Una disputa di retroguardia
Gabriele d’Annunzio nella Grande Guerra: il caso di Bocche del Timavo (1917). Interpretazioni difformi a un secolo dai fatti

Nel novembre 2018 si ebbe un vivace scambio di pareri fra gli storici Aldo Cazzullo e Paolo Rumiz da una parte, e Pierluigi Romeo di Colloredo Mels dall’altra, circa il comportamento di Gabriele d’Annunzio durante la Grande Guerra. Ciò, con riferimento iniziale all’articolo di Cazzullo pubblicato dal «Corriere della Sera» sulla battaglia di Bocche del Timavo (28 maggio 1917) in cui il Maggiore Giovanni Randaccio, poi largamente idealizzato durante l’Impresa di Fiume, perse eroicamente la vita dopo avere già dimostrato il suo alto valore in precedenti occasioni tanto da essere decorato con tre Medaglie d’Argento al Valore[1].

Alla resa dei conti, e stemperate le residue polemiche, sembra di poter dire che si è trattato di una disputa degna di miglior causa, come parecchie di quelle che contraddistinguono l’informazione culturale della nostra epoca, se non anche la storiografia, alla ricerca della notizia sorprendente, sebbene opinabile.

Cazzullo aveva scritto, in sintesi, che il Vate stava guardando da posizione riparata gli assalti che i fanti italiani dovevano portare al Castello di Duino per una sua improbabile conquista, prontamente stroncata dal fuoco austriaco, aggiungendo che scopo di tale iniziativa sarebbe stato quello di innalzare il tricolore sul pennone del maniero, in modo che si potesse vedere da Trieste. Di qui, l’accusa di avere fatto da spettatore mentre i soldati erano facilmente falciati dalle armi del nemico.

Da parte sua, Colloredo ha obiettato che una simile azione, del tutto inutile sul piano militare, non avrebbe potuto essere oggetto di comando, a prescindere dal fatto che, data la distanza di circa 20 chilometri, da Trieste non si sarebbe visto nulla, e meno che mai la bandiera. Al contrario, si trattava di conquistare la vicina «Quota 28» che costituiva un caposaldo di grande importanza, da un lato per la difesa austriaca, e dal lato opposto per la prosecuzione della difficile avanzata italiana verso il capoluogo giuliano. Infatti, il possesso della predetta Quota avrebbe consentito di aggirare utilmente le forti postazioni nemiche sullo sperone del Colle Hermada.

Pertanto le affermazioni di Cazzullo, secondo cui il Vate avrebbe «provocato la morte di centinaia di fanti» durante gli scontri per la conquista del Castello, a giudizio del suo interlocutore sarebbero state prive di fondamento, costituendo un falso storico.

Nella «querelle» si sarebbe inserito anche il pronipote del Poeta, Federico d’Annunzio di Montenevoso, con una garbata protesta al «Corriere» in cui faceva notare che Gabriele non aveva mai ucciso nessuno e che aveva confidato in una guerra breve, diversamente da quanto accadde, non senza una controreplica del Cazzullo in cui quest’ultimo concordava con l’assunto sia pure «obtorto collo» ma ribadiva, sul piano generale, che il Vate aveva dato un contributo importante alla discesa in campo dell’Italia, e quindi ai lutti che il conflitto avrebbe indotto, come da tesi condivisa da Rumiz sia pure con qualche «distinguo». Dal canto suo, Giordano Bruno Guerri, in un intervento sul «Giornale», avrebbe rilevato come il Cazzullo avesse tentato di «riscrivere la storia»: cosa che capita spesso, quando il giornalista prende la mano allo storico.

A più forte ragione, simili «eccessi» accadono nel momento in cui si voglia esprimere un giudizio su fatti storici appartenenti ad altre epoche, esprimendo critiche fondate su ben diverse concezioni del mondo attuale, cosa chiaramente accaduta nel caso specifico. Non si deve dimenticare che ogni storia è «contemporanea», secondo l’assunto sempre valido di Benedetto Croce, ma è pur vero che quel giudizio non deve prescindere dalla valutazione dei valori e della sensibilità di un’altra epoca, e nei riferimenti alla Grande Guerra, di un momento decisivo nella storia d’Italia perché fu quello in cui l’unità divenne davvero una realtà effettiva, e percepita come tale dalla grande maggioranza del popolo italiano.

Tornando al confronto con Cazzullo, si deve aggiungere che Colloredo, chiamando in causa anche gli interventi della giustizia militare in occasione della rivolta promossa in seno alla Brigata «Catanzaro», di cui Gabriele d’Annunzio fu testimone, e peraltro in tutt’altra circostanza, aveva affermato che vi furono effettivamente alcune fucilazioni, ma che non fu ordinata alcuna decimazione, sia in tale occasione, sia nel corso del conflitto, mentre detta prassi, a differenza di quanto accadde in altri eserciti, fu purtroppo ricorrente, come da ampia documentazione storiografica[2].

La chiosa assume carattere collaterale ma pertinente, stante il fatto che il Poeta soldato fu presente al predetto episodio in agro di Santa Maria La Longa, per cui ebbe parole di umana «pietas» ma nessun commento di oggettivo merito sulle reali motivazioni di quel drammatico ammutinamento[3].

Per quanto riguarda la vicenda di Bocche del Timavo, conviene precisare che Giovanni Randaccio, ferito a morte, sarebbe spirato fra le braccia di Gabriele, il quale lo avrebbe assistito nel momento supremo, vale a dire nel corso della battaglia sotto il fuoco nemico, per poi avvolgerne le spoglie mortali nella celebre Bandiera contrassegnata dal sangue del caduto, presente a Fiume, e poi al Vittoriale degli Italiani.

