Storia delle guerre arabo-israeliane e del Medio Oriente
Contribuirono anche a duri scontri all’interno del mondo arabo

La nascita dello stato d’Israele e i contrasti fra Ebrei e Arabi in quella regione negli anni dell’immediato dopoguerra hanno costituito una delle tante guerre locali del Medio Oriente. Il governo britannico, interessato a mantenere buoni rapporti con gli Arabi, tentò di frenare l’immigrazione e la formazione di uno stato ebraico nella Palestina, tuttavia forti dell’aiuto delle comunità ebraiche di tutto il mondo, gli Israeliani raggiunsero il loro obiettivo. Gli immigrati ebrei provenivano principalmente dall’Europa orientale e centrale, e superiori culturalmente ed economicamente agli Arabi, diedero vita a una fiorente comunità che acquistava dagli sceicchi vasti terreni semiaridi da valorizzare. La comunità ebraica costituiva però una specie di isola circondata interamente da popoli Arabi musulmani ostili; le comunità israelite, già dagli anni ’20 subirono le aggressioni ispirate dal Gran Muftì di Gerusalemme, l’uomo che successivamente si accordò con Hitler per la costituzione di una divisione di Waffen SS formata da volontari musulmani.

La decisione dell’Assemblea Generale dell’ONU nel ’47 di creare due distinti stati, uno ebraico e uno musulmano (oltre alla città di Gerusalemme sotto amministrazione internazionale) non incontrò il favore degli Arabi, che essendo numericamente superiori, ritenevano che in un unico stato avrebbero potuto disporre della maggioranza e quindi di pieni poteri nei confronti degli sgraditi vicini. Al ritiro delle truppe britanniche, gli Ebrei proclamarono la nascita dello stato di Israele ma vennero attaccati dai Palestinesi sostenuti da una grande coalizione di stati arabi. Per quanto superiori numericamente, questi non riuscirono a prevalere e gli Israeliani riportarono alcune vittorie, limitate solo dalla minaccia di intervento da parte del governo britannico. La capacità di resistenza degli Ebrei non sarebbe stata certamente sufficiente a fronteggiare l’aggressione se le comunità ebraiche mondiali e i paesi comunisti, interessati a contrastare l’influenza inglese nella regione, non avessero contribuito con l’invio di aiuti militari. Le conseguenze del conflitto furono particolarmente gravi per gli Arabi. Lo stato palestinese venne a sparire; una parte conquistato dagli Israeliani, il territorio della Cisgiordania assorbito dal regno hascemita della Transgiordania (che diede vita allo stato di Giordania) e i territori a sud di Gaza occupati dagli Egiziani. Oltre 700.000 Palestinesi furono costretti a trovare rifugio in Siria, Giordania e Libano in miseri campi profughi, non integrati con le popolazioni locali, mentre un gran numero di Ebrei venne cacciato dai paesi arabi.

La comune cultura europea del popolo ebraico e le tendenze più marcatamente nazionaliste successivamente manifestate dagli Arabi, portarono a un rovesciamento delle alleanze. Francesi e Inglesi si impegnarono nel sostegno d’Israele, mentre gli Arabi iniziarono a guardare altrove. In quegli anni nel Medio Oriente sorsero nuovi movimenti politici e l’esercito assunse un ruolo di sempre maggiore importanza, favorendo i gruppi politici di tendenze pan-arabiste e laiciste.

La infelice conclusione del conflitto per il mondo arabo portò a una situazione d’instabilità interna di quei paesi, di cui ne fecero le spese soprattutto le monarchie filo occidentali. Nel 1951 l’ambizioso re Abdullah di Giordania, fedele alleato della corona britannica, che durante gli anni della guerra aveva represso la rivolta araba a favore dell’Asse, venne assassinato. Al trono salì il giovane monarca Hussein che dovette costantemente bilanciare nel corso del suo regno la sua propensione verso l’Occidente con le spinte pan-arabiste di una parte della popolazione.

Nello stesso anno il governo egiziano di Nahas Pascià denunciò gli accordi anglo-egiziani del ’36 riguardanti il presidio del Canale di Suez da parte di truppe britanniche e il condominio comune sul Sudan (sul quale l’Egitto mirava a esercitare un controllo esclusivo). Nel paese scoppiarono numerosi incidenti (culminati negli scontri fra manifestanti e truppe britanniche a Ismailia) che portarono al rovesciamento della monarchia da parte dell’esercito sotto la guida del generale Neguib e successivamente del più radicale Nasser. Instaurata la repubblica, il nuovo leader arabo si fece promotore di una vasta e contrastata riforma agraria nel paese, di un programma di industrializzazione, e in politica estera di un forte pan-arabismo che puntava a creare una leadership egiziana sul mondo arabo. Nel ’54 venne sottoscritto un nuovo accordo fra il governo del Cairo e quello di Londra; in base al quale le truppe britanniche lasciavano il Canale, mentre l’Egitto si impegnava a rispettare la libertà di navigazione e a consentire l’uso di basi nel caso di aggressione (ma non proveniente da Israele) ai paesi della Lega Araba o alla Turchia.

L’Egitto di Nasser con la sua economia disastrata divenne in breve tempo il primo e più importante alleato non comunista dell’Unione Sovietica, tuttavia non venne meno nel nuovo governo del Cairo il forte senso di indipendenza, e l’alleanza non impedì la persecuzione del locale partito comunista. Diversamente dai paesi europei, gli Americani ritennero pertanto di tenere un atteggiamento non ostile; secondo il segretario di stato americano Dulles non era possibile una piena adesione del Rais al blocco sovietico e infatti nel giro di alcuni anni si verificò l’atteso raffreddamento dei rapporti fra il Cairo e Mosca.

Nel 1955 la diplomazia britannica mise a punto un importante successo con la realizzazione di un trattato di alleanza fra Turchia (l’antica potenza dominatrice della regione) e Iraq, a cui seguì in tempi brevi l’adesione del Pakistan (suscitando le proteste dell’India) e dell’Iran. La nuova alleanza, conosciuta come Patto di Bagdad o CENTO, costituì l’ultimo importante atto della Gran Bretagna come grande potenza, ebbe il pieno appoggio della Francia e, sia pur con alcune riserve, degli Stati Uniti. L’ingresso dei paesi mediorientali nell’alleanza occidentale costituì l’ultimo anello di quella catena di stati che doveva circondare il blocco sovietico dalla Norvegia al Giappone. Diversi stati arabi tuttavia guardavano con sospetto alle mire espansionistiche dell’Iraq nella regione e si organizzarono prontamente in una controalleanza comprendente Siria, Egitto, Arabia Saudita e Yemen.

Il fallimento delle trattative fra USA ed Egitto per il finanziamento della costruzione della diga di Assuan (che avrebbe aumentato di un terzo le terre coltivabili e raddoppiato la produzione di energia elettrica), l’acquisto di armi dalla Cecoslovacchia, e la conclusione del Patto di Bagdad avevano fortemente deteriorato i rapporti fra Egitto e mondo occidentale, anche se nulla poteva far pensare a una rapida escalation nella regione. Fu l’aperto appoggio del governo di Nasser ai movimenti indipendentistici algerini, confermati dalla scoperta di un carico di armi egiziane dirette in Algeria, e soprattutto la confisca della Compagnia del Canale di Suez con capitale franco-britannico a provocare la definitiva rottura. Il 13 giugno del ’56 l’ultimo soldato inglese aveva abbandonato il suolo egiziano, come previsto dall’accordo del ’54 e a poco più di un mese di distanza, il 26 luglio il Rais annunciava la nazionalizzazione del Canale di Suez. L’iniziativa che mise in difficoltà i paesi europei e l’Inghilterra, soprattutto per i rifornimenti di petrolio, venne immediatamente contestata ma non si poté impedire l’attuazione del grave provvedimento. Nasser, non soddisfatto dell’arbitraria confisca, senza nemmeno un tentativo di rinegoziare l’accordo sullo sfruttamento della via d’acqua, si spinse a respingere quei principi del diritto internazionale che prevedevano la libertà di transito per le vie marittime di interesse internazionale. La situazione venne ulteriormente aggravata dall’attività di guerriglia dei Greco-Ciprioti che mise in difficoltà l’importante base aero navale britannica nell’isola di Cipro che garantiva la presenza europea nel bacino del Mediterraneo orientale.

