal precedente governo non furono rispettati.
Le 80.000 lire investite nel circo andarono così in fumo. Inoltre si stavano affermando nuove professioni ambulanti più redditizie e sicure, soprattutto all’estero: gelatai, venditori di pesce e patatine fritte, caldarrostai. Antonio, tornato a Cavignaga, ormai vecchio, visse con quanto aveva comprato prima del 1888 e con la grande passione degli spettacoli orsanti nel cuore, che conservò intatta fino alla morte. La guerra ebbe un esito ancor più tragico per il Sultano Turco che, cacciato da Costantinopoli, dovette rifugiarsi all’estero, dove morì in completa miseria.
Tra le numerose famiglie di orsanti di Cavignaga, alcune ebbero più fortuna di altre. Almeno quattro si trasformarono in veri e propri circhi equestri: oltre a quello di Antonio Bernabò e di Antonio Cappellini (detto Cicotto), e del socio Bartolomeo Caramatti (detto Capella) che lavorarono soprattutto in Spagna, si ricorda il circo di Giovanni Volpi, con i figli Bartolomeo, Luigi e Giovanni che si diressero soprattutto in Inghilterra dando, a fine Ottocento, uno spettacolo per la Regina Vittoria; quello, infine, di un altro Bernabò, Paolo, attivo dall’inizio del XIX secolo, che fu addirittura chiamato in Grecia dal governo nel 1834 per festeggiare l’indipendenza del Paese dai Turchi.