Israele e la crisi siriana
Le sfide politiche e militari per lo Stato
Ebraico
La guerra civile in Siria, che fino ad oggi ha causato la perdita di centinaia di migliaia di vite e reso profuga quasi la metà della popolazione, non è vicina alla fine. La tragedia siriana, che ha coinvolto altri attori del Medio Oriente, milizie mercenarie ed eserciti stranieri, non sembra stabilizzarsi. Si è creato un nuovo contesto geopolitico. Allo stesso tempo, tuttavia, nell’agosto del 2017, l’Agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite (IOM) ha annunciato che oltre 600.000 sfollati, circa il 10% del totale dei rifugiati, erano già tornati alle loro case in Siria, molti nella città di Aleppo, che, fino a diversi mesi prima, era stata il simbolo dei violenti combattimenti tra l’indebolito campo ribelle e le forze del regime. Il 2017 si è concluso anche con la conquista, attraverso l’aiuto di Hezbollah, del villaggio di Beit Jann, una delle tasche di resistenza dei gruppi dell’opposizione supportati da Israele. Questi nuovi sviluppi, incluso il radicamento delle forze armate russe e iraniane in Siria, sono importanti anche per Israele e la sua visione strategica, soprattutto per quanto concerne la Siria Meridionale. La strategia di Israele potrebbe dover essere modificata significativamente, data la grandezza dei cambiamenti sull’altro lato del confine.
La linea politica israeliana, inizialmente basata sull’idea dello Stato Ebraico come «spettatore passivo», evolvendosi in un intervento molto più attivo vicino al confine siriano, richiede un’analisi particolare. Il suo principio organizzativo combina l’attività umanitaria e militare: costruire ponti da un lato, e massimizzare gli interessi israeliani dall’altro. Inoltre, la «diplomazia umanitaria» – l’assistenza civile e governativa fornita nell’area delle Alture del Golan Siriano – sarà oggetto di un esame approfondito, così come il suo ruolo negli sforzi per costruire una base di interessi comuni tra Israele e i gruppi dell’opposizione siriana. Infine, dobbiamo comprendere le sfide e le opportunità che Israele deve affrontare, alla luce della rapida evoluzione della situazione oltre confine.
Gli interessi di Israele in Siria e nella crisi siriana sono molteplici: Israele è interessato prima di tutto alla pace e alla stabilità del suo confine settentrionale, alla prevenzione dell’utilizzo delle armi di distruzione di massa consegnate o cadute nelle mani di Hezbollah o di altre organizzazioni e ad impedire che elementi jihadisti si stabiliscano a Nord della Alture del Golan in modo paragonabile a quello che è successo nel Sinai. Lo Stato Ebraico è anche interessato ad eliminare l’influenza dell’Iran in Siria, impedendogli di usare il Paese per sviare l’attenzione internazionale dal suo programma nucleare, e all’indebolimento di Hezbollah nel Libano. Il presente saggio analizza il punto di vista di Israele sulla crisi siriana, sulle sue relazioni bilaterali, regionali e sul contesto internazionale ed esamina le modalità attraverso le quali gli interessi dello Stato Ebraico potrebbero essere influenzati dai risvolti della crisi attuale.
Storicamente, dal 1948 al 1991 e sotto i successivi regimi, la Siria è stata considerata da Israele come il suo nemico arabo più mortale. Mentre l’Egitto era il nemico più formidabile, la posizione della Siria quale «cuore pulsante del nazionalismo arabo», la sua particolare vicinanza alla Palestina e alla questione palestinese, e il complesso delle problematiche connesse ai confini tra Israele e Siria giustificavano l’intensità del conflitto bilaterale tra i due Paesi.
Nel corso degli anni sono avvenuti diversi cambiamenti nella natura del conflitto e delle sue dinamiche; nel 1967 la conquista da parte di Israele delle Alture del Golan e la determinazione della Siria per la loro riconquista divennero una componente – tra le più importanti – del conflitto. Il tentativo siriano di riconquistare le Alture nella guerra del 1973 fallì, infatti nel dopoguerra un accordo di disimpegno, mediato da Henry Kissinger, ha determinato le relazioni bilaterali lungo la linea del cessate il fuoco. Il Presidente della Siria, Hafiz al-Assad, ha mantenuto l’accordo e di conseguenza un fronte tranquillo, ma ha continuato a condurre la lotta contro Israele indirettamente attraverso il Libano e sostenendo i gruppi palestinesi, e promuovendo le organizzazioni terroristiche.
La capacità di Assad di condurre questa duplice politica è stata facilitata dal suo successo nella costruzione dello Stato Siriano e dalla trasformazione della Siria in un potente attore della politica regionale del Medio Oriente. Assad è rimasto vicino all’alleato sovietico, ma ha aperto numerosi canali verso l’Occidente, impressionando molti Presidenti Statunitensi e Segretari di Stato, dando l’impressione di poter essere conquistato dalla linea di Washington.
Quando Anwar Sadat decise di negoziare un accordo di pace con Israele nel 1977, Assad ha guidato una campagna contro di lui, accusandolo di stupidità e tradimento. Quattordici anni dopo, in seguito al collasso dell’Unione Sovietica e all’indomani della Prima Guerra del Golfo, Assad si unì alla Conferenza di Madrid guidata dagli Stati Uniti, dando inizio ad un sforzo decennale per risolvere il conflitto siro-israeliano.
Durante questo decennio, quattro Primi Ministri Israeliani – Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Benjamin Netanyahu e Ehud Barak – hanno mostrato la loro volontà di ritirarsi dalle Alture del Golan in cambio di un insieme accettabile di proposte di pace e sicurezza. Questa politica rifletteva il pensiero che la Siria fosse un partner migliore rispetto ai Palestinesi per il processo di pace. Assad concordava in linea di principio sulla firma di un trattato di pace con Israele e sulla normalizzazione delle relazioni, ma per ragioni che non saranno spiegate in dettaglio in questa sede, l’accordo di pace che era – o almeno appariva essere – vicino alla concretizzazione non fu raggiunto e i negoziati naufragarono nel marzo del 2000. Hafiz al-Assad morì tre mesi dopo, dando inizio ad un nuovo capitolo della storia della Siria e dei suoi rapporti con Israele.
La morte del costruttore dello Stato Siriano e la sua sostituzione in stile dinastico da parte del figlio furono soltanto due degli eventi convergenti nel 2000 che cambiarono il corso della storia della Siria (e nel nostro contesto, la sua relazione con Israele). Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti determinarono che Bill Clinton, un aperto sostenitore della pace siro-israeliana e del riavvicinamento siro-americano, fosse sostituito da George W. Bush, che entrò in carica in un momento in cui il processo di pace arabo-israeliano non dava segni di progresso, inoltre fu presto in rotta di collisione con la Siria di Bashar al-Assad. In Israele, la leadership di Ehud Barak collassò a causa del fallimento della conferenza di Camp David e del sorgere della seconda intifada. La fine del Governo di Barak lasciò campo libero al leader del Likud, Ariel Sharon. Finì così un decennio di ricerca di un accordo di pace siro-israeliano, e fu segnata la fine anche della prassi politica che considerava tale accordo la migliore soluzione al «problema libanese».