Gli Stati Uniti, si dichiararono per una gestione del Canale da parte di una associazione dei principali paesi che usufruivano della importante via marittima. Tale proposta venne approvata da una conferenza internazionale, ma venne respinta dal governo egiziano che ne impedì l’attuazione.

La impossibilità di procedere secondo le decisioni della comunità internazionale spinse i governi di Francia e Inghilterra ad agire diversamente. Il governo socialista Mollet fu il principale sostenitore di un’azione contro l’Egitto; vennero presi accordi con il governo israeliano per un’iniziativa comune, confidando sul fatto che i Sovietici non avrebbero avuto modo d’intervenire per motivi logistici nel Mediterraneo. Israele d’altra parte, preoccupato per i continui attacchi di fedayin dalla zona palestinese presidiata dagli Egiziani e dal blocco degli Stretti di Tiran da parte degli stessi, che impedivano l’accesso all’unico sbocco israeliano sul Mar Rosso, non aspettava altra occasione per intervenire.

Il governo socialista francese e quello britannico si accordarono sul piano d’azione contro il Cairo, senza informare gli Stati Uniti e gli altri partner della NATO; il giorno 29 ottobre le truppe israeliane attaccarono l’Egitto penetrando in profondità nel Sinai. Mentre la nazione araba si preparava a inviare rinforzi oltre il Canale, in quella che si riteneva una delle tante scaramucce di confine, Francia e Gran Bretagna, il giorno successivo, lanciarono come previsto dai precedenti accordi, un ultimatum ai due contendenti affinché le loro truppe si allontanassero dalla importante via d’acqua; il governo israeliano accettò la richiesta (avendo raggiunto il proprio obiettivo), ma gli Egiziani, che avrebbero in tal modo dovuto rinunciare a una parte del proprio territorio, respinsero la richiesta.

Il giorno 30 si tenne la convocazione del Consiglio di Sicurezza su richiesta del governo americano che già aveva inviato un messaggio a Israele chiedendo la cessazione dei combattimenti e il ritiro delle truppe. Vennero discusse due risoluzioni presentate da Americani e Sovietici dove si chiedeva il ritiro immediato delle truppe israeliane e il divieto di prestare aiuto allo stato ebraico, che non ebbe attuazione a causa del veto franco-britannico perché indirettamente costituivano una sanzione al loro comportamento.

Scaduto il perentorio ultimatum presentato dai due governi europei, il 31 ottobre iniziarono i bombardamenti sugli aeroporti egiziani da parte dell’aviazione francese e britannica di stanza a Cipro e da alcune portaerei al largo del Mediterraneo, che sconvolsero le difese egiziane.

Alcuni hanno visto nella presa di distanza americana dall’iniziativa franco-britannica un’azione scorretta alle spalle di quest’ultimi intrapresa per ribadire la supremazia degli Stati Uniti sul vecchio continente. Lo scambio di note fra i governi occidentali fa invece ritenere che si sia trattato di un gesto di buon senso del presidente americano, impegnato negli stessi giorni dalle elezioni presidenziali, contrario a un possibile allargamento del conflitto, d’altra parte Francesi e Inglesi avevano messo di fronte al fatto compiuto gli Americani, e non ebbero la solidarietà nemmeno dei partner europei della NATO, molto interessati alla questione del libero accesso al Canale.

L’Egitto ruppe le relazioni diplomatiche con Parigi e Londra, ordinò la mobilitazione generale, e ricorse a una misura che si rivelò estremamente efficace, il blocco del Canale, che insieme alla chiusura degli oleodotti in Siria provocò gravi conseguenze all’approvvigionamento di petrolio da parte dei paesi europei. Gli altri stati arabi evitarono tuttavia di intervenire contro l’aggressione israeliana e gli Egiziani furono pertanto costretti ad abbandonare precipitosamente il Sinai per evitare l’accerchiamento dell’esercito.

Il 4 novembre l’Assemblea Generale dell’ONU approvò una risoluzione presentata dal Canada in cui si chiedeva la costituzione di una forza di pace delle Nazioni Unite che sembrò non trovare la disapprovazione degli Inglesi, più disponibili al negoziato dei loro colleghi di Parigi, ma che non impedì agli stessi e ai Francesi di continuare il piano d’azione intrapreso. Il giorno seguente, come previsto, i paracadutisti francesi occuparono Porto Fuad, all’estremità nord del Canale e gli Inglesi Porto Said sul lato opposto.

Nella seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del giorno stesso il rappresentante sovietico propose un intervento comune con gli Stati Uniti per far cessare l’intervento franco-britannico, ottenendo il deciso rifiuto del delegato americano, il quale sostenne che era completamente fuori luogo un’azione comune contro le nazioni europee specie nel momento in cui le divisioni sovietiche stavano portando a termine l’aggressione contro l’Ungheria. Contemporaneamente l’Unione Sovietica, bruciando le tappe, inviò un messaggio di eccezionale gravità ai governi di Francia, Gran Bretagna e Israele in cui si portava a conoscenza che la situazione era tale da provocare lo scoppio di una terza guerra mondiale, ed esplicitamente prospettava la possibilità di ricorrere ad attacchi missilistici contro i paesi europei.

Gli Stati Uniti, con i quali i governi francese e inglese immediatamente si consultarono, espressero a essi la loro solidarietà, sia pure senza prendere impegni sull’azione che avrebbero condotto nel caso di aggressione o di una flotta russa che avesse portato soccorso all’Egitto.

L’Unione Sovietica, dove vi era stata la formazione di gruppi di «volontari» pronti a intervenire a difesa dello stato egiziano analogamente a quanto successo in Cina durante la guerra di Corea, informò il governo turco che la flotta avrebbe attraversato gli Stretti, contemporaneamente gli Stati Uniti decisero lo stato d’allerta delle forze americane. Il giorno successivo, le truppe franco-britanniche sbarcavano nella zona del Canale nelle zone già presidiate dai paracadutisti, con il supporto massiccio (il primo nella storia) di truppe eli-trasportate e rapidamente dilagavano su tutto il Canale. Al tempo stesso però, sotto la pressione del suo stesso partito, il premier britannico Eden fu costretto a cedere e informava di essere disponibile alla sostituzione delle sue truppe da parte di quelle dell’ONU, alla notizia anche i Francesi, sia pure con maggiore riluttanza, si adeguavano alla decisione. Israele accettò di ritirarsi dal Sinai non senza l’assicurazione che truppe dell’ONU presidiassero gli Stretti di Tiran e i campi palestinesi di Gaza, e nel dicembre i franco-britannici completavano lo sgombero del Canale.

