La primavera araba in Egitto
Quali furono le cause della rivolta araba in Egitto, le conseguenze ed i motivi per cui, nonostante speranze e premesse, non si giunse ad un regime democratico; con alcune considerazioni finali di più ampio respiro

Nel dicembre del 2010 uno sconosciuto venditore ambulante di nome Mohamed Bouzazi si diede fuoco in un disperato atto di auto-immolazione contro il potere autoritario e dispotico delle forze di polizia tunisine. Nessuno avrebbe potuto prevedere che un tale gesto isolato avrebbe così rapidamente varcato i confini nazionali tunisini per poi innescare una serie di eventi destinati a sconvolgere l’intero Medio Oriente. Un’onda travolgente di proteste e movimenti rivoluzionari sviluppatasi in Tunisia prima, e progressivamente in tutta la regione, ha modificato le caratteristiche di Paesi che solo alcuni anni prima sembravano destinati a mantenere uno stagnante e passivo «status quo». Per comprendere l’impatto di tali movimenti anche al di fuori della regione si potrebbe semplicemente pensare al fatto che, sette anni dopo, il Medio Oriente è ancora al centro di dibattiti politici, economici e sociologici, e che la cause e gli esiti delle proteste sono oggetto di discussione all’interno della comunità internazionale.

La cosiddetta «primavera araba», un termine coniato in riferimento ai movimenti di rivolta accaduti a Praga nel 1968 o anche prima in Europa durante il XIX secolo, esplose in tutta la regione rovesciando i Governi di Egitto, Yemen, Libia e Tunisia, scuotendone molti altri, dimostrando che Mohamed Bouzazi non era solo nella sua indignazione, come recitava lo slogan «siamo tutti Bouzazi».

La primavera araba ha mostrato come le popolazioni del Medio Oriente abbiano iniziato a condividere qualcosa che andava oltre la loro lingua e religione; infatti, hanno iniziato a condividere un sentimento comune di frustrazione verso il loro sistema politico, socio-economico e verso la propria esistenza. Ha avuto così inizio un viaggio che avrebbe dovuto condurre tali popolazioni verso la libertà, la parità dei diritti, la partecipazione politica e la giustizia economica; nella realtà, la primavera araba non ha condotto verso tali obiettivi. Sette anni dopo l’inizio delle rivolte, è opinione diffusa che la primavera araba non sia stata un fenomeno omogeneo; infatti, a differenza di altre rivolte storicamente rilevanti, quali ad esempio quelle dell’ex blocco sovietico da cui la primavera araba ha romanticamente preso in prestito il suo nome, i Paesi Arabi non appartengono ad un Impero consolidato e istituzionalizzato, essendo delle entità autonome che condividono al più alcune caratteristiche comuni transnazionali. Questa proprietà chiave emerge con chiarezza dall’analisi della primavera araba stessa, dalla diffusione delle rivolte e dai differenti effetti ottenuti nei vari Paesi Arabi. Sarebbe del tutto errato, quindi, esaminare gli effetti di questi movimenti rivoluzionari attraverso una «grande lente regionale», dato che il risultato difficilmente rifletterebbe una rappresentazione veritiera delle dinamiche specifiche che hanno avuto luogo in ogni stato arabo. Sebbene il Medio Oriente sia spesso trattato come una singola realtà, soprattutto nell’ambito dell’analisi geo-politica globale, le specificità delle società e delle istituzioni locali differiscono da Paese a Paese, richiedendo, quindi, un approccio molto più contestualizzato, almeno per quanto concerne l’analisi delle conseguenze del fenomeno. È interessante notare come, mentre gli effetti dei movimenti siano stati multi-direzionali, le cause originarie siano apparse dall’inizio transnazionali. Si potrebbe affermare che la natura di questi movimenti rivoluzionari sia stata forgiata attraverso l’attrito tra un forte impulso transnazionale verso una democrazia idealizzata e la presenza di forze condizionanti le cui caratteristiche principali erano identiche in ogni Paese.

L’idea di democrazia nel mondo arabo non era molto diversa da quella Occidentale, in quanto si fondava su principi che tutti noi possiamo riconoscere essere le basi per qualsiasi sistema democratico: garanzia di libertà, diritti civili e politici, giustizia e uguaglianza, un sistema democratico di governo legittimato dalla popolazione, divisione dei poteri, pluralismo politico, un miglioramento della situazione economica, stabilità e sicurezza sociale. Rammentando, come scritto in precedenza, che ogni Paese Arabo è diverso per storia, tradizioni, sistemi politici ed economici, un tale impulso condiviso verso la democrazia è stato originato da un altro elemento in comune tra i diversi Paesi Arabi, un malcontento accresciuto e di lunga durata verso i sistemi di potere esistenti. Infatti, se analizziamo i sistemi di «governance» adottati negli stati arabi, possiamo notare come le loro caratteristiche salienti si scontrino con l’idea di democrazia descritta sopra: uno stato fortemente centralizzato, assenza di pluralismo politico, mancanza di legittimità, forti barriere alla partecipazione alla vita politica, repressione sociale e corruzione.

