Origini della Grande Guerra
Dalla neutralità all’intervento italiano (1914-1915)

Gli eventi storici di grande rilevanza, decisivi per le sorti del mondo, hanno cause molto articolate, che non è facile classificare né definire. Ciò vale in modo particolare anche per la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) che coinvolse gran parte dell’Europa e altri importanti Paesi Extra-Europei come Stati Uniti e Turchia. Le motivazioni ebbero connotazioni di non facile decifrazione, in cui i temi militari si coniugavano con quelli economico-finanziari, se non anche psicologici, ma in molti ambienti occidentali, e soprattutto in quelli progressisti, siffatti argomenti erano confortati dall’illusione che quella fosse davvero l’ultima guerra destinata alla sconfitta della reazione, assicurando al mondo una pace duratura. Al contrario, sull’altro fronte, pur essendo trascorso un secolo dalla firma della Santa Alleanza (1815) si nutriva l’illusione opposta, governata da una fede conservatrice pronta ad arroccarsi sulle pregiudiziali di un assolutismo non certo illuminato.

In Italia le cause scatenanti del conflitto, o meglio della dichiarazione di guerra, furono di natura più articolata, e in parte diversa, spaziando dal momento militare a quello strettamente politico non senza importanti connessioni e riflessi economici collegati all’azione dei poteri forti, per non dire dell’influenza esercitata dalla cultura, che durante le «radiose giornate» del maggio 1915 – o presunte tali – non fu certamente marginale.

L’Italia scese in campo accanto ai Paesi dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia, e più tardi, gli Stati Uniti d’America), dopo circa dieci mesi di neutralità, perché il sanguinoso confronto con gli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria, Turchia) e loro alleati aveva avuto inizio da quasi un anno. Il Governo di Roma era rimasto a lungo nelle condizioni attendiste di non belligeranza, nonostante il triplice legame con Berlino e Vienna in essere dal 1881 e osteggiato dall’opposizione dei socialisti (schierati per la neutralità, diversamente da vari confratelli europei), ma alla fine decise di cambiare campo alleandosi con le Potenze dell’Intesa, e non senza manifestare qualche forzatura di tipo emozionale contro l’Austria, la «secolare nemica» del Risorgimento, nonostante la tardiva e ondivaga disponibilità asburgica a venire incontro alle attese italiane, almeno per Trento.

Un’ampia quota trasversale delle forze politiche italiane si era dichiarata a favore della guerra, comprendendo non soltanto una parte della destra moderata e tutta quella nazionalista, ma anche la sinistra repubblicana e radicale, convinta di doversi battere contro gli «ultimi» assolutismi per il trionfo della democrazia e della libertà. Nondimeno, una maggioranza meno vivace e piuttosto eterogenea, di estrazione liberale e cattolica, avrebbe preferito l’ipotesi opposta, riconoscendosi nelle posizioni di Giovanni Giolitti, ma finì per essere travolta dal subitaneo decisionismo della Monarchia, avallato dal Presidente del Consiglio Antonio Salandra e dal Ministro degli Esteri Sidney Sonnino.

La mossa decisiva fu la sottoscrizione del Patto di Londra (26 aprile) con le Potenze Occidentali e con la Russia, che garantiva all’Italia, nel caso della vittoria, Trentino e Venezia Giulia, attese ormai consolidate dell’irredentismo, e anche buona parte della Dalmazia.

Accanto a queste cause politiche è necessario citare quelle militari. L’Italia era un Paese giovane che aveva raggiunto l’unità da circa mezzo secolo e doveva ancora dimostrare di essere forte e organizzato, tanto più che le sue vicende belliche non erano state esaltanti: le guerre del Risorgimento, quando erano state vinte, avevano avuto il concorso decisivo della Francia (1859) o della Prussia (1866), mentre le imprese coloniali avevano dato luogo a un disastro epocale come quello avvenuto nella battaglia di Adua (1896) contro l’esercito etiope: uno scacco che in molti ambienti era stato considerato alla stregua di una vergogna nazionale. In altri termini, ora bisognava dimostrare che le forze armate italiane non erano da meno delle altre: cosa che avvenne effettivamente sull’Isonzo, sul Monte Grappa e sul Piave, sia pure a prezzo di enormi sacrifici. C’è di più: la fratellanza combattentistica sviluppata in trincea produsse una sensibilità unitaria certamente più ampia e matura di quella promossa dal Risorgimento.