Trascorsi due anni dal confronto – più giornalistico che storico – con cui sono state chiamate in causa tante firme importanti, e che non è stato privo di altri apporti, sebbene ininfluenti sul piano di conclusioni veramente oggettive, sembra di poter dire che la ricerca dello «scoop» non è sempre conveniente, in specie quando non sia possibile illustrare una novità davvero assoluta e documentata, cosa che non è comunque accaduta per l’episodio di Bocche del Timavo, di grande importanza mediatica ma di non altrettanta rilevanza nel prosieguo del conflitto, tanto più che dopo cinque mesi ogni possibile effetto sarebbe stato travolto dal disastro di Caporetto.

Il giornalismo ha esigenze proprie di immediatezza, e come avrebbe detto Teofilo Folengo a proposito della poesia, di «maraviglia»: per cui «chi non sa far stupir, torni alla striglia». Non sono giammai quelle della storia, che per essere veramente autorevole e credibile non deve indulgere alla partigianeria ma tendere all’oggettività come da insegnamento di Tacito; ovvero, alla luce dell’identità di «verum et factum» di cui alla fondamentale lezione del Vico.


Note

1 Giovanni Randaccio, all’epoca trentaduenne, essendo nato a Torino nel 1884, aveva guadagnato le Medaglie d’Argento sul Sei Busi, in agro di Monfalcone (luglio 1915), sul Carso di Doberdò (ottobre 1915) e sul Dosso Faiti in territorio di Comeno (novembre 1916) unitamente alla promozione al grado di Maggiore per merito di guerra. Poi, durante la nona e la decima battaglia dell’Isonzo ebbe alle proprie dipendenze proprio Gabriele d’Annunzio con cui avrebbe avuto una forte amicizia corroborata dalla reciproca ammirazione, e infine la Medaglia d’Oro, oltre al cippo commemorativo che ne ricorda l’eroico sacrificio presso le foci del Timavo.

2 Sull’argomento resta fondamentale l’opera di Enzo Forcella e Alberto Monticone, Plotone di esecuzione: i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, Bari 1972. Secondo le cifre ufficiali del Ministero della Guerra ivi riportate, le condanne capitali sarebbero state oltre 4.000, due terzi delle quali pronunciate in contumacia, a fronte di 750 effettivamente eseguite, ma il numero è sottostimato perché non tiene conto di fucilazioni sommarie senza processo disposte sul campo (forse assommanti a qualche altro centinaio). Nel caso specifico della Brigata «Catanzaro» le esecuzioni furono almeno 28, di cui 16 a carico degli ammutinati (responsabili di una sparatoria notturna in cui erano stati uccisi due ufficiali e nove soldati) e 12 per decimazione (Ibidem, pagine 186-188). L’episodio «fu uno dei più gravi di tutta la guerra» e come tale giudicato per direttissima. In materia, altri ragguagli, anche sul piano bibliografico, sono disponibili nell’opera di Nicola Labanca, Caporetto: storia e memoria di una disfatta, Il Mulino, Bologna 2017. Ulteriori spunti di specifico interesse, anche a proposito della cosiddetta «rivolta abortita», trovano spazio in Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Il Mulino, Bologna 2014.

3 Talvolta, le generiche accuse di «codardia» davanti al nemico, di cui abbonda la giurisprudenza di guerra, non avevano fondamento, in quanto gli «arretramenti» oggetto di accusa erano motivati da oggettive esigenze tattiche (al riguardo, per una significativa esemplificazione, confronta Maria Rosa Calderoni, La fucilazione dell’Alpino Ortis, Gruppo Editoriale Mursia, Milano 1999: episodio tanto più ragguardevole, perché Silvio Ortis, sia pure a tanta distanza dai fatti, è stato oggetto di riabilitazione). Più spesso, le proteste della truppa traevano spunto da fattori vitali immediatamente comprensibili come la rarefazione delle licenze, la lunghezza insostenibile dei turni di trincea, la qualità del rancio, la sfiducia in una tattica di mero logoramento, l’ansia per le famiglie lontane. Non a caso, dopo la nomina di Armando Diaz, il futuro Duca della Vittoria, nell’incarico di Comandante supremo, i miglioramenti nella gestione dei soldati al fronte non furono marginali e gli episodi di insubordinazione si contrassero sensibilmente, tanto più che dopo la ritirata sul Piave la guerra era diventata «patriottica» e in quanto tale, riferibile a valori di comprensione comune. Di tutt’altro segno fu l’esperienza bellica di Gabriele d’Annunzio, spesso eroica ma generalmente elitaria, ancor più di quanto lo fosse quella di Giovanni Randaccio: basti pensare ai voli su Vienna o su Trieste, all’impresa marittima di Buccari, e per l’appunto, all’episodio di Bocche del Timavo.

(dicembre 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Gabriele d’Annunzio, Bocche del Timavo, 1917, Prima Guerra Mondiale, Aldo Cazzullo, Paolo Rumiz, Pierluigi Romeo di Colloredo Mels, Giovanni Randaccio, Federico d’Annunzio, Giordano Bruno Guerri, Benedetto Croce, Brigata Catanzaro, Teofilo Folengo, Publio Cornelio Tacito, Giambattista Vico, Enzo Forcella, Alberto Monticone, Nicola Labanca, Mario Isnenghi, Maria Rosa Calderoni, Silvio Ortis, Armando Diaz, Timavo, Duino, Trieste, Quota Ventotto, Hermada, Santa Maria La Longa, Fiume, Vittoriale degli Italiani, Caporetto, Torino, Sei Busi, Monfalcone, Doberdò, Carso, Faiti, Comeno, Isonzo, Piave, Buccari, Grande Guerra, battaglia di Bocche del Timavo, 28 maggio 1917.