Apologia della diserzione nella Grande Guerra
Una maggioranza bulgara alla Camera per la riabilitazione postuma del tradimento

Un provvedimento del Governo di Francesco Saverio Nitti che suscitò discussioni e reazioni, comprensibilmente anche violente, fu quello assunto il 2 settembre 1919 per la concessione dell’amnistia a fronte dei reati militari commessi durante la Grande Guerra. L’euforia della Vittoria, il naturale allentamento della disciplina d’emergenza e le pressioni della Sinistra furono alla base di una decisione comunque impopolare, soprattutto fra i combattenti e le famiglie dei caduti, perché con quella normativa si cancellava d’un colpo gran parte delle sentenze passate in giudicato, e persino i processi ancora in corso, pari a circa 50.000, a fronte degli 800.000 ormai chiusi.

L’amnistia obbediva all’esigenza di chiudere una pagina incresciosa della storia appena vissuta, anche se creava palesi discriminazioni: da un lato, nei confronti di tutti i combattenti che si erano comportati con onore, se non anche con eroismo, e che costituivano la stragrande maggioranza dei soldati, dei graduati e degli ufficiali; dall’altro, anche nei confronti dei rei che erano stati condannati durante le operazioni militari. In taluni casi, era stata comminata la pena capitale: le sentenze di morte effettivamente eseguite furono 729, senza contare le decimazioni senza processo che peraltro erano state autorizzate, in casi estremi, da una circolare del 1915 emessa dal Comando Supremo, a firma del Generale Luigi Cadorna.

È facile capire che l’amnistia voluta da Nitti andava a toccare un nervo scoperto. Era passato meno di un anno dalla fine della guerra, le cui ferite sanguinavano ancora, con riguardo prioritario a quelle di un altissimo numero di mutilati ed invalidi che avevano dato il sangue alla Patria e che ora assistevano con comprensibile disagio, non solo morale, all’assoluzione dei disertori. In talune occasioni, persino il rientro dei tantissimi prigionieri era stato salutato con offese di ogni genere, come se costoro fossero responsabili di codardia davanti al nemico, mentre il più delle volte erano stati vittime di una condotta scriteriata delle operazioni, peraltro comune a tutti i fronti ed a tutti gli eserciti; del resto, vennero accomunati nel disprezzo antipatriottico della Sinistra persino i combattenti reduci dal fronte, causa non ultima della progressiva affermazione fascista.

In ogni caso, nel bene e nel male l’amnistia divenne legge: cosa che non si sarebbe dovuta dimenticare nel momento in cui, concomitante il centenario, alcuni parlamentari della Repubblica hanno presentato il disegno di legge numero 935, a più forte ragione pleonastico, per la riabilitazione generalizzata dei combattenti che durante la Grande Guerra si erano visti «irrogare la pena capitale». È vero che la vecchia amnistia non poteva avere alcun significato per i morti, ma è parimenti vero che creava il presupposto per la revisione di processi in cui le sentenze fossero state pronunciate in deroga ad un giudizio obiettivo e sereno. Del resto, singole riabilitazioni postume, come quella recente dell’Alpino Silvio Ortis di Cercivento, sono giustamente intervenute in tempi successivi, a fronte di documentate revisioni processuali attestanti la tragica iniquità dei fatti.

Ciò di cui non si avvertiva proprio il bisogno è un provvedimento generalizzato come quello statuito nel predetto disegno di legge, già approvato dalla Camera con una maggioranza del 99,7%, tale da far impallidire quelle ricorrenti nelle cosiddette democrazie popolari di staliniana memoria. Oltre tutto, l’articolo 2 della normativa statuisce, in modo obiettivamente surreale, che nel Vittoriano venga installata una targa bronzea in cui la Repubblica «chiede il perdono dei militari caduti» e riabilitati (senza pensare che all’epoca essa nemmeno esisteva). Di fatto, è una vera e propria apologia della diserzione e del tradimento, che naturalmente non porta alcun vantaggio concreto alle famiglie dei condannati, cancella un pietoso oblio su vicende storiche certamente dolorose, ed offende chi si era battuto lealmente nel campo dell’onore, con un oltraggio ben più grave di quanto avesse fatto l’amnistia di Nitti, che se non altro obbediva alle esigenze contingenti di cui si è fatto cenno.

Nulla vi sarebbe stato da dire, ad esempio, se presso il Ministero della Difesa si fosse istituita una Commissione incaricata di riesaminare caso per caso i pochi processi dubbi, mentre c’è troppo da dire, in primo luogo sul piano etico, a proposito di un Parlamento che nell’odierna difficile congiuntura economica e sociale si preoccupa di riaprire pagine drammatiche della storia italiana con l’unico intento di aggregarsi, anche nella fattispecie, ad un buonismo facile ed approssimativo, ma nello stesso tempo cinico nella misura in cui si appresta a fare strame di valori fondanti come l’onore militare e la stessa idea di Patria. Caso mai sorprende, ma non più di tanto, che i parlamentari della cosiddetta Destra si siano accodati senza «se» e senza «ma» alla felice ed estemporanea trovata del Partito Democratico e delle altre forze sinistroidi.

D’altra parte, come sorprendersi troppo se persino il Capo di Stato Maggiore della Difesa ha sentito il bisogno di affermare che tutti i disertori furono «vittime della guerra» accomunandoli, sembra di capire, alle Medaglie d’Oro ed agli altri combattenti che diedero la vita per la Patria, senz’altro conforto all’infuori dell’aver compiuto il proprio dovere? È proprio il caso di dire che si vivono tempi assai grami, in specie qualora si pensi che la riabilitazione generalizzata dei disertori non ha diritto di cittadinanza in qualsiasi altro Stato: resta solo da confidare, come fu detto, che una volta toccato il fondo si possa trovare un pizzico di buona volontà per risalire l’impervia china della viltà e del disonore.

(febbraio 2016)

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