La tensione tra le ambizioni democratiche non mantenute e questi regimi autoritari emerge chiaramente attraverso l’analisi di alcuni dei principali Paesi in cui la primavera araba è esplosa. Tunisia, Egitto, Yemen e Libia, per citarne alcuni, avevano formalmente la forma statuale di Repubbliche, ma nella pratica si configuravano come «Repubbliche Monarchiche», poiché il potere detenuto da leader come Ben Ali, Mubarak e Gheddafi era assoluto e totalitario.

Al di là delle ambizioni democratiche del mondo arabo, vi furono almeno due fattori che innescarono la primavera araba e condussero la regione ad una rapida e contagiosa diffusione delle rivolte: le difficoltà economiche e i problemi sociali.

La condizione economica di questi Paesi si rivela fondamentale per capire l’origine della primavera araba. Nonostante la posizione rilevante nel commercio internazionale, risorse di base senza eguali e un vasto mercato del lavoro giovanile, la performance economica di questi Paesi è stata molto deludente: corruzione, diseguale distribuzione della ricchezza, sovvenzioni a settori non petroliferi improduttivi e un’impressionante disoccupazione, furono alcune della cause di fortissima preoccupazione e malcontento tra la popolazione. Nonostante le promesse di una vita migliore da parte della propaganda, le assicurazioni di riforme, di liberalizzazione e di una crescita generale dell’economia, la maggior parte della popolazione viveva in povertà. La crisi economica globale ha ulteriormente aggravato le condizioni di queste popolazioni, infatti, sebbene questi Paesi siano stati in qualche modo protetti a causa del loro sistema finanziario chiuso, riuscendo a sopravvivere all’impatto diretto della crisi, non sono riusciti a sopravvivere alle conseguenze della recessione economica in altri stati, come in Europa, a cui erano fortemente legati per l’esportazione di prodotti agricoli e manifatturieri. Ciò ha peggiorato in modo esponenziale lo standard di vita della maggior parte della popolazione araba, innescando le rivolte, anche se la crisi economica non è stata la causa diretta della primavera araba. La povertà e il malcontento hanno caratterizzato il mondo arabo anche prima della recessione globale, che, pertanto, ha avuto il ruolo di aggravare una situazione già piuttosto instabile e precaria.

Un altro fattore, che si è intrecciato con la crisi economica, riguarda l’aspetto demografico. Dal 1950 ad oggi, i Paesi del Medio Oriente hanno registrato un’impressionante crescita della popolazione, dal 2% al 3% all’anno, in contrasto con l’1,2% del restante pianeta. Il declino della mortalità infantile e l’aumento del tasso di fertilità hanno condotto questi Paesi a sperimentare prima un aumento della percentuale di bambini, e poi, con un conseguente lento declino della fertilità, un aumento significativo dei giovani con un’età compresa tra i 15 e i 24 anni, che costituiscono circa i ⅔ della popolazione della regione. Questi dati si rivelano particolarmente allarmanti se incrociati con quelli sulla disoccupazione, che ha raggiunto percentuali molto alte.

La rabbia dei giovani disoccupati si è rivolta verso l’ambito politico ed economico: il sistema politico era statico, autoritario e corrotto; il sistema economico appariva diseguale, stagnante e generalmente incapace di offrire una prospettiva per il futuro.

Come accennato in precedenza, l’onda della primavera araba ha infine portato con sé il rovesciamento di alcuni regimi arabi ma non ha dato inizio ad un processo di vera democratizzazione, bensì ad un confuso e instabile processo di trasformazione capace di innescare delle guerre civili dalla difficile soluzione, come in Siria, Yemen e Libia.

Rispetto alle rosee aspettative di molti intellettuali e politici occidentali sulla progressiva «democratizzazione» del Medio Oriente, nel corso degli anni abbiamo potuto osservare aprirsi per molti di quei Paesi in cui è avvenuta la primavera araba un periodo storico ancora più drammatico, come ci mostra il caso dell’Egitto, oggetto di questo studio data la sua preminenza storica e il suo ruolo centrale nel Medio Oriente.

L’Egitto è stato sotto il Governo di Hosni Mubarak, l’ex comandante in capo delle Forze Aeree Egiziane, dal 1981, subito dopo l’assassinio di Anwar al-Sadat, avvenuto il 6 ottobre dello stesso anno. Senza addentrarci in una dettagliata analisi della sua trentennale carriera presidenziale, è più interessante soffermarsi su alcuni aspetti chiave del suo regime. Il primo riguarda il fatto che per un lungo periodo di tempo Mubarak è stato un alleato prezioso per gli Stati Uniti nel Medio Oriente; Washington ha beneficiato notevolmente dei buoni rapporti con il Cairo, soprattutto per quanto concerneva i suoi interessi nel garantire la stabilità della regione, quindi non sorprende che gli Stati Uniti abbiano fornito al prezioso alleato arabo 1,3 milioni di dollari all’anno in aiuti militari.