Nei successivi sei anni le relazioni israelo-siriane non hanno subito sostanziali modifiche. La politica di Bashar al-Assad era triplice: ha affermato più volte che voleva rinnovare i negoziati con Israele, ha rinforzato la sua capacità militare nel caso che l’opzione diplomatica fallisse, ha intensificato la collaborazione strategica con l’Iran e gli Hezbollah. Mentre Hafiz al-Assad era un alleato dell’Iran e trattava gli Hezbollah e il loro leader, Hassan Nasrallah, come subordinati, nel tempo Bashar è divenuto un subalterno più che un pari grado del principale partner iraniano e ha considerato Nasrallah come un alleato da ammirare. Durante i primi anni Duemila, l’arsenale missilistico di Hezbollah si è ampliato in modo preponderante come deterrente contro i potenziali attacchi di Israele e degli Stati Uniti contro l’Iran o la Siria.
Ariel Sharon era assolutamente disinteressato ad un’opzione diplomatica o a trattare con la minaccia dell’arsenale di Hezbollah. Sharon era completamente focalizzato sulla questione palestinese – in primo luogo nello sconfiggere la seconda intifada e poi nel ritiro da Gaza – e rifiutò di essere deviato da questi obiettivi dall’«opzione siriana». Quando Bashar al-Assad, nel tentativo di alleviare le pressioni di George W. Bush, cercò di stabilire un contatto, questo fu respinto da Sharon, che fu, tuttavia, molto attento a non essere coinvolto in un grave conflitto militare con l’alleato di Assad, Hezbollah.
Quando Hezbollah divenne più audace, gli attacchi militari di Israele si focalizzarono su obiettivi militari minori in Siria. Il messaggio era chiaro: Sharon riteneva la Siria responsabile per le azioni di Hezbollah e aveva promesso che, se fossero continuati o si fossero intensificati, avrebbe valutato delle azioni più risolute contro la Siria (è importante notare che Sharon scelse di non agire contro l’arsenale di missili accumulato da Hezbollah, dall’Iran e dalla Siria).
Significativamente, quando il Presidente Statunitense, irritato dalla doppia partita giocata da Assad in Iraq, ha parlato con Sharon circa la possibilità di rimuoverlo, il Premier Israeliano ha risposto che preferiva il «diavolo che conosceva». In altre parole, anche Sharon non era un ammiratore di Assad e delle sue politiche, ma preferiva un Presidente Siriano che mantenesse la linea del cessate il fuoco, soprattutto in considerazione dell’alternativa al regime del partito Baath, cioè i Fratelli Musulmani.
Ehud Olmert, che successe a Sharon quando questi si ammalò all’inizio del 2006, inizialmente continuò la politica del suo predecessore, o meglio la mancanza di una politica sulla Siria. Il suo stretto rapporto con George W. Bush ne rinforzò la riluttanza a considerare Bashar al-Assad come un potenziale partner per la pace. Ma nel corso del 2006 e del 2007, questa visione politica così semplicistica è stata trasformata da due eventi fondamentali: la guerra in Libano nel 2006 e gli sforzi congiunti della Siria e della Corea del Nord per sviluppare un’arma nucleare.
La guerra del Libano del 2006 ha rivelato tutta la portata della minaccia alla sicurezza di Israele rappresentata dalla cooperazione trilaterale tra Iran, Siria ed Hezbollah. La guerra ha moderato gli attacchi condotti da Hezbollah, ma il suo arsenale di missili e bombe era aumentato e la minaccia futura era esacerbata. Nel corso della guerra, il Presidente Bush non fece mistero della sua speranza che Olmert si sarebbe occupato anche della Siria, ma il Premier Israeliano rifiutò. Alla fine del conflitto, Olmert accettò il punto di vista dominante nell’«establishment» della sicurezza nazionale israeliana secondo il quale l’opzione migliore per scongiurare nuove minacce sarebbe stata un nuovo negoziato e un eventuale accordo con la Siria, il modo più efficace per iniziare a smantellare l’asse guidato dall’Iran e indebolire Hezbollah e la sua presa sul Libano. Il Premier Israeliano chiarì la questione con il Presidente Bush, che non era soddisfatto dell’idea, ma non pose alcun veto. Olmert scelse di iniziare i negoziati attraverso la Turchia e acconsentì all’insistenza di Assad che fossero condotti, almeno inizialmente, per mezzo della mediazione turca. La mediazione fu svolta ad Ankara e culminò nella sfortunata visita di Olmert nella capitale turca nel dicembre del 2008, alla vigilia dell’operazione «piombo fuso» a Gaza.
Quando l’intelligence israeliana scoprì il reattore nucleare costruito dalla Nord Corea nella Siria Nord-Orientale, e lo stesso Olmert scoprì che il Presidente Bush non era disposto a distruggerlo, si impegnò lui stesso a farlo nel settembre del 2007. Una volta che i militari ebbero completato l’operazione con successo, la preoccupazione principale di Israele era gestire la ricaduta politica e mediatica in modo da minimizzare la pressione su Assad affinché non rispondesse militarmente. Assad si astenne da qualsiasi ritorsione. L’intero episodio evidenziava per Israele alcuni punti interrogativi relativi alla figura di Bashar al-Assad: era disposto a giocare d’azzardo attraverso una collaborazione nucleare pericolosa e di vasta portata con la Corea del Nord, ma aveva dimostrato responsabilità e controllo una volta scoperto e umiliato. Dopo un certo tempo, la mediazione turca tra Israele e Siria fu ripresa, ma senza successo, come abbiamo visto in precedenza.
La fine del mandato di Ehud Olmert ha segnato la fine anche del quinto inutile sforzo, dal 1991, per risolvere il conflitto israelo-siriano. Il successore, la leader di Kadima, Tzipi Livni, non riuscì a formare un nuovo Governo e nelle successive elezioni generali l’elettorato si spostò a Destra, conferendo la vittoria elettorale a Benjamin Netanyahu e ad una coalizione di Destra. Netanyahu si era espresso pubblicamente, durante la campagna elettorale e in seguito durante il suo mandato, contro il ritiro dalle Alture del Golan. Il nuovo Presidente Americano, Barack Obama, sosteneva l’impegno negoziale con la Siria, ma in pratica, durante la maggior parte del suo primo mandato, si impegnò nel rianimare il processo di pace arabo-israeliano, focalizzato sulla questione palestinese.