Eden fu costretto alle dimissioni di lì a poco, e per la Gran Bretagna come per la Francia la faccenda costituì un grave scacco, avendo perso il sostegno di numerosi paesi afroasiatici e al tempo stesso dimostrando di non disporre della forza per una iniziativa internazionale autonoma. Guy Mollet commentando successivamente gli avvenimenti di fronte alle camere sostenne che «tra un’America che a volte è troppo impulsiva e a volte troppo lenta a comprendere la dimensione del pericolo e un’Unione Sovietica inquietante e talvolta ancora minacciosa nel proprio atteggiamento, abbiamo sperato in un’Europa unita, attiva, quale forza mondiale, non neutrale ma indipendente».

L’insuccesso di Francia e Gran Bretagna nella crisi di Suez segnò una svolta in Medio Oriente. Numerose furono le aziende e le proprietà europee nazionalizzate, mentre la regione venne investita da un grande fermento che minacciava di spazzare via tutti i regimi filo occidentali.

Il 5 gennaio del 1957, a due settimane di distanza dal ritiro delle truppe franco-britanniche dal Canale di Suez, il presidente Eisenhower chiese al Congresso (piano d’azione che passò alla storia come «dottrina Eisenhower») l’autorizzazione a intervenire con sostegni economici e aiuti militari ai paesi arabi che fossero aggrediti o sottoposti alla pressione anche indiretta di Mosca. A tale iniziativa i Sovietici contrapposero una iniziativa di pace consistente nella neutralizzazione del Medio Oriente attraverso l’eliminazione delle basi militari, il ritiro di truppe straniere, e il divieto di fornire armamenti a quei paesi. La proposta venne respinta; i Sovietici in quel momento non disponevano di basi militari in quella regione e quindi lo sgombero avrebbe riguardato esclusivamente le forze occidentali, inoltre la neutralizzazione della regione avrebbe consentito a Nasser, all’apice della sua potenza, di assumere il ruolo di leader incontrastato del popolo arabo.

I paesi già aderenti al Patto di Bagdad, la Libia, il Libano, la Tunisia, il Marocco, e l’Afghanistan accettarono la «tutela» americana; il re Saud di Arabia, in contrasto con l’Iraq non accettò, tuttavia sottoscrisse un’importante accordo (rinnovo della concessione di basi militari e forniture militari) con gli Stati Uniti.

La Giordania conobbe in quegli anni una delle sue numerose crisi, sotto l’impulso della piazza il sovrano fu costretto a ritirare i suoi propositi di adesione al Patto di Bagdad, e nel ’57 un governo formato da nasseriani, Palestinesi e alcuni esponenti comunisti, arrivò alla denuncia del trattato di alleanza con l’Inghilterra. Nell’aprile il governo, ritenuto una minaccia alle istituzioni, venne rovesciato dal re che instaurò la legge marziale nel paese. L’Iraq dichiarò di essere pronto a intervenire qualora re Hussein, cugino di secondo grado di Feisal, fosse stato in pericolo; gli Stati Uniti offrirono aiuti economici al piccolo stato, e la 6° Flotta venne inviata a presidiare il Mediterraneo orientale; nonostante i moti di piazza, la corona riuscì a resistere e il paese ritornava successivamente verso la normalità.

In Siria dopo i numerosi colpi di stato susseguitesi dal ’49, nel ’54 si instaurò un governo militare filo nasseriano sotto la guida del generale Kuatli che nei mesi successivi si rivolse all’Unione Sovietica per aiuti economici e militari. Nell’estate del ’57 mentre i comunisti iniziavano la loro scalata al potere in Siria, il governo di Damasco espulse tre diplomatici americani accusati di complotto, mentre un clima di tensione si instaurò con la Giordania per gli aiuti militari forniti a essa dagli Stati Uniti e con la vicina Turchia per questioni di confine.

In seguito ad alcuni incidenti di frontiera fra Ankara e Damasco, il 9 ottobre di quell’anno Kruscev accusò gli Stati Uniti di voler aggredire lo stato siriano attraverso l’alleato turco, e con una nota diplomatica estremamente pesante, in cui si rammentava il pericolo di una vasta guerra (non diversamente da quanto aveva fatto nell’ottobre precedente in occasione della crisi di Suez), intimò di astenersi da azioni di interferenza verso lo stato siriano, nel quale erano già presenti milizie egiziane. Gli Americani non accettarono l’intimidazione e richiesero che fosse costituita una commissione di inchiesta internazionale per accertare eventuali violazioni alla frontiera turco-siriana, e con l’intervento dell’ONU si giunse a una mediazione.

Nello stesso periodo si svolsero importanti trattative fra Siria ed Egitto che diedero vita, nel febbraio del 1958, alla Repubblica Araba Unita che di fatto costituiva una annessione del fragile stato siriano da parte del governo egiziano; a essa seguì non molto tempo dopo l’adesione del regno yemenita, ma numerosi furono i segnali contraddittori. In Siria il locale partito comunista venne perseguitato, ma al tempo stesso Nasser con un viaggio a Mosca, sanciva la solidarietà fra i due stati, e raccolse un importante risultato, il finanziamento da parte dei Russi della diga di Assuan, che aveva costituito uno dei grandi obiettivi del leader arabo.

A poche settimane di distanza dalla creazione della Repubblica Araba Unita, i monarchi di Giordania e Iraq diedero vita a un’Unione Araba fra i due stati, ma a Bagdad la situazione, da tempo già turbolenta, sfociò in una rivolta popolare e nel colpo di stato da parte di elementi nasseriani dell’esercito, seguito dall’assassinio di Feisal. L’Unione prevedeva che qualora a Bagdad venisse a mancare il sovrano, Hussein venisse a subentrare a questi, ma non disponendo della forza necessaria per imporre tale situazione, il giovane re preferì scindere l’Unione e chiedere immediatamente l’intervento delle truppe britanniche, che inviarono un contingente di 2.500 uomini ad Amman. Il nuovo governo iracheno evitò comunque posizioni eccessivamente radicali, il partito comunista venne tenuto lontano dal potere e vennero mantenuti buoni rapporti con Gran Bretagna e Stati Uniti.

La situazione nel mondo arabo musulmano era già molto complessa quando si profilò nel vicino Libano una nuova crisi. Il piccolo stato arabo si reggeva su un difficile equilibrio fra le varie comunità esistenti; in base alla costituzione la presidenza della repubblica spettava a un cristiano, la presidenza del governo a un sunnita, mentre la presidenza del parlamento spettava a uno sciita. I cristiani maroniti, che costituivano la comunità più forte dal punto di vista economico, propendevano per una politica di buoni rapporti con l’Occidente, mentre i musulmani erano favorevoli al pan-arabismo e guardavano con interesse al nazionalismo egiziano. Nel maggio del 1958 la situazione precipitò; gravi scontri si verificarono a Beirut e a Tripoli provocati dai drusi, il principale gruppo sunnita, e dalle altre comunità musulmane, contro il presidente cristiano Chamun, il quale denunciò attività illecite contro lo stato da parte di Siria ed Egitto. Su richiesta dello stesso presidente, nel giugno gli Stati Uniti inviarono truppe nel Libano, che tuttavia non si impegnarono direttamente nel conflitto. L’intervento ebbe ovviamente riflessi sul piano diplomatico; gli Americani, che ritenevano la questione libanese non particolarmente degna di interesse, chiesero l’invio di caschi blu a sostituire il proprio contingente, richiesta che venne respinta dai Sovietici, i quali in un messaggio inviato ai governi di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e India affermavano che l’intervento americano e quello analogo britannico in Giordania avrebbero potuto produrre un aggravamento della tensione nella regione e gravissime conseguenze nel mondo; la nota si concludeva comunque con la richiesta di un incontro dei cinque governi insieme al segretario dell’ONU.