Sotto Mubarak, l’Egitto ha collaborato con gli Stati Uniti nel promuovere la stabilità in Medio Oriente in diverse occasioni, per esempio, quando si unì all’Arabia Saudita nella guerra contro l’Iraq nel 1991. Ancora più importante, Mubarak impegnò il proprio Paese al rispetto degli Accordi di Camp David firmati nel 1979 con Israele.

Oltre il suo programma di politica estera, Mubarak ha continuato con più vigore un processo di liberalizzazione economica, molto ben visto da Washington, che ebbe inizio dopo che Sadat si allontanò dall’economia centralizzata ed autoritaria di Nasser. Tale impostazione di politica economica ha condotto ad una crescita impressionante di concentrazione della ricchezza e delle disparità socio-economiche.

Dal punto di vista prettamente politico, la presenza di un leader non destituibile ha consentito al Governo Egiziano di mantenere sotto controllo la formazione islamica dei Fratelli Musulmani, escludendola sostanzialmente dalla vita politica, rassicurando in questo modo gli Stati Uniti, timorosi della presenza di partiti islamisti nell’agone politico.

È opportuno soffermarsi brevemente sulla Fratellanza Musulmana. Mentre l’Egitto è sempre stato un Paese profondamente religioso, il moderno Islam politico è apparso sulla scena nazionale soltanto nel 1928, con la creazione della Fratellanza Musulmana da parte di Hassan al-Banna. La Fratellanza è stata creata come movimento sociale e politico pan-islamico, in parte come risposta alla caduta dell’Impero Ottomano e all’abolizione del Califfato in Turchia da parte di Moustafà Kemal Ataturk. Questa soppressione fu considerata da molti devoti musulmani, incluso al-Banna, come una battuta d’arresto, in quanto riteneva il Califfato una necessità per l’Islam.

I Fratelli Musulmani si basano su due importanti principi. Il primo è l’adozione della Sharia come piattaforma legislativa per la gestione dello stato e della società; infatti, essi affermano che l’Islam è uno stato così come la religione. Ciò implica che le idee laiche siano intrinsecamente non islamiche e quindi i musulmani che chiedono uno stato laico potrebbero essere considerati non credenti. La Fratellanza ha opinioni molto conservatrici sulla parità di genere e sul ruolo delle donne nella società, che devono indossare dei capi di abbigliamento castigati. Inoltre, sostiene la separazione dei sessi nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Ritiene anche che le espressioni culturali dovrebbero riflettere la natura islamica della società, quindi ha spesso invocato la censura per i libri e i film considerati contrari all’Islam; data questa posizione, i Fratelli Musulmani sono sempre stati in disaccordo con l’élite culturale e artistica dell’Egitto.

Il secondo principio della Fratellanza è quello di unificare gli stati islamici e di liberarli dall’imperialismo straniero.

La storia dei Fratelli Musulmani è segnata dalla violenza. Durante la Seconda Guerra Mondiale sono stati accusati di collaborare con le Potenze dell’Asse con l’obiettivo di contribuire a liberare l’Egitto dall’imperialismo britannico. Essi sono stati coinvolti in diversi attentati e omicidi. Di conseguenza, il Governo Egiziano vietò la Fratellanza e arrestò molti dei suoi leader nel 1948. La Fratellanza rispose uccidendo il Primo Ministro, dimostrando che essa era potente quanto lo stato egiziano e che poteva uccidere anche il Capo dell’Esecutivo. Al-Banna stesso fu poi assassinato, molto probabilmente per rappresaglia. I Fratelli Musulmani sono stati anche accusati di aver preso parte al grande incendio che devastò il Cairo nel 1952, quando circa 750 edifici, soprattutto locali notturni, ristoranti, bar e alberghi nel centro della città, bruciarono.

Successivamente, dopo un altro tentativo di assassinio nei confronti di Nasser a metà degli anni Sessanta, lo stato ha dato inizio a una dura repressione nei confronti della Fratellanza, proibendola nuovamente, arrestando e condannando a morte molti dei suoi leader.

Nasser è sempre stato considerato la nemesi della Fratellanza Musulmana. Ancora oggi, gli oppositori dei Fratelli Musulmani spesso portano le immagini di Nasser, le cui dichiarazioni contro la Fratellanza sono ampiamente pubblicizzate sui social media.

Quando il Presidente Anwar al-Sadat è salito al potere a seguito della morte di Nasser nel 1970, la sua preoccupazione principale era recuperare la Penisola del Sinai occupata da Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Ciò richiedeva che egli spostasse l’Egitto dal campo sovietico, avvicinandosi all’Occidente, in particolare agli Stati Uniti, affrontando, nel contempo, una dura resistenza da parte dei partiti di Sinistra, che cercò di neutralizzare mediante l’apertura ai Fratelli Musulmani, consentendo loro di uscire dal carcere e di svolgere alcune attività, pur rimanendo ufficialmente vietati.