L’amministrazione Obama nominò Fred Holf, un noto esperto di Siria che aveva scritto sul processo di pace israelo-siriano, come vice di George Mitchell con responsabilità speciali per la questione israelo-siriana. Dato l’impegno profuso da Barack Obama e dalla sua amministrazione per riavviare il processo di pace arabo-israeliano, l’«opzione siriana» fu relegata in secondo piano. Invece, Hof e i suoi superiori provarono ad aprire un dialogo tra gli Stati Uniti e la Siria, concentrandosi sul miglioramento delle relazioni bilaterali. Funzionari del Dipartimento di Stato del New Jersey si recarono a Damasco e il senatore John Kerry ricevette la responsabilità di coltivare una relazione speciale con la Siria e il suo Presidente, trovando l’accoglienza positiva di Netanyahu. Il tentativo di costruire una nuova relazione tra Washington e Damasco non ebbe un esito positivo, tuttavia nel 2010 l’amministrazione Obama tentò un nuovo sforzo per riavviare i negoziati israelo-siriani. Questo era uno schema familiare: quando le difficoltà si accumulavano su un processo di pace, l’enfasi era spostata su un altro. Alla fine del 2011, la stampa israeliana rivelò che la mediazione segreta tra Netanyahu e il regime di Assad era piuttosto seria e sarebbe durata fino all’esplodere della crisi siriana. Non è noto quali fossero le intenzioni del Premier Israeliano quando impegnò l’amministrazione Obama in questo sforzo di mediazione. Netanyahu avrebbe fatto un accordo con Bashar al-Assad basato sul completo ritiro dal Golan? O era principalmente interessato a creare un’alternativa al processo di pace con i Palestinesi? La fuga di notizie della stampa israeliana era probabilmente finalizzata a mettere in imbarazzo il premier mostrando la discrepanza esistente tra la sua retorica e le sue azioni pratiche, ma chiunque si aspettasse che la rivelazione avesse un impatto sull’elettorato israeliano, fu deluso.
Fu in questo contesto che la ribellione contro il regime di Bashar al-Assad esplose nel marzo del 2011. Settimane più tardi, quando divenne chiaro che questo non era un episodio passeggero ma una radicata ribellione popolare che ha continuato a guadagnare supporto e forza, i politici e gli analisti israeliani elaborarono le prime serie risposte alla crisi siriana. In quel momento, intorno al maggio del 2011, non era ancora certo che il regime sarebbe collassato. L’atteggiamento di Israele in questo periodo può essere delineato attraverso i seguenti punti: 1) contrariamente alle voci correnti nel Medio Oriente e altrove, Israele non cercò di aiutare Assad a mantenere il potere e non tentò di persuadere gli Stati Uniti a seguire la stessa politica. La risposta di Ariel Sharon a George W. Bush nel 2005, il preferire «il diavolo che già conosciamo», non era più rilevante nel 2011. Il cercare un accordo con la Siria, durante il mandato di Ehud Olmert nel 2006, non aveva portato da nessuna parte. Da quel momento, non c’era una sola visione israeliana della Siria e di Bashar al-Assad, ma la percezione di Israele della Siria e del suo Presidente poteva essere definita ambivalente. L’esperienza del 2006 nel Libano e l’«affaire» del reattore nucleare avevano avuto un effetto negativo, anche se non era svanita l’idea che il modo più efficace per far cadere il «muro iraniano» fosse tirare fuori il «mattone siriano». Questa ambivalenza fu evidente nella primavera del 2011 quando la politica israeliana dovette decidere se preferiva che Assad restasse o fosse deposto. La leadership politica israeliana considerò che Assad fosse più dannoso che benefico. Era chiaro che un’opzione diplomatica era impraticabile nel breve termine. La leadership israeliana era preoccupata soprattutto dall’identità del successore di Assad, ma considerava anche il danno che sarebbe stato causato all’Iran dalla caduta del regime, e nel complesso preferiva la sua deposizione. 2) Gli Israeliani si sono resi conto che gli eventi in Siria, anche se non avessero coinvolto lo Stato Ebraico direttamente, non erano una mera questione accademica. Israele non aveva un’influenza all’interno della Siria, quindi qualsiasi supporto esteso all’opposizione siriana sarebbe stato controproducente. La risposta iniziale del regime di Assad alla ribellione fu che questa non era una rivolta vera e propria, ma un complotto organizzato dall’esterno, in particolare da Stati Uniti e Israele. Se Israele avesse esteso il suo supporto ai ribelli (o eventualmente offerto un aiuto umanitario) avrebbe dato al regime di Assad una formidabile arma di propaganda. Le previsioni di alcuni osservatori secondo le quali Israele avrebbe potuto usare la sua potenza militare per influenzare il corso degli eventi in Siria, come concentrare delle forze sulla frontiera, non è mai stata considerata seriamente dalla leadership israeliana. 3) Israele ha notato con soddisfazione che non tutti gli eventi della primavera araba erano necessariamente benefici per l’Iran e «l’asse della resistenza». La caduta di Ben Ali e di Mubarak e la pressione sulle Monarchie Conservatrici erano considerate un guadagno per l’Iran, ma la ribellione siriana era una significativa battura d’arresto per Teheran. La Siria era il principale alleato dell’Iran nella regione, terra di ponte per il Libano, e suo partner nel supportare Hamas a Gaza. La prospettiva di un cambio di regime e l’emergere di un successore filo-americano a Bashar al-Assad, erano aberranti per Teheran. Le ripercussioni della crisi siriana furono presto chiare tra i partner dell’Iran: gli Hezbollah acquisirono una modalità difensiva e Hamas spostò il suo quartier generale esterno lontano da Damasco. In una prospettiva di gioco a somma zero, la perdita dell’Iran era un guadagno per lo Stato Ebraico. 4) Le ripercussioni per l’Iran erano chiaramente parte di un contesto regionale e internazionale più ampio. Mentre la ribellione continuava e si intensificava, la Siria divenne l’arena di un conflitto regionale tra l’Iran e i suoi rivali così come tra la Russia (e, in misura minore, la Cina) e gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali. Gli eventi in Siria avevano degli effetti particolari su vicini come la Turchia e l’Iraq. 5) Israele ha fatto una chiara distinzione tra le conseguenze immediate e quelle a lungo termine della crisi siriana. La ribellione, la guerra civile e la prospettiva di un cambio di regime in un Paese vicino nemico richiedono sempre vigilanza e molta attenzione. Le conseguenze a lungo termine della crisi siriana per Israele dipendono naturalmente dal corso degli eventi.
Alla metà di maggio del 2011, quasi due mesi dopo l’esplosione della ribellione, Rami Makhlouf, cugino di al-Assad, concesse un’intervista al «New York Times». Makhlouf è un uomo d’affari, incaricato di costruire e gestire la fortuna illecita della famiglia e membro del cerchio più interno del regime. Non è noto se la sua dichiarazione fosse stata autorizzata o coordinata in anticipo con il cugino, ma era chiaramente significativa e preveggente. La principale importanza dell’intervista consisteva nel messaggio per cui il regime era determinato a detenere il potere ed era disposto a combattere fino alla fine. Ma Makhlouf scelse anche di includere uno specifico avvertimento diretto sia a Gerusalemme che a Washington: «Se non c’è stabilità qui, non c’è modo che ci sia stabilità in Israele […] e nessuno può garantire ciò che accadrà dopo, Dio non voglia, qualsiasi cosa succederà a questo regime […] non spingerà la Siria a fare ciò che non è felice di fare». Dopo breve tempo, nel giorno della Nakba (parola araba che significa «catastrofe», utilizzata fin dal 1948 per descrivere la fondazione dello Stato d’Israele e le sue conseguenze, tra cui la prima guerra arabo-israeliana, la sconfitta degli eserciti arabi e l’esodo massiccio dei Palestinesi), migliaia di Palestinesi si riunirono lungo il reticolato che separa le Alture del Golan dalla Siria vicino al villaggio druso di Majdal Shams. Rispetto alle recinzioni di sicurezza lungo gli altri confini di Israele, quella recinzione non era una vera e propria barriera e diverse centinaia di Palestinesi riuscirono a spezzarla e ad attraversare il villaggio druso. Quattro di loro furono uccisi e diverse dozzine feriti da una piccola forza militare israeliana.