Il governo di De Gaulle prese le distanze dall’iniziativa americana, dando inizio a quella serie di contrasti con il governo degli Stati Uniti che caratterizzò il periodo successivo, mentre i paesi della Lega Araba richiesero all’ONU che le potenze occidentali e quelle comuniste si astenessero da azioni in Medio Oriente; richiesta che venne approvata dall’Assemblea Generale all’unanimità, Israele compresa. Nel settembre si raggiunse un accordo fra le fazioni libanesi e le truppe americane poterono lasciare il paese.

Dopo lo sconvolgimento operato da Nasser, l’Unione Sovietica migliorava notevolmente le sue posizioni, l’Europa perdeva le sue ultime zone d’influenza nel Medio Oriente, solo in parte sostituite da quelle americane, mentre il mondo arabo si avviava a quella situazione di instabilità politica che ha caratterizzato gli ultimi anni di quella regione.

Nel giugno 1961 si ebbero due importanti eventi, il tentativo dell’Iraq di mettere le mani sul piccolo ma ricchissimo stato del Kuwait, che da pochi giorni aveva raggiunto la piena indipendenza (impedito dall’intervento di truppe britanniche, e da un contingente della Lega Araba), e la rottura della Repubblica Araba Unita. Il governo siriano, resosi conto che l’unione con il Cairo significava la sottomissione al Rais egiziano, che intendeva imporre uomini di propria fiducia alle massime cariche dello stato, decise di rompere l’accordo. Nasser lanciò una serie di minacce contro Damasco ma non si sentì di inviare truppe egiziane a reprimere la rivolta e dovette accettare il fatto compiuto; poco dopo anche il governo yemenita decideva di denunciare l’accordo con il Cairo ponendo fine all’opera politica del Rais.

Il 1963 rappresentò tuttavia un anno di grande ripresa per il movimento nasseriano. Un colpo di stato militare in Iraq impose al paese un governo socialista e fortemente filo egiziano, seguito poco dopo da un analogo atto di forza a Damasco da parte del partito Baas, che se non mise fine all’instabilità politica del paese, diede una svolta in senso radicale al governo dello stato. Egitto, Iraq e Siria diedero vita nell’aprile a una nuova unione nazionale, che risultò tuttavia non più stabile della precedente. Contemporaneamente, truppe egiziane intervenivano con scarso successo nello Yemen, dove si combatteva una lunga e sanguinosa guerra civile.

Nel 1973 si verificò il più importante tentativo da parte di paesi extraeuropei di costringere i paesi industrializzati a un radicale mutamento negli scambi commerciali. In quell’autunno i paesi dell’OPEC, la cui maggioranza era formata da paesi arabi mediorientali, stabilivano il loro diktat sui paesi industrializzati e sui paesi poveri di risorse petrolifere portando il prezzo del petrolio da 3 a oltre 11 dollari il barile, e adottando altre misure di ritorsione contro i paesi che ritenevano filo israeliani. I paesi produttori di petrolio decretarono l’embargo nei confronti di Stati Uniti, Olanda, Portogallo, Sudafrica, Rhodesia, e la riduzione progressiva delle vendite contro gli altri paesi europei, Francia esclusa; in realtà i paesi europei avevano tenuto una posizione sostanzialmente moderata nel conflitto arabo-israeliano, e avevano contribuito a ridurre l’umiliante disfatta militare dell’Egitto.

Alla conferenza di Algeri del movimento dei paesi non allineati dell’aprile 1974, su istanza del presidente algerino Boumedienne, venne stabilito un altro principio in contrasto con lo spirito di collaborazione internazionale, il diritto alla nazionalizzazione delle società straniere, anche senza accordo con i paesi industrializzati, e il diritto di stabilire autonomamente l’ammontare dell’indennizzo. Politica che non ha portato significativi vantaggi per quei paesi, ma ha provocato invece una riduzione degli investimenti stranieri nei paesi afroasiatici.

Di fronte alla iniziativa dei paesi produttori di petrolio la reazione europea fu debole e inefficace. Gli Stati Uniti proposero, su iniziativa del Segretario di Stato Henry Kissinger, di costituire un fronte unico dei paesi consumatori di petrolio da contrapporre all’OPEC, ma l’iniziativa non trovò l’appoggio di Francia e Giappone. Nonostante alcune misure di risparmio energetico e di diversificazione delle fonti energetiche (che introdussero un nuovo elemento nel dibattito politico culturale di quegli anni), la crisi fece sentire i suoi effetti attraverso l’inflazione, l’aumento della disoccupazione e il calo produttivo delle industrie del settore automobilistico e chimico, crisi dalla quale l’Europa ne uscì con difficoltà anche dopo la cessazione delle cause.

Il rialzo dei prezzi delle materie prime non favorì l’economia dei paesi produttori. I paesi dell’OPEC non furono in grado di utilizzare la grande massa di ricchezza accumulata (i cosiddetti petrodollari) né per favorire lo sviluppo interno né per acquistare un ruolo superiore nel sistema economico mondiale. Gli acquisti di partecipazioni azionarie nelle grandi compagnie industriali e finanziarie mondiali non furono organizzate con oculatezza e le redini del capitalismo internazionale rimasero nelle mani di Europei e Americani. Un’altra parte rilevante dei petrodollari venne destinata per l’acquisto di armi e di beni destinati all’esclusivo beneficio di poche categorie privilegiate, gli sceicchi e i dittatori mediorientali, mentre le popolazioni e l’economia di quei paesi non risentirono del gigantesco afflusso di capitali.

Il capo di stato maggiore dello Yemen, il nasseriano Sallal, nel 1962 proclamò la repubblica costringendo l’imam capo di stato a raggiungere le tribù rimaste fedeli nel nord. L’Egitto inviò 40.000 soldati nel paese a sostegno del regime repubblicano; la guerra civile che seguì, ebbe un’attenuazione solo nel 1967 quando Nasser e re Feisal d’Arabia, che sosteneva la fazione monarchica dell’imam, sottoscrissero un accordo. Con il ritiro delle truppe egiziane (in coincidenza con la guerra dei sei giorni) le forze favorevoli al capo religioso ripresero il controllo di buona parte del paese, ma l’intervento dei Siriani e dell’Unione Sovietica nel conflitto a sostegno dei repubblicani impedì la vittoria dei monarchici. I sostenitori dell’imam non poterono imporre il ritorno della monarchia, prevalsero comunque le forze moderate non ostili all’Occidente, e si giunse a una precaria sistemazione del conflitto.

Negli anni successivi si ebbe un certo raffreddamento dei rapporti fra l’Unione Sovietica e Nasser. Il Rais egiziano rinunciò alla leadership sul mondo arabo, inaugurò una politica di conferenze interarabe, e si riavvicinò alla Giordania e all’Arabia Saudita, ma diversi elementi facevano pensare a una ripresa del contrasto con Israele. La regione continuava a essere interessata da numerosi fermenti, fra i profughi palestinesi era sorta nel 1956 Al Fatah, che dal 1964 iniziò la sua attività terroristica contro Israele. Gli incidenti di frontiera e i cannoneggiamenti dei villaggi israeliani da parte dell’artiglieria siriana aumentarono, e sorse una contesa sullo sfruttamento delle acque del Giordano. Nel 1966 infine, Nasser iniziò una serie di violenti attacchi verbali contro lo stato ebraico, strinse un accordo con Giordania e Siria, e richiese l’allontanamento della forza di pace nel Sinai. Successivamente inviò 7 divisioni (circa 100.000 uomini e 1.000 carri armati) nella zona oltre il Canale di Suez, e pose nuovamente il blocco degli Stretti di Tiran per impedire l’accesso alle navi israeliane.