Sadat era un musulmano devoto, ma anche un militare e un nazionalista, quindi era quasi inevitabile che si sarebbe scontrato con la Fratellanza. Ciò è accaduto dopo la firma dell’Accordo di Camp David nel 1978 e il Trattato di Pace con Israele nel 1979. Sadat fu assassinato da un islamista, membro di una diramazione della Fratellanza. I nazionalisti e molti membri delle Forze Armate che ammirano Sadat continuano a ritenere la Fratellanza responsabile della sua morte.

La Fratellanza ha ufficialmente annunciato di sostenere la democrazia e di respingere la violenza, tuttavia i suoi detrattori pensano che è difficile avere un sistema davvero democratico nel contesto di uno stato religioso disciplinato dalla Sharia, così come ottenere un dibattito politico ragionevole quando la controparte insiste sull’uso di citazioni del Corano per affermare la sua posizione. Si sottolinea, inoltre, che molti membri della Fratellanza continuano ad usare mezzi violenti contro i loro avversari ed inoltre sono spesso armati.

Il contesto politico interno dell’Egitto è stato reso instabile non solo a causa della presenza di una formazione politica islamista come i Fratelli Musulmani, ma anche dall’atteggiamento del regime; infatti, nel 2010 il Partito Nazionale Democratico annunciò che Mubarak sarebbe stato ancora una volta il candidato per le elezioni presidenziali del 2011, inoltre, era chiaro che il Presidente stava preparando il figlio Gamal per succedergli, dando così piena attuazione al concetto di «Repubblica Monarchica», di cui abbiamo trattato in precedenza. È importante evidenziare che Gamal ricopriva già la carica di Vice-Segretario Generale del Partito Nazionale Democratico, oltre ad essere a capo del potentissimo Comitato dell’Ordine Pubblico. Il figlio di Mubarak e un gruppo di uomini d’affari a lui vicini svolgevano da tempo un ruolo chiave nel determinare gli orientamenti politici del Paese, così come nell’approvazione dei Ministri e di altre alte cariche dello stato.

Il 2010 si è concluso con delle elezioni parlamentari controverse, infatti sono state molte le accuse di frodi elettorali che hanno causato al regime una grave crisi di legittimità.

Una miscela di ingiustizie politiche ed economiche, false promesse e realtà deludenti ha portato la popolazione egiziana a ribellarsi al potere autoritario del Presidente, costretto a dimettersi nel febbraio del 2011. La crisi del regime è stata affrettata dal mancato appoggio dell’«establishment» militare, infatti nel 2010 il Consiglio Supremo delle Forze Armate aveva discusso delle azioni da intraprendere se il figlio di Mubarak fosse stato candidato alle elezioni e la popolazione fosse scesa in piazza; secondo molti osservatori, i militari si erano trovati d’accordo che in un simile scenario non avrebbero obbedito agli ordini e si sarebbero rifiutati di attaccare i dimostranti. Il regime di Mubarak non poteva sopravvivere senza l’appoggio dell’apparato militare.

Le dinamiche sviluppatesi dopo le dimissioni di Mubarak offrono l’opportunità di analizzare nel concreto l’impatto di un movimento come la primavera araba in un Paese in cui erano assenti istituzioni basilari per uno stato democratico.

Quando Mubarak si è dimesso in data 11 febbraio 2011, ha trasferito i suoi poteri al Consiglio Supremo delle Forze Armate. Secondo la Costituzione egiziana vigente al momento delle dimissioni di Mubarak, avrebbe dovuto essere il Presidente del Parlamento ad assumere tale carica «ad interim». Il trasferimento del potere al Consiglio non aveva alcun fondamento giuridico, ma aveva una chiara motivazione politica; infatti, l’istituzione militare è quella più rispettata nel Paese, mentre il Parlamento era considerato corrotto e illegittimo. Per questa ragione, gli Egiziani erano soddisfatti nel vedere il Consiglio assumere la guida della transizione. Tuttavia è importante osservare come il Consiglio Supremo, composto da 18 membri e guidato dal Feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi, non aveva alcuna esperienza nella gestione di un Paese e ancora meno nella conduzione di una transizione politica. Sotto il Governo del Consiglio la crisi economica dell’Egitto si è ulteriormente aggravata e sono continuati i disordini.

Con l’affidamento della transizione al Consiglio, Tantawi è divenuto «de facto» il Capo di Stato. Il primo disaccordo politico che il Feldmaresciallo ha dovuto affrontare concerneva il calendario per le elezioni e la stesura di una nuova Costituzione. È importante ricordare che anche durante le successive elezioni il Paese non aveva ancora una Costituzione e la Corte Suprema aveva disciolto la Camera Bassa del Parlamento.