Gli Israeliani si erano abituati allo «status quo», in base al quale il regime Baath infliggeva dei danni allo Stato Ebraico su altri fronti, tuttavia attuava scrupolosamente i termini degli accordi di disimpegno del 1974 e manteneva tranquillo il fronte del Golan. L’incidente di maggio a Majdal Shams era solo uno dei tanti in cui i Palestinesi celebravano il giorno della Nakba lungo le frontiere israeliane. Tuttavia, l’incidente ha rappresentato un avvertimento per Israele sul fatto che il fronte del Golan non sarebbe rimasto calmo per sempre e che i disordini avrebbero potuto infiammare il fronte siriano, anche in mancanza di una politica deliberata (come minacciato da Makhlouf) e come sottoprodotto della ribellione siriana.
Israele prese le precauzioni necessarie, rinforzando il recinto e aumentando la sua presenza militare nel Golan. Un secondo tentativo palestinese di attraversare la recinzione fu stroncato sul nascere. Il fronte del Golan rimase calmo ma in Israele vi era la sensazione che la guerra civile avrebbe potuto diffondersi nel Paese o coinvolgerlo da un giorno all’altro. Nel novembre del 2012, avvenne un certo numero di incidenti lungo la linea del cessate il fuoco siro-israeliano e sulle Alture del Golan. Probabilmente era una conseguenza non intenzionale dei combattimenti tra l’esercito siriano e l’opposizione e non rifletteva una decisione di entrambe le parti di estendere i combattimenti sulle Alture del Golan o cercare di attirare Israele nel conflitto. Durante i successivi tredici mesi, all’evolversi della crisi siriana in una vera e propria guerra civile, il fronte siro-israeliano rimase calmo. Vi è stata un’agitazione alla fine dell’estate del 2012 dovuta a due questioni. La prima era l’arsenale di armi di distruzione di massa della Siria. Le previsioni di un crollo repentino del regime resero il tema più rilevante, infatti venne alla ribalta il possesso da parte del regime di missili balistici con testate chimiche e biologiche. Gli Stati Uniti e gli alleati occidentali erano allarmati da una confluenza di materiale di intelligence e dichiarazioni pubbliche del regime. Assad e i suoi alleati, messi con le spalle al muro, avrebbero usato le armi di distruzione di massa contro la popolazione? Il regime avrebbe trasferito parte delle scorte ad organizzazioni terroristiche come Hezbollah? Avrebbe deciso di uscire di scena usando quelle armi contro nemici come Israele e altri vicini? Alle prime due domande oggi possiamo rispondere positivamente, alla terza soltanto il procedere degli eventi potrà dare una risposta.
Israele ha risposto minacciando di intercettare qualsiasi trasferimento di armi di distruzione di massa. Il Ministro della Difesa Barak, il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Benny Gantz hanno avvertito che questa era in realtà una «linea rossa», e secondo il Ministro degli Esteri, un «casus belli». Gli esperti militari e diplomatici ebbero delle posizioni più sfumate rispetto ai politici. Il Generale della riserva Amos Gilad, Capo della divisione politico-militare del Ministero della Difesa, spiegò nel luglio del 2012 che fino ad allora il regime aveva mantenuto il controllo del proprio arsenale di armi di distruzione di massa. Il Capo di Stato Maggiore Gantz avvertì che sarebbe stato difficile individuare la più opportuna delle azioni da intraprendere, infatti «se agisci a grandi linee potresti ritrovarti abbastanza presto in una campagna più ampia di quella che avevi pianificato. Noi dovremmo prendere in considerazione ciò che rimarrebbe dopo l’azione e in quali mani cadrebbe». È probabile che il Capo di Stato Maggiore intendesse affermare che se Israele avesse intercettato il trasferimento di armi di distruzione di massa del regime di Assad a Hezbollah, o lanciato un raid contro Hezbollah, questo avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un conflitto a pieno titolo tra Israele e Hezbollah.
L’amministrazione Obama lanciò un severo monito al regime di Assad se avesse usato le armi chimiche contro la sua popolazione, avvertendo che ci sarebbero state delle conseguenze.
Il secondo problema riguardava la diretta partecipazione dell’Iran alla guerra civile siriana. Nelle precedenti fasi della crisi siriana, l’Iran aveva apertamente sostenuto la Siria, cercando, tuttavia, di nascondere la parte attiva giocata dalle truppe iraniane nei combattimenti. Questo è cambiato nell’estate del 2012 come parte di un più ampio sforzo iraniano di fare dell’Iran una forza proattiva, un potente attore regionale, invece che l’obiettivo passivo di un raid americano o israeliano. Per questa ragione, Mohammad Ali Aziz Ja’fari, Comandante dei Guardiani della Rivoluzione, ammise che membri della forza militare Quds erano presenti in Siria. Fu su questo sfondo che Israele annunciò all’inizio del settembre del 2012 che l’esercito israeliano aveva condotto delle esercitazioni militari sulle Alture del Golan, esercitazione notificata al Governo Siriano attraverso «canali appropriati», in anticipo, in modo da evitare un allarme e un travisamento. Potrebbero esserci stati altri motivi per tenere questa esercitazione in un periodo così particolare, ma era evidentemente un messaggio sia per l’Iran sia per la Siria.
È interessante soffermarsi anche sulla percezione dell’opinione pubblica israeliana della crisi siriana. Per un Paese noto per il vivace dibattito pubblico delle élite politiche, la crisi siriana è passata inizialmente invece in secondo piano. La comunità politica e i media israeliani hanno seguito lo svolgersi della crisi in Siria da vicino e l’hanno coperta ampiamente, ma non nel contesto di un evento così importante da avere profonde ripercussioni in Israele; i politici hanno fatto, nel complesso, poche e non attente dichiarazioni sulla crisi. Il senso comune per cui Israele aveva poca influenza sugli eventi in corso, che lo stesso corso degli eventi era incerto, e in ultimo che l’impatto finale su Israele non era chiaro spiegano la reticenza riscontrata nei media e tra i politici israeliani.
Due tematiche significative emergono in modo evidente dal discorso israeliano sulla Siria durante questo periodo: il problema dell’accordo di pace e il ritiro dalle Alture del Golan. Chiaramente, i due problemi furono sospesi per il momento; la guerra civile in Siria doveva avere termine e doveva essere formato un nuovo Governo prima che le due questioni fossero messe di nuovo all’ordine del giorno. Ma gli oppositori di questa posizione, e i critici della volontà dei quattro Primi Ministri di ritirarsi dal Golan come parte di un accordo di pace con la Siria non persero tempo, enfatizzando la giustezza della loro posizione data la guerra civile in Siria.
Non è stato sorprendente leggere e ascoltare l’articolazione di questa posizione nell’ala destra dello spettro politico israeliano, ma la più eloquente denuncia retrospettiva dell’accordo non raggiunto con la Siria è stata scritta da un influente giornalista di centro, Ari Shavit. È interessante leggere un lungo brano del suo articolo[1]: «A nessuno piace ammettere di aver sbagliato. Neanche a me, ma a volte non hai scelta.