La particolare conformazione geografica di Israele, dove la maggior parte delle grandi città si trova in una esile striscia di terra costiera (Tel Aviv è a meno di 40 chilometri dal confine con la Cisgiordania) non consentiva a questo paese di assicurarsi una difesa statica tradizionale. Questo problema è stato molto sentito dal governo, che ha impostato la sua difesa su una struttura militare particolarmente mobile. È difficile comprendere le complesse vicende mediorientali se non si comprende che il timore degli Israeliani non era di subire una semplice sconfitta in un eventuale conflitto, ma di essere annientati, e di subire quindi una sorte non diversa (probabilmente peggiore) di quella riservata dagli Iracheni ai Kuwaitiani nelle vicende del Golfo Persico. Di fronte alle minacciose iniziative arabe e a un certo disinteresse delle grandi potenze verso il suo destino, Israele decise nel maggio del 1967 un attacco preventivo contro la coalizione araba. L’iniziativa israeliana, che passò alla storia come la «guerra dei sei giorni», fu dal punto di vista militare un’operazione di eccezionale livello strategico; il 5 giugno l’aviazione distrusse al suolo quasi tutta la flotta aerea dei paesi arabi. L’azione di guerra israeliana ha dimostrato che in una guerra moderna che si svolga in spazi aperti il dominio dei cieli è di estrema importanza. Sottoposte a bombardamenti incessanti, le truppe arabe furono costrette a una precipitosa fuga abbandonando una quantità incredibile di materiale in mano al nemico. Nasser, il giorno successivo all’attacco aereo, accusò con deliberata menzogna Stati Uniti e Gran Bretagna di aver partecipato al raid aereo e ruppe le relazioni diplomatiche con i rispettivi governi. Le iniziative politiche comunque non alterarono l’andamento delle vicende militari. Gli Egiziani dovettero cedere completamente il Sinai e riparare oltre il Canale di Suez, i Giordani che erano entrati in guerra senza eccessiva convinzione dovettero abbandonare la Cisgiordania, che costituiva la parte più ricca del piccolo regno, e ritirarsi oltre il fiume Giordano, la Siria, che all’ultimo momento evitò di aprire il terzo fronte, attirandosi la condanna di tutto il mondo arabo, fu comunque costretta a ritirarsi dalle alture del Golan, postazione strategica molto rilevante, e solo l’entrata in vigore del cessate il fuoco impedì che le truppe israeliane arrivassero a Damasco. Il governo siriano confidava sull’intervento diretto dell’Unione Sovietica a suo favore (con la quale era legata da un trattato di cooperazione), ma Stati Uniti e Unione Sovietica si neutralizzavano a vicenda sotto questo aspetto e le grandi potenze non poterono fare altro che mobilitare le flotte a scopo dimostrativo, richiedere la fine dei combattimenti, e stabilire la pace in base al nuovo «status quo» venutosi a creare.

Oltre alla superiorità tecnica, un altro elemento aveva giocato a favore di Israele, la risolutezza di soldati che combattevano per la sopravvivenza del proprio stato, mentre gli eserciti arabi numericamente preponderanti, erano non particolarmente motivati e si mostravano diffidenti l’uno verso l’altro. Prima ancora dell’entrata in vigore della cessate il fuoco richiesto dall’Egitto, il Rais presentò le dimissioni, ma imponenti manifestazioni a suo favore gli consentirono di ritirarle successivamente. Sebbene i paesi alleati dell’Unione Sovietica fossero stati sconfitti, il ruolo della potenza comunista nella regione venne confermato, e anzi si rafforzò in quegli anni la presenza della flotta sovietica nel Mediterraneo orientale e nell’Oceano Indiano.

Alla fine di agosto dello stesso anno, si tenne un importante incontro di capi arabi (assenti i rappresentanti di Siria, Algeria e Tunisia) a Khartoum; i paesi maggiormente impegnati nel conflitto vennero aiutati finanziariamente dai paesi arabi più ricchi, e nella stessa sede venne deciso di tenere una linea intransigente nei confronti di Israele – né riconoscimento né negoziato – e stabilito un appoggio senza riserve alla causa palestinese. Negli anni successivi la Francia, che era stata la maggiore fornitrice di armi a Israele, di fronte all’ostilità araba ritirò il suo appoggio allo stato ebraico, ma gli Israeliani non disarmarono. Nel novembre l’ONU prescrisse le condizioni per arrivare a una pace stabile, ritiro di Israele dai territori occupati, riconoscimento del diritto di esistenza, con frontiere sicure e riconosciute, libertà di navigazione nelle acque mediorientali per gli Stretti di Tiran e il Canale di Suez, l’iniziativa tuttavia non ebbe alcun seguito.

Anche nelle regioni al di là del grande deserto sahariano la situazione politica rimaneva complessa, e l’instabilità politica diveniva un fenomeno costante; in breve tempo gran parte degli stati africani si avviò verso dittature militari e governi dispotici che impedirono lo sviluppo economico e politico di quei paesi, e in alcuni casi tali governi si resero responsabili di incredibili fatti di sangue.

Il mondo arabo si era appena ripreso dalla durissima sconfitta del ’67 quando nella Libia faceva la comparsa un leader che negli anni successivi era destinato a influenzare notevolmente le vicende della regione mediorientale. La ex colonia italiana con la sua scarsità di terre fertili era stata considerata per molti decenni un paese di scarso rilievo internazionale. Ottenuta nel 1951 l’indipendenza, il regno di Libia retto da re Idris, già capo della grande confraternita dei Senussi (che negli anni precedenti si era battuta contro il dominio italiano), stabilì ottimi rapporti con Gran Bretagna e Stati Uniti. Ai paesi occidentali concesse l’uso di basi militari, ma successivamente, in seguito alle proteste popolari, la concessione venne revocata. Nel 1958 venne scoperto nel deserto libico il petrolio e nel corso degli anni Sessanta la non ricca nazione conobbe una eccezionale crescita economica, della quale non beneficiò tuttavia larga parte della popolazione. Il malcontento e il distacco rispetto alle masse popolari furono però fatali alla monarchia; nel 1969 un colpo di stato militare sotto la guida del colonnello Gheddafi, che in breve divenne il leader indiscusso del paese, instaurava la repubblica.

Il governo libico perseguì un modello politico islamico-rivoluzionario fondato su una sorta di socialismo teoricamente comunitario, si fece interprete delle tendenze più estremiste del mondo arabo e si avvicinò notevolmente all’Unione Sovietica, alla quale concesse l’uso di importanti basi militari per la flotta nel Mediterraneo. Nel 1974 il leader libico decise l’acquisto di armamenti per venti miliardi di dollari da Mosca, tuttavia il dittatore, fiero della sua autonomia, rifiutò di entrare formalmente nel blocco sovietico.