Il quadro politico dell’Egitto si presentava molto instabile, infatti, dopo la dissoluzione del Partito Nazionale Democratico di Mubarak, la Fratellanza Musulmana era l’unico gruppo organizzato e quindi avrebbe vinto in qualsiasi tornata elettorale, per questo premeva affinché si votasse prima della stesura di una nuova Costituzione. I nazionalisti, i partiti nasseriani e di Sinistra chiedevano invece tempo per prepararsi e organizzare le loro basi, pressando per un accordo su una nuova Costituzione prima delle elezioni.

A questo punto, la Fratellanza ha promesso di non mettere in campo un numero di candidati superiore al 50% dei seggi disponibili in Parlamento, in modo che essa avrebbe potuto governare soltanto con una coalizione, e di non presentare un candidato alla Presidenza.

Il Consiglio Supremo si schierò a favore della proposta della Fratellanza, iniziando i preparativi per le elezioni prima della stesura della Costituzione.

Mentre i politici stavano discutendo sulla Costituzione e sulle elezioni, la gioventù rivoluzionaria era ancora in strada che manifestava contro il regime militare, chiedendo il raggiungimento degli obiettivi delle proteste. Il primo scontro importante si verificò in Maspiro Street, di fronte all’edificio della televisione nazionale, il 9 e il 10 ottobre del 2011; un gruppo di giovani copti cristiani stava dimostrando pacificamente contro la distruzione di una chiesa da parte degli estremisti quando fu attaccato dalle forze di sicurezza. Il risultato fu l’uccisione di 24 persone e il ferimento di oltre 300, quasi tutti copti cristiani.

Questo tragico evento fu seguito da grandi manifestazioni in Piazza Tahrir e nella vicina Mohamed Mahmoud Street, la strada che porta al Ministero degli Interni, in cui gli Egiziani protestarono contro la brutalità della polizia. La repressione delle manifestazioni ha raggiunto un alto grado di violenza, in particolare il 19 novembre, quando dei giovani rivoluzionari scandivano degli slogan contro il Feldmaresciallo Tantawi e contro il Governo Militare, chiedendo, inoltre, l’annullamento delle elezioni parlamentari, che giudicavano inutili date le circostanze. È importante notare che la Fratellanza non ha partecipato a queste dimostrazioni di protesta, mantenendo buoni rapporti con il Consiglio Supremo, e continuando a preparare le elezioni. Tuttavia i Fratelli Musulmani avevano già rotto la loro promessa politica, mettendo in campo un numero di candidati tale da ottenere tutti i seggi della Camera Bassa.

Nonostante il boicottaggio da parte dei giovani rivoluzionari e le continue manifestazioni e disordini, le elezioni per la Camera Bassa del Parlamento hanno avuto luogo il 28 novembre del 2011 e l’8 gennaio del 2012. Come previsto, i risultati sono stati catastrofici per i partici laici. La Fratellanza ha ottenuto il 37,5% del voto popolare, che corrispondeva al 45% dei seggi in Parlamento. I Salafiti sono stati il secondo partito, ottenendo il 27,8% dei voti e il 25% dei seggi. Così il primo Parlamento post-rivoluzionario in Egitto ha avuto una maggioranza islamista schiacciante, che si attestava sul 70%. Le elezioni per la Camera Alta si sono tenute il 29 gennaio e il 22 febbraio, ma hanno sollecitato poco entusiasmo e l’affluenza è stata bassa. Gli islamisti hanno vinto quasi l’80% dei seggi, con la Fratellanza in possesso della maggioranza assoluta con il 58% dei seggi.

Le forze laiche, e in particolare la gioventù rivoluzionaria, si sono sentite tradite dal Consiglio Supremo e dagli islamisti. Sono state sollevate delle domande sul finanziamento delle campagne elettorali degli islamisti, affermando che i due più grandi partiti islamici avessero ricevuto generose donazioni da Paesi stranieri, dal Qatar per la Fratellanza e dall’Arabia Saudita per i salafiti. Questo contesto ha favorito la polarizzazione, infatti, i partiti laici hanno utilizzato i sentimenti nazionalistici degli Egiziani sostenendo che gli islamisti avessero ricevuto finanziamenti da altri Paesi, e quindi stavano agendo nell’interesse di quegli stati.

La vittoria degli islamisti è stata molto discussa dagli osservatori internazionali, adducendo tra le cause l’intricato meccanismo del sistema elettorale, il presunto sostegno economico dei ricchi Paesi del Golfo e la frammentazione dei partiti laici. Un elemento che non è stato preso in considerazione è il fatto che la popolazione, o almeno una parte di essa, aveva già rivelato la propensione a cercare rifugio in valori più tradizionali dopo il fallimento di sperimentazioni secolari; per esempio, dopo l’esito disastroso della Guerra dei Sei giorni del 1967, che aveva messo ufficialmente fine all’ideologia nasseriana e alla sua impronta laica, molti hanno trovato conforto nell’Al-Turath, nel patrimonio religioso, cercando una vicinanza più stretta con i valori tradizionali della loro religione. Fred Halliday, autore del saggio The Cold War: Global Conflict, Regional Upheavals, ha osservato che l’emergere dei movimenti islamici in Egitto dopo la Guerra dei Sei Giorni riflette un rifiuto generale della modernità laica, associata alla politica nazionalista radicale e allo stato modernizzatore. Tuttavia, il fatto che il potere politico sia rimasto nelle mani dei membri dell’apparato militare ha fatto sì che l’organizzazione dei Fratelli Musulmani fosse perseguitata e considerata illegale, confinandola in un ruolo marginale nella vita politica nazionale. Nonostante ciò, la Fratellanza Musulmana è rimasta operante sul territorio nazionale, fornendo servizi nelle aree più povere, attraverso la combinazione di religione, welfare sociale e attivismo politico, riuscendo a costruire il suo elettorato nella classe medio-bassa della società egiziana. La Fratellanza ha beneficiato dell’opinione ampiamente diffusa che essa fosse un’organizzazione onesta e premurosa verso la parte più svantaggiata della popolazione, in contrasto con il Partito Democratico Nazionale del Presidente Mubarak, considerato autoreferenziale e corrotto.