Di recente sono salito a Nord per lo Shabbat. Ho passato ore a guardare le montagne delle Alture del Golan mentre si arrossavano verso la sera. Ma lentamente il puro piacere è stato sostituito da un profondo disagio. Non potevo fare a meno di pensare a cosa sarebbe successo oggi se la posizione ideologica che io ho tenuto per lungo tempo – pace in cambio del Golan – fosse stata accettata. Pensare a che cosa sarebbe successo oggi se Ehud Barak non avesse lasciato la carica prima di Hafez Assad nel 2000, o se Ehud Olmert non fosse stato interrotto prima di affrontare Bashar Assad nel 2008. […]
Ho scritto incessantemente sul giornale e parlato in televisione sulla necessità di raggiungere un accordo di pace per il Golan. Ho spinto per la pace con la Siria con tutte le mie forze. La visione opposta sembrava irragionevole e immorale. Gli oppositori sembravano uomini pericolosi. Mi sono arrabbiato con Yitzhak Shamir e Ariel Sharon per aver bloccato il dialogo con la Siria e bloccato Israele. Ero convinto che un giorno la storia li avrebbe condannati per il loro rifiuto e trattati come tratta Golda Meir, Moshe Dayan e Yisrael Galili.
E ora, tutto è stato capovolto. È stato tutto invertito.
Se avessimo avuto la pace negli anni Duemila, allora oggi avremmo già avuto un bagno di sangue. Se fossimo andati a letto con Assad una decina di anni fa, oggi ci saremmo svegliati con la jihad. Se avessimo rinunciato a Katzrin e a Snir, avremmo il terrore a Dan e a Dafna. Una strana sostanza sarebbe corsa negli affluenti del fiume Giordano. Frequenti scontri a fuoco sarebbero esplosi a Tel Katzir e Ha’on.
Il Golan Siriano si sarebbe trasformato in un buco nero molto più pericoloso del buco nero del deserto del Sinai. L’idea della pace, che potrebbe essere stata corretta a suo tempo, si sarebbe trasformata in una realtà da incubo difficile da tollerare. Prima o poi, Israele sarà costretto ancora una volta a risalire a Tel Faher e a Nafah e a continuare per Quneitra. Ma questa volta tale operazione porterebbe a sbarramenti di missili su Tel Aviv. La pace in cui io ho creduto e per cui ho combattuto si sarebbe trasformata in un’enorme guerra in cui migliaia di persone sarebbero state uccise».
La percezione dell’opinione pubblica israeliana riflessa nell’articolo di Shavit non era modellata dalla sola crisi siriana. L’impatto della guerra civile siriana sull’atteggiamento del pubblico israeliano riguardo al tema «terra per pace» era amplificata dalla svolta simultanea degli eventi in Egitto. Il nuovo regime in Egitto non aveva abrogato il trattato di pace con Israele, come richiesto da alcuni dei suoi predecessori, ma aveva introdotto una serie di ambiguità che riguardavano il suo futuro. Inoltre, la penisola del Sinai, originariamente un’efficace barriera di sicurezza tra Israele ed Egitto, ora ospitava una popolazione beduina fuori dal controllo del Cairo ed elementi jihadisti che effettuavano attacchi terroristici contro Israele. Nell’ambito delle più grandi tendenze generate dalla primavera araba, questi sviluppi rinforzavano la preferenza del Governo e dell’opinione pubblica di Israele per mantenere uno «status quo» territoriale.
Ai margini del discorso pubblico israeliano, la guerra civile siriana ha ravvivato un interesse tradizionale nella «politica delle minoranze» che risale alla politica sionista pre-statale. Disperando di trovare un accordo con l’«establishment» arabo-sunnita della regione, i sionisti e i successivi leader politici israeliani hanno cercato di costruire delle partnership con minoranze etniche e religiose come curdi, drusi e maroniti. Questi sforzi avevano prodotto dei risultati insoddisfacenti e il complesso di presupposti che ne erano alla base sembravano essere stati eliminati dal trattato di pace con l’Egitto e dal processo di pace degli anni Novanta. Se Israele stava diventando una realtà accettabile per gli Stati Arabi della regione, vi era ancora la necessità di raggiungere i gruppi minoritari?
Tali opinioni erano strettamente correlate all’idea che la Siria fosse solo uno degli Stati della Mezzaluna Fertile che avrebbe potuto disintegrarsi sotto il peso dell’etnia, dei conflitti religiosi e settari. Per questo, un esperto commentatore israeliano aveva descritto, dopo un «briefing» con un ufficiale delle Forze di difesa di Israele, un contesto nel quale «la Siria sarebbe stata divisa in poche aree sotto differenti controlli»: «Ciò che è significativo è il fatto che la Siria stia diventando l’esempio più estremo del nuovo mondo che circonda Israele. Gli Stati Nazionali, alcuni dei quali (il Libano, ad esempio) erano creazioni coloniali artificiali mentre altri avevano una lunga storia, si stanno indebolendo e alcuni si stanno disintegrando. Il pericolo di una guerra su larga scala, che implica la conquista di territorio israeliano, scompare insieme allo smantellamento di questi Paesi. Ma si creano invece nuovi pericoli: pericoli che sono, per natura, oscuri, decentralizzati, molto più difficili da decifrare. Eppure l’intensità di questi nuovi pericoli è tanto grande quanto quella dei pericoli che siamo abituati a considerare come minacce esistenziali da molti decenni»[2].
Lo stallo del processo di pace e l’impatto della primavera araba così come l’apparente frammentazione di Stati quali l’Iraq e il Libano hanno suggerito la prospettiva di un nuovo rimpasto del contesto geopolitico della Mezzaluna Fertile. Tuttavia, il tema degli alauiti e del separatismo curdo portava gli analisti israeliani a ponderare la prospettiva di un nuovo ordine regionale.
Con l’evoluzione della guerra civile in Siria nel 2011 e nel 2012, Israele ha dovuto confrontarsi con due pericoli: la vittoria e la sconfitta del regime siriano. Una vittoria, soprattutto con il sostegno dell’Iran, avrebbe ancorato il regime ancora più saldamente nell’orbita di Teheran. Una sconfitta sarebbe stata un duro colpo a quello che è stato definito «l’asse della resistenza» – ma la vittoria di Israele sarebbe stata una vittoria di Pirro, se i gruppi islamici radicali, inclusi i jihadisti, si fossero impadroniti della Siria. Questa minaccia sembrava particolarmente grande in un momento in cui la Fratellanza Musulmana governava l’Egitto e «la primavera araba» era ancora conosciuta come tale, una sfida a governanti di altri Stati come la Giordania, vicino e partner di Israele.
Senza una sola buona opzione strategica, il Comando Nord dell’esercito israeliano ha modellato la risposta iniziale del Paese, cercando di prevenire, per quanto possibile, l’erosione della sua posizione. Israele ha annunciato una serie di «linee rosse» progettate per garantirne la sicurezza del fronte interno e rafforzare la stabilità degli Stati adiacenti. Anche se le sue «linee rosse» a volte si sono sovrapposte agli interessi di un altro «stakeholder», Israele considerava neutrale la sua posizione; attori esterni, tuttavia, consideravano Israele come già schierato.