L’anno successivo al colpo di stato si verificò il primo della serie di atti di ostilità verso l’Occidente con la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere, il sequestro dei beni (finanche dei conti correnti bancari delle famiglie) degli stranieri e l’espulsione della comunità italiana e israelitica. I paesi europei non accennarono ad alcun tentativo di ritorsione, e anzi il governo francese e quello italiano si sforzarono di non deteriorare ulteriormente i rapporti. Tale comportamento non risultò proficuo. Il dittatore libico assunse una posizione intransigente verso Israele e contro i paesi vicini, Egitto incluso, perseguitò gli oppositori politici all’estero e sostenne in forma aperta il terrorismo palestinese e internazionale. Nel 1978 a opera del terrorista Carlos, alias Ramirez Sanchez, organizzò il sequestro dei ministri del petrolio dei paesi OPEC, atto che costituì il primo di una lunga serie di provocazioni verso i paesi arabi moderati e le nazioni occidentali.

Il prezzo più duro della guerra del ’67 venne però pagato dai Palestinesi, che in massa (oltre un milione e mezzo di profughi) abbandonarono i territori occupati da Israele e si rifugiarono in diversi stati vicini, principalmente Giordania e Libano, senza amalgamarsi con le popolazioni dei paesi ospitanti, in misere condizioni di vita e creando seri problemi a questi paesi.

I Palestinesi si divisero in numerose formazioni in base a questioni ideologiche, di metodologia più o meno radicale e in base infine al paese dal quale ricevevano sostegno e finanziamenti. Sorsero così accanto al gruppo principale Al Fatah di Yasir Arafat, su posizioni relativamente moderate, il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di George Habbash, il Fronte Democratico e Popolare della Liberazione della Palestina di tendenze marxiste, il gruppo di Abu Nidal formato dai sostenitori dei metodi più violenti di lotta e non estraneo al narcotraffico, e infine gruppi filo siriani, filo iracheni e filo libici; successivamente alcuni gruppi si distaccarono dalla causa palestinese e si diedero al terrorismo su commissione.

Nei primi anni Settanta si ebbe una serie di attentati e dirottamenti di aerei civili, finalizzati al boicottaggio di negoziati di pace. Molte di queste azioni, come il massacro nell’aeroporto israeliano di Lod compiuto da terroristi giapponesi che lavoravano per il gruppo marxista palestinese di George Habbash, l’uccisione di nove atleti israeliani a Monaco nel 1972, e quella di undici bambini in una scuola israeliana nel maggio di due anni dopo, sconvolsero l’opinione pubblica mondiale. Nell’anno successivo si ebbe l’attacco a un aereo della Pan Am all’aeroporto di Roma, condotto da gruppi altamente addestrati, che si concluse con la morte di 32 persone del tutto estranee che si trovavano in quel luogo, e vennero iniziate anche azioni di altro tipo. I gruppi Palestinesi finanziati da Siriani e Libici, fra i quali spiccava quello di Abu Nidal, iniziarono una guerra contro le fazioni «moderate» e si resero responsabili della morte di diversi collaboratori di Arafat, tuttavia non riuscirono a eliminare la sua leadership e dovettero successivamente desistere da tale obiettivo.

I profughi palestinesi all’interno della Giordania rappresentavano una parte cospicua della popolazione di quello stato (intorno al 65%) e disponevano di una potente struttura armata che agiva come una sorta di stato nello stato. Nel settembre del 1970, quando i gruppi di rifugiati ormai minacciavano la sovranità di quel paese, scoppiarono i combattimenti fra esercito e Palestinesi, che si conclusero con circa 4.000 morti e numerose distruzioni nel paese. La Siria intervenne con l’invio di carri armati nel nord della Giordania, ma di fronte alla minaccia israeliana (re Hussein non era contrario a negoziati con Tel Aviv e manteneva buoni rapporti con gli Stati Uniti) vennero prontamente ritirati. I combattimenti si conclusero definitivamente solo nel luglio dell’anno successivo, con il ritiro palestinese dalla Giordania e l’ingresso nel Libano.

Anche il Libano che non aveva partecipato ad alcuna guerra, non poté sottrarsi comunque alle conseguenze del vicino conflitto. Nel 1970 si verificarono scontri fra l’esercito libanese e le milizie dell’OLP insediatesi che non riconoscevano l’autorità del governo di Beirut, mentre sempre più frequenti furono i raid israeliani contro le basi dei guerriglieri palestinesi in Libano meridionale.

Colloqui di pace sull’intera questione mediorientale si tennero su iniziativa dell’ONU a partire dal dicembre del 1967, ma non ebbero seguito a causa delle continue violazioni della tregua sul Canale di Suez, dove duelli di artiglieria e incursioni per un lungo periodo impedirono una stabilizzazione di quel settore e a causa dell’annessione unilaterale, contro lo stesso parere degli Stati Uniti, della parte araba di Gerusalemme da parte di Tel Aviv, che provocò il malcontento della popolazione araba.

Gli Stati Uniti sotto la presidenza di Nixon, intrapresero numerose iniziative a favore della pacificazione in Medio Oriente sulla base della risoluzione 242 dell’ONU (piano Rogers), ma senza successo. L’Egitto per reintegrare le enormi perdite della guerra del ’67 richiedeva un maggiore numero di armi e di consiglieri militari all’Unione Sovietica; molti fattori lavoravano in senso contrario alla pace, l’unico dato positivo di quegli anni fu il diniego da parte dell’Arabia Saudita e del Kuwait a maggiori contributi finanziari per le spese militari dei paesi maggiormente impegnati nel conflitto con Israele.

La ex colonia britannica dello Yemen del Sud (territorio di Aden) nel 1959 divenne una federazione di sei sceiccati indipendenti, ma nel 1963 di fronte a una rivolta armata, le truppe britanniche si ritirarono progressivamente dal paese e quattro anni più tardi venne proclamata la repubblica. Il governo del Fronte Nazionale di Liberazione nazionalizzò le imprese straniere, procedette a una radicale riforma agraria, ruppe i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti, e fece del paese una importante base per movimenti guerriglieri operanti nella penisola araba e nel corno d’Africa, oltre che la più importante base sovietica nell’Oceano Indiano. Il nuovo regime, fortemente legato alla Cina, alla Libia e all’Unione Sovietica, giunse a un duro contrasto con i paesi vicini, che sfociò nel 1972 in una guerra aperta con lo Yemen del Nord che godeva del sostegno degli altri stati arabi della penisola. Il conflitto si concluse nel 1976 (a parte una breve ripresa degli scontri nel ’79); negli anni successivi si è avuto il ritiro dei Sovietici e il governo ha ricercato una maggiore concordia interna e migliori relazioni con i paesi della regione; nel 1990 si ebbe infine l’unificazione fra i due stati yemeniti. Come sappiamo la tragedia non si concluse, negli anni successivi si ebbe la guerra interna fra sunniti e sciiti appoggiati rispettivamente da Arabia Saudita e Iran.

Nel corso degli anni Settanta la Siria e l’Iraq hanno conosciuto destini diversi; nello stato siriano il dittatore Assad attraverso la polizia segreta ha proceduto alla eliminazione di migliaia di oppositori politici (soprattutto appartenenti alla setta dei Fratelli Musulmani) e ha instaurato una rigida dittatura legata all’Unione Sovietica. L’Iraq, che nel 1972 aveva stipulato un trattato d’amicizia con l’URSS, con l’avvento del dittatore Saddam Hussein si è in parte distaccato da Mosca, ma negli anni successivi la politica perseguita dal governo di Bagdad ha provocato duri contrasti con una larga parte dei paesi vicini.