Se aderiamo al paradigma interpretativo secondo il quale la primavera araba è stata originata dalle classi sociali medio-basse in opposizione ai regimi autoritari, a causa della loro politica, degli abusi economici e dei problemi sociali, e se consideriamo l’analisi di Halliday, non possiamo sorprenderci che un’organizzazione che ha operato nell’ambito dell’assistenza alla popolazione più povera, sostenendo un ritorno ai valori tradizionali islamici, abbia finito per beneficiare di un ampio consenso.

La Fratellanza dominava il Parlamento che doveva eleggere l’Assemblea Costituente per iniziare la redazione della Costituzione post-rivoluzionaria. L’Assemblea includeva 66 islamisti su 100 membri, con sole sei donne e cinque cristiani copti. I partiti laici boicottarono l’Assemblea, dichiarata successivamente incostituzionale dalla Corte Suprema poiché i membri del Parlamento avevano eletto loro stessi nell’Assemblea. Un Accordo fu poi raggiunto tra gli islamisti e i partiti laici sulla struttura della seconda Assemblea Costituente, ma i partiti laici sostennero che gli islamisti avevano rotto quell’accordo.

Molti partiti laici seguirono l’appello di figure molto note, come Mohamed el-Baradei, in precedenza Direttore Generale dell’«United Nation’s International Atomic Energy Agency», e di Hamdeen Sabbahi, nasseriano, di boicottare la seconda Assemblea Costituente. Altri gruppi, tra cui i rappresentanti della Chiesa Copta, hanno aderito al boicottaggio.

Lo scisma tra gli islamisti e il resto della società sembrava essere sempre più ampio.

Nel frattempo, si tennero le elezioni presidenziali del 2012 in due turni. Il primo turno si svolse il 23 e il 24 maggio, il secondo turno il 16 e 17 giugno.

La Fratellanza ruppe la sua seconda promessa politica, mettendo in campo un candidato presidenziale. In realtà, i candidati erano due, quello preferito dalla Fratellanza era Khayrat al-Shatter, un milionario uomo d’affari e deputato della Fratellanza. Tuttavia al-Shatter ebbe dei problemi legali che gli impedirono di partecipare alle elezioni presidenziali. Per questo la Fratellanza mise in campo un secondo candidato, Mohamed Morsi, Presidente del Partito Libertà e Giustizia, una formazione politica che faceva diretto riferimento alla Fratellanza.

Il Consiglio Supremo dichiarò di non sostenere alcun candidato o gruppo politico, tuttavia era opinione condivisa che il candidato del Consiglio fosse Ahmed Shafik, in precedenza Generale dell’Aviazione e ultimo Primo Ministro sotto Mubarak. La scelta di Shafik come simbolo dell’alleanza tra nazionalisti e militari fu sfortunata, poiché era strettamente associata con il regime di Mubarak. Sarebbe stato molto difficile per la gente di Piazza Tahrir votare per lui. Un altro candidato era il nazionalista Amr Moussa, ex Ministro degli Affari Esteri e Segretario Generale della Lega Araba, ma ricevette molto sostegno da parte del Consiglio Supremo.

Morsi vinse il primo turno delle elezioni presidenziali, Shafik arrivò secondo. In questa prima tornata elettorale gli islamisti (Morsi e Abul Foutouh) ottennero il 42, 3% dei voti; i nazionalisti (Shafik e Moussa) il 34,8% e il nasseriano Sabbahi il 20,7% a dimostrazione che il messaggio che si rifaceva a Nasser trovava ancora un sostegno sostanziale in Egitto, in particolare tra la classe operaia. È interessante notare che Sabbahi abbia ottenuto la maggioranza dei voti in due delle più grandi città egiziane, il Cairo e Alessandria.

Morsi vinse il secondo turno con il 51,7%, rispetto al 48,3% di Shafik.