All’inizio vi erano tre «linee rosse», con una quarta aggiunta poco dopo. Le prime due riguardavano Hezbollah. Israele ha chiarito che avrebbe impedito alle milizie sciite di portare in Libano delle armi che avrebbero cambiato lo «status quo», la cui definizione è cambiata nel tempo, e la costruzione e l’acquisizione del controllo di infrastrutture offensive attraverso la linea di armistizio nel Sud-Ovest della Siria, compresi i bunker dell’esercito siriano e le basi direttamente sotto il controllo dell’opposizione. La terza linea riguardava i consiglieri delle guardie rivoluzionarie iraniane, le milizie sostenute dall’Iran o da chiunque altro.
Dopo la guerra tra Israele e Libano del 2006, lo Stato Ebraico e Hezbollah si prepararono per il successivo round, raggiungendo un equilibrio relativamente stabile basato sulla reciproca deterrenza. Hezbollah ha introdotto delle armi iraniane in Libano attraverso la Siria; lo Stato Ebraico ha interrotto il trasporto a intermittenza per timore di provocare un’«escalation». Israele tendeva a colpire quando le armi erano considerate significative (missili a lungo raggio e di alta precisione) e in condizioni strategiche ideali. Quando gli Hezbollah sono divenuti parte attiva nella guerra in Siria, tuttavia, Israele ha iniziato a colpire in modo più aggressivo per impedire alla milizia sciita di utilizzare la guerra per mascherare l’acquisizione di armi capaci di modificare lo «status quo».
In secondo luogo, Israele aveva dichiarato la sua intenzione di bloccare la creazione di un’infrastruttura offensiva ad Est del Golan occupato, da parte sia dei combattenti Hezbollah che degli alleati iraniani o di forze collegate ad al-Qaeda o allo Stato Islamico (ISIS). Israele temeva che l’Iran e i suoi partner si trincerassero in adiacenza alla linea di armistizio, consentendo l’apertura di un nuovo fronte in cui i civili libanesi (in particolare i sodali di Hezbollah) sarebbero stati fuori dalla linea del fuoco; Israele avrebbe avuto giustificazioni insufficienti, dal punto di vista del diritto internazionale, per attaccarli, per questo gli ufficiali dell’esercito temevano di rispondere prontamente in Libano. Un ufficiale israeliano ha indicato negli attacchi del gennaio del 2015 (durante i quali un importante personaggio di Hezbollah, Jihad Mughniyeh, insieme a molti altri membri dell’organizzazione e un ufficiale iraniano fu ucciso) e in quelli del dicembre del 2015 (quando fu ucciso Samir Quntar, ex detenuto rilasciato nel 2008, divenuto una figura di spicco nell’organizzazione) i casi più salienti per far rispettare la linea rossa. Questi attacchi erano solamente due delle venti azioni di risposta di Israele agli attacchi di Hezbollah dopo lo spiegamento di questa organizzazione in Siria. Dopo l’intervento militare della Russia nel settembre del 2015, gli ufficiali israeliani credevano importante la creazione di una zona cuscinetto – libera da qualsiasi nemico, compreso l’esercito di Assad, che hanno considerato come un’estensione di Teheran – di circa 20 chilometri: dopo il dispiegamento della Russia, e quando l’Iran e i suoi alleati hanno preso in mano la conduzione del conflitto, gli ufficiali israeliani hanno iniziato a chiedere una zona cuscinetto di 60 chilometri, e anche se a malincuore, venivano a patti con una presenza militare siriana all’interno di quella zona.
La terza linea rossa di Israele era il fuoco nemico verso il territorio nazionale: Israele, se minacciato, avrebbe risposto, indipendentemente dal responsabile o dall’intenzione. Fino al settembre del 2016, la politica di Israele era quella di reagire contro il regime nel caso che vi fossero stati degli attacchi diretti contro la sua sovranità nazionale. Ma quando i ribelli, sotto pressione, hanno iniziato a sparare contro Israele per provocare una risposta, Israele ha iniziato a rispondere con le armi.
La quarta line rossa non fu mai annunciata come tale. A metà del 2015, quando una coalizione di ribelli siriani si mosse verso Sweida e Jabal Druze sul confine Sud-Occidentale con la Giordania, e Jabhat al-Nusra, poi affiliata siriana di al-Qaeda, si spostò verso Nord da Quneitra, Israele ha messo in guardia i ribelli siriani dall’attaccare la popolazione drusa della zona, in particolare nel villaggio di Hader, vicino alla linea di armistizio. Il Primo Ministro Israeliano Benjamin Netanyahu annunciò di aver incaricato l’esercito di prendere tutte le misure necessarie per proteggere i residenti del villaggio. Questa linea rossa di fatto non ha mai raggiunto lo stesso grado di prominenza delle altre perché il rischio di ritorsioni sulla popolazione drusa del villaggio svanì rapidamente, emergendo nuovamente soltanto nel novembre del 2017. La leadership politica di Israele si è sentita costretta ad impegnarsi in questa azione data la forte pressione della propria popolazione drusa, che presta servizio nell’esercito israeliano ed è legata alla popolazione ebraica di Israele da quello che chiamano un «patto di sangue»; per questo, molti drusi israeliani ne rivendicano l’estensione anche alla difesa dei loro parenti in Siria.
Israele ha usato anche il «soft power» per proteggere il suo confine. Dal 2013 ha fornito aiuti – cibo, vestiti, coperte, assistenza medica per adulti e bambini – per i residenti della stretta fascia di territorio all’interno della Siria, ad Est del Golan occupato da Israele. Il territorio siriano che confina con la linea di armistizio è controllato da diversi gruppi e alleanze: Jaysh Khalid bin al-Walid (precedentemente Katibat Shuhada al-Yarmouk, Brigata dei martiri), un’affiliata dell’ISIS, nella parte meridionale del governatorato di Quneitra; Jabhat al-Nusra (ora parte di Hei’at Tahrir al-Sham e precedentemente affiliato siriano di al-Qaeda) e altre forze di opposizione, lungo il tratto centrale della linea di armistizio (compresa la città di Quneitra); il regime e gli Hezbollah.
Israele ha focalizzato la fornitura di aiuti nelle vicinanze di Quneitra per minimizzare i benefici per Jaysh Khalid ed Hezbollah. Alcuni nativi rimangono in questa zona centrale, oltre a centinaia di migliaia di sfollati interni, in particolare da Daraa e Damasco, arrivati in numero particolarmente elevato nel 2014 (e più recentemente a fine giugno del 2017) quando i combattimenti si intensificarono a Daraa. Migliaia di sfollati si sono trasferiti nei campi adiacenti alla linea del cessate il fuoco siro-israeliana, per lo più all’interno della zona cuscinetto, ritenendo che l’ONU e la vicinanza di Israele avrebbero garantito un minimo di protezione.
Israele ha inviato aiuti umanitari, compreso un ospedale da campo, ai profughi. Alcuni aiuti (ad esempio farina per i panifici e materiale scolastico) hanno sostenuto delle comunità, dissuadendo i combattenti dallo sparare contro lo Stato Ebraico e migliorando l’opinione pubblica locale nei confronti di Israele. Gli ufficiali israeliani hanno sempre negato con veemenza che lo Stato Ebraico avesse fornito aiuto a gruppi jihadisti come l’ISIS e al-Qaeda.