Non è un mistero che un impulso importante alla guerra fosse stato mutuato dal sistema economico, e in particolare dagli interessi della grande industria guidata da Ansaldo e dalla Fiat: il grande capitale ravvisava nelle forniture militari una straordinaria, oltre che per vari aspetti unica opportunità di ulteriore sviluppo produttivo, e di un sostanziale controllo politico del Paese.

Un apporto fondamentale, come si diceva, fu quello proveniente dalla cultura e dalla stessa filosofia, con effetti trainanti superiori a quelli prevalentemente borghesi del Risorgimento, che non si sarebbero ripetuti nemmeno col fascismo. Gli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Grande Guerra furono contrassegnati dal successo del futurismo, che vedeva nel confronto militare la «sola igiene del mondo», come avrebbe detto Filippo Tommaso Marinetti, il suo massimo vessillifero, ma ciò accadeva nell’ambito di una letteratura con forti presenze di «nobile sentire» non disgiunto dal «forte agire», come quelle tipiche di scrittori o poeti quali Giovanni Papini e Gabriele d’Annunzio. Non basta: quando Giorgio Sorel o Antonio Labriola parlavano di «lotta di classe fra le Nazioni» o quando Giovanni Pascoli si rivolgeva all’Italia come alla «Grande Proletaria» che si muove verso il suo riscatto, si finiva per introdurre nella dialettica politica uno spunto a favore della guerra, sostanzialmente più di sinistra che di destra.

Non si deve dimenticare che all’indomani del terribile terremoto del 1908 che distrusse Messina e Reggio Calabria con un numero incalcolabile di morti (ma certamente superiore ai 100.000) gli ambienti militari di Vienna non fecero mistero dell’intenzione di approfittare della circostanza per «liquidare» l’Italia: cosa che poi non accadde grazie al veto di Francesco Giuseppe, ma che indusse un contributo non proprio effimero al progressivo affievolimento dell’alleanza italiana con gli Imperi Centrali. Del resto, tale accordo era apparso innaturale all’opinione pubblica sin da quando il martire triestino Guglielmo Oberdan non aveva esitato a immolarsi «sulla forca dell’Austria» (1882) per propugnare il carattere italiano della sua città e gli ideali di una democrazia notevolmente avanzata.

In chiave europea, se è vero che la causa scatenante del conflitto fu l’attentato contro l’erede al trono di Vienna, Francesco Ferdinando d’Asburgo, e contro la moglie Sofia, perpetrato a Sarajevo per opera dello studente serbo Gavrilo Prinzip (1914), è anche vero che le ragioni reali furono altrettanto complesse, e talvolta diverse da quelle che diedero luogo alla discesa in campo dell’Italia. Basti ricordare l’irredentismo di Alsazia e Lorena, coltivato in Francia sin dal 1870 – con l’invito a «pensarci sempre e non parlarne mai» – quando la disfatta di Napoleone III a Sédan aveva coinciso col momento di massimo fulgore della nuova potenza militare tedesca; le forti tensioni coloniali; e la proliferazione dei vari movimenti nazionali balcanici, in progressivo distacco dalla subordinazione storica all’Austria-Ungheria o alla Turchia.

L’irredentismo giuliano, istriano e dalmata ebbe un ruolo senza dubbio importante nella scelta di campo a favore dell’Intesa, che a ogni buon conto non fu immediata e nemmeno unitaria. Il battesimo ufficiale del movimento, peraltro già vivo nel periodo risorgimentale, si era tenuto nel 1877, quando il Generale Giuseppe Avezzana e Matteo Renato Imbriani avevano fondato la Società «Italia Irredenta», ma il suo cammino non era stato facile, tanto che le prime adesioni politicamente più importanti, paradossalmente, non vennero dalla destra ma dalle forze della sinistra radicale e repubblicana.