Poche settimane dopo la sua elezione, Morsi destituì il Feldmaresciallo Tantawi dal suo incarico di Ministro della Difesa, nominando, inoltre, un nuovo Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate. Questa mossa è stata ampiamente supportata dagli Egiziani, poiché sembrava che un Presidente democraticamente eletto prendesse il controllo dell’apparato militare. L’euforia per la sua elezione ha avuto breve durata, infatti ben presto gli Egiziani considerarono Morsi solo come il Presidente della Fratellanza.

Subito dopo il suo insediamento, Morsi iniziò un braccio di ferro con il potere giudiziario. Ai primi di giugno, prima delle elezioni presidenziali, i tribunali avevano ordinato lo scioglimento della Camera Bassa del Parlamento a causa della incostituzionalità della legge elettorale. All’atto del suo insediamento, Morsi cercò di ripristinare la Camera Bassa, ma ciò è stato interpretato come un attacco all’indipendenza della magistratura, e fu contrastato dai giudici, dai media e dai partiti politici. Alla fine, Morsi dovette accettare la decisione dei tribunali. Un altro scontro con la magistratura fu causato dal tentativo del Presidente di cambiare il Procuratore Generale, tale atto fu giudicato illegale e trovò una forte resistenza.

Lo scontro tra Morsi e il potere giudiziario è stato spesso interpretato come il tentativo della Fratellanza Musulmana di invadere le prerogative del ramo giudiziario del Governo che in una democrazia si presuppone sia indipendente dall’Esecutivo. Ci può essere della verità in questo, tuttavia è anche vero che la magistratura egiziana, così come i militari, la polizia e la Pubblica Amministrazione, ha una lunga tradizione nazionalista. Inoltre, tutti i giudici che Morsi dovette affrontare erano stati incaricati da Mubarak, quindi erano felici di rendere la vita difficile al nuovo Presidente e ai suoi sostenitori islamici.

La società civile si è ulteriormente polarizzata quando i laici si sono uniti per difendere i giudici assediati dagli attacchi ingiustificati degli islamisti.

Il 22 novembre, Morsi redasse sette emendamenti alla Costituzione. L’articolo 2 affermava che tutti i decreti, gli emendamenti costituzionali e le leggi emesse da Morsi dal momento del suo insediamento non potevano essere appellate o annullate, ponendo fine alla supervisione parlamentare e giudiziaria, inoltre, tutte le cause pendenti contro la sua decisione erano dichiarate nulle. L’articolo 6 autorizzava il Presidente ad adottare tutte le misure che riteneva opportune per proteggere la rivoluzione e salvaguardare l’unità nazionale, fornendogli in pratica poteri dittatoriali illimitati.

La reazione contro questi emendamenti fu rapida e veemente, le persone scesero in piazza per protestare contro quella che consideravano una mossa dittatoriale della Fratellanza. La polizia rispose alle proteste con la violenza, causando la morte di molti giovani e aggressioni sessuali contro le giovani dimostranti. Infine, Morsi ritirò gli emendamenti.

Un altro errore politico della Fratellanza è stato spingere per una nuova Costituzione prima che la magistratura potesse sciogliere la seconda Assemblea Costituente, dominata dagli islamisti e boicottata dai partiti laici.

La nuova Costituzione fu approvata dal referendum tenutosi il 15 e il 22 dicembre del 2012. Il testo fu approvato dal 63,8%, ma l’affluenza fu solo del 32,9% e la maggioranza degli elettori del Cairo, la capitale e la città più grande dell’Egitto, votò contro l’approvazione.

La nuova Costituzione rifletteva una visione islamista dell’Egitto piuttosto che un ampio consenso sociale. I copti erano contro questa Costituzione perché non proteggeva sufficientemente i diritti delle minoranze. Le associazioni femminili erano contrarie perché non garantiva l’uguaglianza dei sessi. La stampa e i media si opposero per la mancata tutela della libertà di stampa. Si è instaurato così un aspro confronto tra la Fratellanza e i mezzi di informazione tradizionali dell’Egitto; molte figure di spicco cono state citate in giudizio per oltraggio alla religione e per aver insultato il Presidente, entrambe le accuse contemplavano una pena detentiva. Un’altra contrapposizione inutile è stata quella con il mondo artistico e intellettuale, infatti Morsi nominò come Ministro della Cultura un esponente islamista che cercò di imporre un codice islamico all’élite culturale egiziana.

Dal punto di vista politico, due partiti storicamente avversari, i nasseriani di Sabbahi e il nuovo Partito Wadf di Al-Badawi convennero di coordinare e unire le forze nel Fronte della Salvezza di El-Baradei, a cui si unì anche l’islamico moderato Abul Foutouh.

Con l’inizio del 2013 la posizione di Morsi divenne sempre più instabile; infatti, stava affrontando un’opposizione unita di laici e islamici moderati, supportata dalla gioventù rivoluzionaria, dalla magistratura, dai media e dall’élite culturale; inoltre, grandi uomini d’affari stavano ingrossando le fila dei suoi avversari per la grave crisi economica del Paese.