Israele ha adottato una posizione più assertiva alla fine del 2012, quando gli Hezbollah si sono schierati in Siria, e in particolare dal maggio del 2013, dopo che il gruppo sciita aveva vinto una battaglia chiave ad al-Qusayr, un villaggio vicino al confine libanese che è strategicamente posizionato accanto all’autostrada che unisce Damasco a Homs e alla costa siriana. L’entrata di Hezbollah nel conflitto ha esteso la decennale battaglia di Israele contro il gruppo nel territorio siriano ed ha comportato l’interconnessione di tre conflitti finora separati: tra Israele e Siria, tra Israele e Hezbollah, e tra le varie parti coinvolte nella guerra civile siriana.
In Siria, combattendo per l’esistenza del regime, Hezbollah ha avuto un accesso più facile alle armi, compresi missili di maggior portata, potenza e precisione. Di conseguenza, è migliorato il suo arsenale al punto che il concetto di Israele su ciò che costituisce «un cambio di gioco», le armi – del tipo che Israele ha tentato di bloccare – è cambiato. Israele ha rinunciato, in gran parte, ad interdire i missili a lungo raggio, detenuti in gran numero da Hezbollah, e si è impegnato ad impedire l’acquisizione di armi di precisione da parte del gruppo, che consentirebbero a Hezbollah di attaccare i siti più sensibili di Israele, come il centro di Tel Aviv, l’aeroporto Ben Gurion e gli impianti di estrazione e produzione del gas. Gli ufficiali israeliani sono convinti che la prossima guerra con Hezbollah esigerà un pesante tributo sul fronte interno, per questa ragione Israele difende con vigore la sua nuova «linea rossa». Dall’incursione del 30 gennaio del 2013, la prima volta in cinque anni che l’aviazione israeliana ha effettuato un attacco in Siria, lo Stato Ebraico ha lanciato quasi 100 attacchi aerei.
Lo spiegamento di Hezbollah in Siria ha anche creato la possibilità che ad un certo punto le sue forze si spostassero a Sud. Quando queste forze hanno fatto proprio questo in coordinamento con il regime nel febbraio-marzo del 2015, sei mesi prima dell’intervento militare della Russia, Israele ha deciso di impedire ad Hezbollah e alle altre milizie filo-siriane di conquistare del territorio nelle vicinanze della linea di armistizio Israele-Siria, per il timore che scavassero dei bunker o erigessero delle batterie missilistiche. Il piano dello Stato Ebraico, nel caso che la campagna del regime siriano avesse avuto successo, era quello di creare una «no-fly zone» o una zona cuscinetto di 20 chilometri all’interno della Siria. Un ufficiale israeliano ha spiegato che il non attuare una simile operazione avrebbe danneggiato gravemente la posizione strategica di Israele, conducendolo in una guerra non voluta. Ma quando i ribelli hanno contrattaccato e spinto verso Nord nell’aprile del 2015, i piani che Israele aveva progettato non erano più necessari.
I ribelli siriani hanno conquistato quasi tutto il governatorato di Idlib nella prima metà del 2015 e minacciavano di avanzare verso Lattakia e verso Sud attraverso la pianura di Ghab per collegarsi con le aree dei ribelli della campagna di Hama e Homs. Giudicata la situazione critica, il regime siriano e il suo alleato iraniano hanno cercato e ricevuto aiuti militari da Mosca a luglio. Per facilitare il suo dispiegamento, la Russia ha costruito una base aerea a Hmeimin, a Sud-Est di Lattakia, sul Mediterraneo. Le forze russe includevano carri armati T-90, artiglieria, navi da guerra, consiglieri militari e forze speciali. Il mese successivo, Mosca ha iniziato a spostare le forze verso Lattakia ed ha istituito una sala operativa congiunta con Iran, Iraq e Siria, a cui si sarebbe presto unito Hezbollah, con l’obiettivo apparente di combattere l’ISIS. Il 30 settembre, la Camera Alta della Duma, il Parlamento Russo, ha autorizzato le operazioni militari in Siria; i primi attacchi aerei si sono verificati poche ore dopo il voto.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è volato a Mosca il 21 settembre, alcuni giorni prima dell’intervento russo, per stabilire un coordinamento israelo-russo e, successivamente, un meccanismo di accordo per prevenire gli incidenti. Questo meccanismo comprendeva una «hot line» tra il quartiere generale delle Forze di Difesa di Israele a Tel Aviv e la base aerea russa di Hmeimim, una diretta comunicazione tra i vice capi dello staff russo e israeliano e consultazioni regolari ai più alti livelli dei rispettivi apparati di difesa. La «hot line» ha dimostrato la sua importanza quasi immediatamente, infatti, a fine novembre del 2015, Israele ha evitato di sparare ad un aereo russo che sorvolava il Golan.
L’intervento della Russia ha spostato presto la guerra a favore di Assad, fermando il movimento dei ribelli. Alla fine del 2016, divenne sempre più chiaro che il regime siriano non sarebbe stato sconfitto e che, al contrario, avrebbe continuato a cercare di riprendersi il controllo di tutta la Siria. Il successo dell’intervento russo ha deluso le aspettative degli ufficiali israeliani (aspettative già deboli durante il mandato dell’amministrazione Obama) che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato maggiormente i ribelli per controbilanciare il sostegno russo al regime.
Oltre che cambiare il corso della guerra, l’intervento russo ha introdotto quattro dilemmi strategici per Israele e ne ha limitato le opzioni per affrontarli: 1) ha permesso ad Hezbollah e all’Iran, i nemici più potenti di Israele, di espandere le loro aree di operazione e avanzare fino alla linea di armistizio. Era stata la Russia a permettere la riconquista del Sud della Siria da parte del regime di Assad, ma il risultato era il medesimo: Hezbollah e le forze iraniane avrebbero raggiunto le Alture del Golan e vi avrebbero costruito delle infrastrutture offensive. 2) Ha limitato la libertà di manovra militare di Israele. Dopo che la Turchia, nel novembre del 2015, aveva abbattuto un aereo militare russo accusato di aver violato il suo spazio aereo, la Russia ha schierato i sistemi di difesa aerea S-300 e S-400 in Siria. Israele può contrastare il primo; il secondo, gestito solo da personale russo, rappresenta una sfida maggiore. La Russia ha aumentato le sue capacità di operare nel Paese, suggerendo l’esistenza di piani per una presenza più estesa che la farebbe divenire parte dello scenario militare regionale anche nel futuro, non adempiendo alle occasionali professioni di ritiro immediato. 3) Ha sollevato la possibilità che anche la campagna del regime per riconquistare la parte Est del Paese sostenuta dalla Russia aprirebbe un ponte terrestre dall’Iran al Mediterraneo. Sebbene non tutti gli analisti siano concordi, Israele ne vede l’importanza strategica; un simile corridoio potrebbe facilitare il trasferimento delle armi e delle milizie sciite e permetterebbe all’Iran di stabilire una presenza attraverso una vasta area, con le potenzialità per minacciare direttamente Israele. Tale corridoio fornirebbe a Teheran un’alternativa economica alla costosa spedizione via aerea, inoltre, renderebbe difficile per Israele rilevare e intercettare i convogli di armi. La Russia non è sembrata particolarmente preoccupata per questo aspetto e non ha offerto ad Israele alcun aiuto per prevenirlo.