La politica più moderata perseguita dall’Egitto verso la fine degli anni Sessanta, ha consentito una conciliazione fra i profughi palestinesi e la Giordania, e l’inizio di negoziati con Israele per arrivare a una soluzione della questione mediorientale. Tale politica tuttavia, non ha impedito al governo arabo il sostegno a un colpo di stato in Sudan da parte di esponenti militari nasseriani; la nazione africana, da lungo tempo sconvolta da contrasti fra popolazioni musulmane e cristiane animiste del sud, ha seguito per molti anni le sorti politiche del governo del Cairo.

Nel 1970 si ebbe la morte di Nasser, i cui funerali costituirono una delle più grandi manifestazioni di partecipazione popolare nel mondo; il grande leader, uno dei massimi dei paesi in via di sviluppo, aveva trasformato radicalmente la situazione del mondo arabo, ma non era riuscito nel suo intento di unificazione del mondo arabo. Venne sostituito dal vice presidente Sadat che contribuì a un indirizzo più moderato della politica araba. Sadat diede vita a un governo ispirato da principi di tolleranza, con un certo rispetto per le istituzioni democratiche (relativamente alla realtà araba) ed evitando il ricorso alle violenze all’interno e all’esterno del paese, diversamente dalla maggior parte degli stati arabi.

Nel 1972 il presidente egiziano Sadat decise l’allontanamento dei numerosi (circa 15.000-20.000) consiglieri sovietici. Il governo egiziano riteneva non senza ragione, che nel paese fossero presenti numerose spie e agenti provocatori e che i Sovietici intendessero mettere le mani sul Sudan, stato tradizionalmente legato all’Egitto. Nonostante il rinnovo del trattato d’amicizia con l’URSS, i rapporti con Mosca si deteriorarono rapidamente. Anche nel campo delle relazioni con gli stati vicini si ebbero significative novità. Il governo del Cairo orientò la sua politica verso la riconquista dei territori occupati da Israele, ma senza chiedere l’eliminazione dello stato ebraico.

Nell’ottobre del 1973, in occasione delle festività ebraiche dello Yom Kippur, l’Egitto che disponeva di un esercito numericamente e qualitativamente superiore a quello di Tel Aviv, d’accordo con la Siria, decise l’attacco nel Sinai. L’azione militare secondo le concezioni egiziane aveva come fine non la distruzione di Israele, ma la ripresa di quei territori perduti nel conflitto del ’67. L’attacco ebbe un certo successo, ma non disponendo di una potente aviazione gli Egiziani dovettero limitarsi a riconquistare quella fascia di territorio che poteva essere protetta dalle batterie missilistiche antiaeree a terra. Nei giorni successivi Israele completava la mobilitazione dei riservisti, riuscì a contenere l’avanzata e a riprendere l’iniziativa. Il 10 ottobre l’Unione Sovietica iniziò a rifornire i paesi arabi di materiale bellico, e sei giorni dopo anche gli Americani adottarono le stesse misure nei confronti di Israele, mentre i paesi dell’OPEC decisero alcuni provvedimenti (raddoppio del prezzo del petrolio e riduzione delle forniture a quei paesi europei che sostenevano Israele) al fine di costringere gli Occidentali a rinunciare alle proprie posizioni, peraltro molto moderate.

La guerra dello Yom Kippur costituì un tipo di guerra caratterizzata da numerosi vincoli di natura politica. L’attacco siriano condotto con forze soverchianti improvvisamente cessò quando si avvicinò agli insediamenti ebraici, così come il contrattacco israeliano successivo venne bloccato quando era giunto alle porte di Damasco e sul fronte egiziano in prossimità delle grandi città arabe. Si trattava di una guerra che aveva un preciso corrispondente nel campo dei rapporti diplomatici USA-URSS; la partita doveva essere limitata a un campo ristretto e nessuno dei contendenti poteva portare a termine un colpo mortale per l’avversario.

Sebbene le grandi potenze avessero mantenuto un atteggiamento molto prudente, il 24 ottobre l’Unione Sovietica annunciò che avrebbe assunto iniziative più decise e che «qualora non si riesca a operare congiuntamente su questa faccenda, [è Breznev che parla] mi sentirò autorizzato a prendere iniziative unilaterali», successivamente si venne a sapere che 7 divisioni aviotrasportate russe erano pronte per un intervento, mentre la 6° Flotta americana e il sistema di difesa nucleare erano stati messi in stato d’allarme da Nixon, il quale fece sapere che «qualsiasi azione unilaterale da voi presa sarebbe per noi della massima gravità e foriera di imprevedibili conseguenze»; l’episodio risultava significativo, anche in pieno periodo di distensione i numerosi appelli alla pace e alla moderazione potevano, da un momento all’altro, essere superati come nei periodi peggiori della guerra fredda.

Le conseguenze della quarta guerra arabo-israeliana vennero abbastanza rapidamente superate, l’Egitto si avvicinò sempre più alle posizioni americane e a quelle dei paesi arabi moderati e nel ’74 si poté giungere alla riapertura dell’importante via d’acqua del Canale di Suez e all’avvio di colloqui di pace dai quali venne sostanzialmente estromessa l’Unione Sovietica.

Negli stessi anni veniva a crearsi un nuovo focolaio di crisi in Libano, le cui vicende si presenteranno in larga parte influenzate dagli avvenimenti più generali del Medio Oriente. Il piccolo e florido stato arabo era la sede di numerose attività commerciali e finanziarie che avevano fatto del paese la Svizzera della regione mediorientale, ma la notevole eterogeneità di gruppi e di confessioni religiose, cristiani maroniti, greco ortodossi, musulmani sunniti, sciiti e drusi non consentì la stabilità del paese. La situazione già precaria, venne ad aggravarsi quando i Palestinesi cacciati dalla Giordania si rifugiarono in massa nel sud del paese costituendo una sorta di stato autonomo.

Nel 1975 iniziò il conflitto fra musulmani e cristiani, conseguente agli scontri fra esercito e Palestinesi, che in breve tempo degenerò in una guerra caotica con numerose fazioni indipendenti e altrettanti capovolgimenti di fronte. Oltre ai liberali nazionali di Chamoun, ai falangisti di Pierre Gemayel, ai socialisti drusi di Jumblatt, non mancavano formazioni delle più singolari come i nazionalsocialisti del PPS legati al governo siriano. Nell’anno successivo si ebbe l’intervento in veste di moderatore dell’esercito di Damasco che si insediò stabilmente nella Valle della Bekaa e in altre parti del territorio, con l’eccezione della zona meridionale, nel timore di uno scontro diretto con Israele. I Siriani dapprima combatterono i Palestinesi e altre formazioni musulmane, poi quelle cristiano maronite con violenza, provocando una protesta internazionale. Nel 1978 il sud del Libano venne invaso dalle truppe israeliane; l’intervento non poté impedire il ritiro dei guerriglieri dell’OLP a nord con pochissime perdite, ma l’esercito di Tel Aviv riuscì a creare comunque nella regione una milizia cristiana in funzione antipalestinese. In base a una risoluzione dell’ONU, venne creata una forza di pace in quella regione; il governo israeliano accettò di ritirare le proprie truppe, ma i caschi blu furono del tutto impotenti a garantire la pace nella regione e gli attacchi dei «commando» palestinesi ripresero, seguiti dalle rappresaglie israeliane.