Un anno dopo le elezioni del 2012, una nuova e forse inevitabile ondata di proteste prese piede da Piazza Tahrir, in cui decine di migliaia di Egiziani chiesero le dimissioni del Presidente.

Il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha colto l’occasione per sbarazzarsi di un leader vessatorio, consegnando un ultimatum in cui si davano al Presidente 48 ore per rispondere alle richieste della popolazione, in caso contrario le Forze Armate avrebbero imposto la propria tabella di marcia per il futuro. Mentre nei corridoi del potere Morsi sfidava il Consiglio Supremo delle Forze Armate rigettando l’ultimatum in quanto leader legittimo, nelle strade del Cairo avvenivano gravi scontri tra i sostenitori del Presidente e i suoi oppositori. Alla fine, il 3 luglio del 2013, il Generale Abdel Fattah al-Sisi, Ministro della Difesa, prese il potere rovesciando Morsi e ordinando l’arresto di numerosi esponenti della Fratellanza Musulmana. Successivamente, si instaurava un Governo «ad interim», in cui sia il Presidente sia il Primo Ministro erano civili, tuttavia l’apparato militare continuava ad essere la più rispettata e potente istituzione nel Paese.

Il 2 dicembre del 2013 il Parlamento approvò la bozza della nuova Costituzione, con emendamenti che miravano a: proibire i partiti che utilizzavano la religione come fondamento dell’attività politica; approvare una nuova legge antiterrorismo che concedeva ampi poteri alla polizia; attribuire al Presidente la prerogativa di sciogliere il Parlamento; eliminare il controllo giudiziario sulle elezioni. Nel gennaio del 2014 gli emendamenti furono approvati da un referendum.

Nonostante nelle sue prime dichiarazioni pubbliche al-Sisi avesse affermato di non avere ambizioni presidenziali, la sua figura era la più popolare in Egitto. Inoltre, il Generale appariva immediatamente diverso dal settantaseienne Tantawi, che aveva governato l’Egitto dopo le dimissioni di Mubarak; infatti, egli aveva condotto i suoi studi negli Stati Uniti, era giovanile e carismatico. La sua comunicazione riprendeva i temi classici del nazionalismo.

In effetti, alle elezioni presidenziali del maggio del 2014, al-Sisi ottenne un voto plebiscitario in suo favore.

Il regime di al-Sisi si è contraddistinto per una feroce repressione non solo degli islamisti, con numerose condanne a morte degli appartenenti alla Fratellanza Musulmana, dichiarata illegale nel Paese, ma anche di ogni tipo di opposizione, sia laica sia socialista; infatti molti organismi internazionali hanno denunciato il clima di terrore e intimidazione che vige in Egitto, con ripetute e reiterate violazioni dei diritti civili e politici da parte delle Forze di Sicurezza, impegnate in una campagna di repressione di ogni forma di dissenso. La repressione ha coinvolto anche la stampa, la cui libertà è stata duramente compromessa dalle misure contro il terrorismo, che non permettono che i media contraddicano quanto viene affermato dal Governo in tale ambito. Le norme antiterrorismo sono sovente utilizzate anche contro l’opposizione interna al regime.

Dal punto di vista del contesto geopolitico internazionale, al-Sisi ha utilizzato la dura lotta ingaggiata contro i terroristi per accreditarsi come un partner fondamentale per la stabilità dell’Egitto e, di riflesso, del Medio Oriente.

L’analisi della primavera egiziana ha fornito un caso di studio da cui è possibile individuare pericoli e sfide per un Paese in transizione. Purtroppo, il risultato delle rivolte in Egitto sembra essere un fallimento piuttosto che un trionfo, infatti il Paese è tornato al punto di partenza, con i militari che tengono saldamente le redini del potere e schiacciano brutalmente l’opposizione.

In conclusione, è possibile affermare che il successo o il fallimento della transizione di un Paese Arabo da un regime alla democrazia dipendono in grande misura dalla perseveranza della popolazione. Due sfide, infatti, emergono ogni volta che un popolo inizia il suo viaggio verso un sistema di governo democratico. Il primo rischio è la perdita dell’entusiasmo che aveva accompagnato le prime rivolte. Sono necessari tempo e pazienza per ottenere risultati significativi, di conseguenza l’esaurimento dell’entusiasmo inziale potrebbe portare all’accettazione di una forma di pseudo-democrazia. La seconda sfida è che qualunque struttura democratica sia costruita, essa avrà bisogno del sostegno della popolazione al fine di garantire il suo corretto funzionamento. È stato dimostrato come la transizione possa essere dirottata da attori che desiderano prevenire la completa realizzazione democratica, e quindi ogni singolo risultato, per quanto piccolo possa essere, deve essere pienamente sostenuto dal popolo, in caso contrario la fragilità della nuova struttura potrebbe essere facilmente manipolata e sfruttata.

È difficile prevedere che cosa accadrà in Egitto, molto dipenderà dalla cultura politica che la popolazione riuscirà ad acquisire, ma indubbiamente sarà un processo molto lungo.


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(maggio 2017)

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