Esisteva un altro irredentismo, quello della Corsica e soprattutto di Nizza, che si ispiravano, nel primo caso, al grande nome di Pasquale Paoli, e nel secondo, alle più recenti intenzioni garibaldine, che avevano avuto buon gioco nel dimostrare come la conclusione della Seconda Guerra d’Indipendenza (1859) avesse coinciso con un vero e proprio tradimento: il «baratto» fra Lombardia, da un lato, e Nizza e Savoia dall’altro, sancito a livello popolare da un plebiscito taroccato.

Proprio per questo, le maggiori attese della destra moderata e del giovane nazionalismo si erano orientate in favore dell’irredentismo geograficamente «occidentale» in chiara funzione antifrancese, tanto più che avevano pesato in misura stringente lo «schiaffo» di Tunisi (1881) dove la Francia aveva instaurato il suo «protettorato» a tutto danno delle mire coloniali italiane; e più tardi, la strage di Aigues Mortes (1893) dove tanti lavoratori italiani delle saline attive nella Camargue erano stati proditoriamente uccisi da quelli transalpini nel corso di un’autentica guerra fra poveri, in palese disprezzo dei conclamati principi di cooperazione internazionale, in specie da parte socialista (ma non solo).

Certamente, il «grido di dolore» proveniente da Venezia Giulia e Dalmazia sin dal 1866, quando l’affrancamento dal giogo austriaco si era limitato al Veneto, aveva risuonato alto e forte nelle coscienze italiane, a cominciare da quella del «Re galantuomo» Vittorio Emanuele II, acquistando nuovi motivi di condivisione prioritaria rispetto alle attese altrui, ma le sorti della Corsica e di Nizza continuavano a far male, se non altro negli ambienti patriottici più sensibili. D’altro canto, era di tutta evidenza che bisognava scegliere: e la scelta finale fu quella anti-asburgica, prima che anti-austriaca, sia pure dopo alcuni decenni di sofferta maturazione.

Soltanto in tempi largamente successivi, dopo la Grande Guerra e la redenzione del Trentino e della Venezia Giulia (ma non della Dalmazia, con la sola eccezione di Zara), la questione «occidentale» sarebbe tornata alla ribalta, ma questa è un’altra storia, parimenti infausta.

Dopo l’inizio della guerra, avvenuto il 28 luglio 1914 con l’attacco austriaco alla Serbia, e fino alla discesa in campo dell’Italia che ebbe luogo il 24 maggio dell’anno successivo, molti eventi di rilievo si susseguirono a getto continuo. Anzitutto, la dichiarazione ufficiale di neutralità dichiarata da Roma, l’ascesa al soglio pontificio da parte del nuovo Papa Benedetto XV, l’avviamento di caute trattative con la Gran Bretagna per il possibile cambio di campo a iniziativa italiana, l’espulsione di Benito Mussolini dalle file del Partito Socialista a seguito di una crisi politica in rapida ascesa, l’occupazione del porto albanese di Valona voluta da Sonnino, la dichiarazione di una neutralità «condizionata» proposta dai Cattolici, e per finire, il nuovo terremoto della Marsica che parve iterare la tragedia del 1908 con tanto di riflessi internazionali: tutti fattori che in diversa misura avrebbero influito sulle scelte italiane.

Un’importanza decisiva fu assunta dalla scarsa convinzione con cui si svolsero – fra reciproche diffidenze – le trattative fra Roma e Vienna per i possibili «compensi» da offrire all’Italia in cambio della neutralità, se non anche della comune guerra contro l’Intesa: un’ipotesi che non fu esclusa a priori fin quasi alla vigilia del Patto di Londra. Lo stesso deve dirsi per la forte crescita nazionalista che raggiunse il massimo livello nella primavera del 1915 con gli esaltanti discorsi di Gabriele d’Annunzio e la minaccia di dimissioni adombrata da Vittorio Emanuele III di Savoia qualora il Parlamento avesse bocciato l’intervento a fianco dell’Intesa, cui il Sovrano aveva espresso un impegno anche personale tramite messaggi al Re d’Inghilterra, allo Zar di Russia e al Presidente della Repubblica Francese. Nonostante la sommessa protesta dei giolittiani, la Camera concesse i pieni poteri al Governo, e il Senato fece altrettanto (addirittura all’unanimità). Il dado era ormai tratto, e la parola passava alle armi, allargando ulteriormente le dimensioni della conflagrazione e i fronti di combattimento.