Nel 1982 si ebbe un nuovo intervento israeliano in Libano che si spinse questa volta fino ai sobborghi di Beirut, nel corso del quale le truppe israeliane assestarono durissimi colpi alle forze siriane. Nel medesimo tempo si ebbero due importanti iniziative, la creazione di una forza di pace formata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia, incaricata dell’evacuazione dei combattenti palestinesi, e un tentativo di pacificazione da parte degli stessi paesi che ebbe però scarso esito. Nel martoriato paese si ebbero gravissimi atti di violenza: un attacco con autobombe di un commando hezbollah suicida che provocò la morte di 240 marine americani, seguito da una analoga azione nella quale perirono 58 soldati francesi e da un grave eccidio compiuto da milizie cristiane nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Si ebbe la costituzione di un governo fra le fazioni non estremiste e realmente rappresentative del paese, ma il Libano non poté comunque avviarsi al ritorno alla legalità a causa soprattutto dell’affermarsi dei movimenti fondamentalisti sciiti in contrasto con i Palestinesi. Nel 1989 vennero sottoscritti gli accordi di Taif che riconoscevano l’egemonia siriana nel paese; tale situazione ottenne l’avvallo internazionale, confermato, una volta eliminate le milizie cristiane filo irachene di Michel Aoun, dalla partecipazione siriana alla guerra del Golfo. Attraverso l’alleato siriano, l’Unione Sovietica riportò un successo nella regione senza mai doversi impegnare in prima persona.

Nel 1978 si aveva una nota positiva nel martoriato Medio Oriente con la conclusione di un importante accordo di pace. L’Egitto, in qualche modo egemone nel mondo arabo, fece sua quella politica di pace e di tolleranza che lo pose in contrasto con le altre nazioni arabe. Con la rottura del trattato di amicizia con l’Unione Sovietica e lo storico viaggio a Gerusalemme nel 1977, che mise in luce le qualità politiche del grande ma osteggiato statista egiziano Sadat, vennero poste le basi per una diversa situazione nella regione. L’incontro accelerò quel processo di pace che si concluse l’anno successivo in America. Gli accordi di Camp David, «Schema di pace per il Medio Oriente» e «Schema di pace fra Egitto e Israele», realizzati con la mediazione del presidente americano Carter, prevedevano il ritiro di Israele dal Sinai e l’autogoverno palestinese (anche se non espressamente la sovranità), e costituirono un punto a sfavore dell’Unione Sovietica, che si vedeva esclusa dai negoziati.

Gli accordi di pace vennero confermati nel paese arabo in un referendum, ma ciò non impedì lo scoppio di proteste interne e l’isolamento dello stato egiziano da parte degli altri stati arabi. Nel 1981 il presidente Sadat, Premio Nobel per la pace nel 1978, venne assassinato da esponenti del gruppo religioso integralista dei Fratelli Musulmani, tuttavia l’assassinio non impedì la prosecuzione della nuova politica egiziana.

Il clima della guerra fredda conosceva un nuovo impulso quando apparve un nuovo «incomodo» sulla scena internazionale, il fondamentalismo islamico, che insieme alla politica dei regimi estremistici arabi esistenti (libico e siriano soprattutto), costituiva una miscela esplosiva in una delle zone più calde del globo. Dopo il nazionalismo laico e socialista degli anni Cinquanta e Sessanta, che ebbe in Nasser il massimo esponente, e il radicalismo del regime di Gheddafi, si diffuse fra le masse più incolte arabe e musulmane un ritorno alla più rigorosa legge islamica. Il fondamentalismo islamico ha dato vita a movimenti politici e gruppi terroristi, a grandi manifestazioni popolari coinvolgenti i ceti più miseri della società, ma non è riuscito a conquistare la borghesia e il ceto intellettuale in genere e pertanto con misure diverse (anche non democratiche) i regimi «laicisti» hanno dimostrato di reggere all’urto. Nel campo della politica internazionale, il fondamentalismo si dichiarava nemico giurato del capitalismo e del comunismo; la massima autorità del fondamentalismo sciita, l’ayatollah Khomeini, nel 1989 lasciava un testamento spirituale nel quale si affermava che l’Iran doveva «restare saldo e compatto sul sentiero tracciato da Dio senza confondersi né con l’Oriente ateo né con l’Occidente tirannico e blasfemo», per una serie di circostanze tuttavia, l’Occidente ha costituito il principale obiettivo delle invettive e degli attacchi degli estremisti.

L’esordio del fondamentalismo si ebbe in un paese musulmano sciita ma non arabo, l’Iran, sottoposto a una singolare opera di modernizzazione condotta in forma autoritaria dal sovrano. L’autoritarismo, il laicismo di stato e le non celate simpatie per gli Stati Uniti, furono all’origine delle grandi proteste degli anni successivi in cui si coalizzò la protesta studentesca democratica e quella delle gerarchie islamiche.

Nel 1978 si ebbe una serie di grandi manifestazioni e scioperi (anche nel settore petrolifero) che mise in difficoltà l’economia del paese e culminò nel settembre in una grande manifestazione a Teheran che si concluse con un migliaio di morti. Nel gennaio dell’anno successivo lo scià Reza Pahlavi abbandonò il paese, e con il rientro del grande capo spirituale Khomeini si formò un governo civile presieduto da esponenti democratici di sinistra, e un consiglio islamico, che attraverso il terrore prese immediatamente il sopravvento. Vennero nazionalizzate le banche e le principali attività economiche, dato vita a una serie di processi sommari con centinaia di esecuzioni e imposti dei rigidi costumi in ogni aspetto della vita sociale del paese, fondati sulla legge coranica e lo stato di subordinazione della donna.

I primi atti del nuovo governo iraniano furono la repressione sanguinosa dei Curdi e il sequestro del personale diplomatico USA, una cinquantina di persone, con un atto senza precedenti che declassificava il paese dal consesso delle nazioni civili. L’azione ebbe un notevole risvolto interno con grandi manifestazioni antiamericane che misero in difficoltà il primo ministro Bazargan favorevole alla trattativa. Il presidente americano Carter decise come ritorsione la sospensione delle importazioni petrolifere e il sequestro dei beni iraniani all’estero, ma senza esito. Successivamente si ebbe un tentativo di liberazione degli ostaggi con l’uso della forza, fallito forse anche per il contributo dei servizi informativi sovietici, ma la controversia si chiuse solo dopo un anno con il rilascio dei sequestrati a seguito di un negoziato. L’opposizione al governo degli ayatollah comunque continuò anche in seguito, attraverso varie organizzazioni anche a carattere politico-militare come il movimento dei mujaiddhin.

Nel settembre del 1980 ebbe inizio la sanguinosa guerra fra Iran e Iraq, durata otto anni, che costò la vita a oltre un milione di uomini. Il governo nazionalista socialista di Saddam Hussein, che nel ’79 aveva realizzato una massiccia opera di repressione contro i comunisti, riteneva, approfittando della situazione di difficoltà dell’avversario, di poter strappare a esso la ricca regione dello Shatt El Arab che da tempi lontani costituiva motivo di attrito fra la nazione araba e quella iraniana. Il governo iracheno riteneva inoltre di godere dell’appoggio degli stati arabi moderati, timorosi della diffusione dell’integralismo religioso, e della benevola neutralità dei paesi occidentali. In seguito ad attacchi contro mercantili che attraversavano la zona, per un certo periodo le forze navali occidentali presidiarono le rotte marittime del Golfo Persico, e nel corso di tale operazione si verificarono sporadici scontri fra le forze navali USA e quelle iraniane. La guerra invece, non andò secondo le aspettative di Bagdad e si concluse con il ritorno allo «status quo» sul piano territoriale e il dissanguamento economico dei due stati. Un ritorno dell’Iran su posizioni meno estremiste si ebbe solo nel 1989 dopo la scomparsa di Khomeini.

(dicembre 2023)

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