Quei dieci mesi di attesa, i cui fremiti scuotevano nobilmente gli «spiriti della vigilia» – come da pertinente definizione di Camillo Pellizzi – furono certamente decisivi per la storia e per i destini d’Italia. Non sarebbe stato facile conservare la neutralità a tempo indeterminato, vista l’importanza degli opposti obiettivi che avrebbe finito per far prevalere, a danno della pace, gli accennati ideali della Patria vista come «Grande Proletaria» e gli interessi di quelli che oggi sarebbero definiti «poteri forti». Nello stesso tempo, l’opzione a favore dell’Intesa, piuttosto che della Triplice, avrebbe confermato le ormai prevalenti vocazioni occidentali e «democratiche» dell’Italia contro le residue tentazioni autoritarie mutuabili da Berlino o da Vienna, ma quella scelta avrebbe pagato in misura decisamente parziale, perché a fine guerra il Governo di Roma fu costretto a confrontarsi duramente, e senza apprezzabile successo, con le nuove attese statunitensi e con le preoccupazioni suscitate in Francia e Gran Bretagna dalla nuova potenza italiana, non escluse quelle in campo coloniale.

In questo senso, non è azzardato affermare che nei prodromi della Grande Guerra si devono leggere nessi inequivocabili con quanto sarebbe accaduto dopo la fine delle ostilità militari, con riguardo prioritario all’Impresa dannunziana di Fiume, alla crisi della sinistra culminata nella scissione comunista, e al successo del fascismo, che nonostante le apparenze non fu certamente agevole ma ebbe bisogno del supporto offertogli da Casa Savoia per giungere al potere: se non altro, col rifiuto di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio, opposto al Governo Facta da Vittorio Emanuele III, ormai deciso a conferire al futuro Duce l’incarico di costituire un nuovo Gabinetto.

Le interpretazioni della storia sono sempre complesse[1] e quella dell’intervento italiano nella Grande Guerra non fa eccezione, mettendo in luce tutte le difficoltà e i relativi dubbi che il giovane Stato unitario fu chiamato ad affrontare in quella congiuntura drammatica, e che si sarebbero paradossalmente ripetuti venticinque anni più tardi, in una situazione certo diversa ma in qualche modo analoga, evidenziando ancora una volta, se per caso ve ne fosse stato bisogno, che la storia non è «maestra di vita» come avrebbe voluto Tucidide, perché nulla insegna; ovvero, nella migliore delle ipotesi, che è cattiva maestra.


Nota

1 La bibliografia sull’argomento, con particolare riguardo ai dieci mesi di «preparazione» prima dell’entrata italiana in guerra, è naturalmente di grande ampiezza. Per un primo inquadramento esaustivo, si vedano: Ivanoe Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, in «Biblioteca di cultura storica», Einaudi, Torino 1944; Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, XI edizione, Laterza, Bari 1956; e dello stesso Autore, L’Italia dal 1914 al 1918: pagine sulla guerra, III edizione, Laterza, Bari 1950.

(novembre 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Giovanni Giolitti, Antonio Salandra, Sidney Sonnino, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini, Gabriele d’Annunzio, Giorgio Sorel, Antonio Labriola, Guglielmo Oberdan, Francesco Ferdinando d’Asburgo, Sofia Chotek, Gavrilo Prinzip, Napoleone III, Giuseppe Avezzana, Matteo Renato Imbriani, Pasquale Paoli, Vittorio Emanuele II, Papa Benedetto XV, Benito Mussolini, Vittorio Emanuele III, Camillo Pellizzi, Casa Savoia, Luigi Facta, Tucidide, Ivanoe Bonomi, Benedetto Croce, Ansaldo, Fiat, origini della Grande Guerra, Italia, Europa, Stati Uniti, Turchia, Francia, Gran Bretagna, Russia, Germania, Austria, Ungheria, Roma, Berlino, Vienna, Trento, Venezia Giulia, Dalmazia, Prussia, Adua, Isonzo, Monte Grappa, Piave, Messina, Reggio Calabria, Sarajevo, Alsazia, Lorena, Sédan, Corsica, Nizza, Lombardia, Savoia, Tunisi, Aigues Mortes, Veneto, Zara, Serbia, Valona, Marsica, Fiume, Patto di Londra, Prima Guerra Mondiale.