Con forti probabilità che il regime e i suoi alleati riprendessero il controllo del territorio a Sud, Israele ha cercato di rafforzare le milizie anti-regime e di estendere la sua influenza sulla popolazione oltre la linea di armistizio. Come affermava un importante analista israeliano, lo Stato Ebraico desiderava avere un certo sostegno tra i residenti della Siria Meridionale per evitare un’aggressione da parte dei ribelli e legittimava, allo stesso tempo, il ruolo dei ribelli siriani come garanti del confine con Israele. Nel maggio del 2016, Israele ha ufficialmente aggiornato i suoi piani e l’esercito ha stabilito un’unità di collegamento con la Siria per migliorare l’erogazione di aiuti umanitari nel quadro più generale della sua politica di «buon vicinato». Nel 2017, l’esercito ha costruito una nuova clinica, ad Ovest della zona cuscinetto delle Nazioni Unite, che ha consentito a migliaia di persone di ricevere cure mediche ogni settimana senza attraversare la barriera israeliana all’estremità occidentale della zona demilitarizzata.
Nonostante questi investimenti, il «soft power» non è stato in grado di compensare l’indebolimento della posizione strategica di Israele. I più grandi nemici di Israele erano meglio armati e addestrati rispetto a prima, e in teoria godevano della protezione degli aerei russi. L’Iran stava operando in prossimità di Israele. Un ufficiale del Ministero degli Esteri Israeliano aveva affermato preoccupato che la Siria stava per diventare un protettorato russo-iraniano.
Questi sviluppi hanno costretto Israele ad aggiornare la sua politica delle «linee rosse». Ha continuato a bloccare il trasferimento di armi tecnologicamente avanzate ad Hezbollah, finora con la tacita approvazione della Russia. Gli ufficiali israeliani credono che nel complesso Israele sia riuscito a frustrare i tentativi di Hezbollah di contrabbandare armi di precisione in Libano, il che potrebbe spiegare perché il movimento ha cercato di creare una propria produzione di armi nel suo Paese d’origine. Secondo i militari israeliani, gli Hezbollah hanno fermato momentaneamente questi tentativi alla luce delle minacce di Israele. Israele non è più disposto a tollerare l’avanzata di Hezbollah e l’installazione di razzi avanzati a lungo raggio sulle montagne di Qalamoun, a circa 50 chilometri da Damasco. Le installazioni su queste montagne consentirebbero a Hezbollah di minacciare Israele, avendo meno preoccupazioni per le rappresaglie dirette dello Stato Ebraico.
Gerusalemme ha espresso il suo disappunto per la posizione della Russia nei confronti della presenza dell’Iran in Siria. La vittoria del regime nella zona Est di Aleppo ha reso chiaro che Assad sarebbe rimasto al potere, inoltre i negoziati di Astana nel maggio del 2017 hanno prodotto un memorandum iraniano-russo-turco sulle zone di de-escalation, incluso il Sud-Ovest. Dal punto di vista di Netanyahu, l’accordo presentava gravi carenze, in particolare per il fatto che legittimava il coinvolgimento militare dell’Iran e della Turchia in Siria (formalmente rendendoli garanti della de-escalation e, potenzialmente, dando loro un ruolo nel conflitto contro i gruppi jihadisti), e restava in silenzio su Hezbollah e le forze collegate all’Iran, consentendo loro effettivamente di mantenere una certa presenza nel Sud-Ovest.
Israele ha quindi aggiornato le sue «linee rosse», segnalando che avrebbe agito tempestivamente per impedire all’Iran di stabilire una presenza militare permanente in Siria. Queste «linee rosse» riguardanti l’Iran, che non sono mai cambiate ma sono divenute più dettagliate nel corso del tempo, includono: 1) nessun porto marittimo iraniano – termine usato in Israele per riferirsi alla necessità che non vi siano basi iraniane per le attività marittime nel Mediterraneo, il che consentirebbe ai sottomarini iraniani di minacciare la costa israeliana e gli impianti di perforazione del gas, considerati di importanza strategica. 2) Nessuna base militare iraniana permanente e nessuna presenza permanente di milizie sciite addestrate e comandate dall’Iran. Guardando oltre la fase attuale del conflitto, Israele non vuole che la Siria diventi una sorta di esercito iraniano stanziale, un «nodo» della strategia di «difesa avanzata» dell’Iran. Le migliaia di miliziani sciiti siriani stanziati stabilmente in Siria sotto il comando dei Guardiani della Rivoluzione Iraniani potrebbero emergere come una potente forza combattente simile a Hezbollah. L’«establishment» militare israeliano riconosce che i combattenti rimasti sotto il controllo e la protezione iraniani potrebbero complicare le operazioni di Israele in caso di conflitto. Israele ha effettuato almeno due attacchi aerei in Siria su una base militare iraniana in costruzione per dimostrare la sua risolutezza. 3) Nessun aeroporto iraniano, per garantire il monitoraggio delle forniture aeree di armi, milizie e truppe in Siria. L’Iran già sbarca aeroplani commerciali nella base aerea di Mezzeh vicino a Damasco; l’intelligence israeliana ha già evidenziato la facilità con cui sarebbe possibile colpire il territorio dello Stato Ebraico da quella base. Israele vuole evitare la costruzione di un aeroporto iraniano, o l’accesso dell’Iran a qualsiasi aeroporto da cui avrebbe mano libera, particolarmente nelle zone più lontane della Siria, dove sarebbe più difficile per l’intelligence capire i movimenti del nemico e da cui sarebbero possibili bombardamenti più lunghi. 4) Nessuna fabbrica di missili ad alta precisione. Questa restrizione vale sia per il Libano sia per la Siria. Israele crede che dopo che Hezbollah ha congelato il suo tentativo di costruire tali armamenti in Libano, abbia continuato a perseguire la costruzione di tali armi in Siria.
Mosca ritiene che queste «linee rosse» si estendano oltre le legittime esigenze di sicurezza di Israele, e ha respinto le istanze che coinvolgono l’Iran. La Russia tende a considerare gli Hezbollah in una luce positiva, generalmente ritiene gli interessi politici ed economici iraniani in Siria legittimi, così come rispetta i processi decisionali della Siria in quanto Stato sovrano.
Anche se Mosca fosse maggiormente ben disposta verso le posizioni di Israele, potrebbe non avere la capacità di costringere il partner iraniano ad accondiscendere a tutte le richieste dello Stato Ebraico. Anche quando i suoi interessi divergono da quelli di Damasco e Teheran, sembra difficile per Mosca ottenere da loro delle concessioni. In particolare, la Russia potrebbe beneficiare della presenza di alcune milizie supportate dall’Iran; un loro precipitoso ritiro, dato l’indebolimento delle forze siriane, potrebbe rendere il regime ancora più precario, aggiungendo nuovi oneri alla Russia.
Il Sud-Ovest della Siria presenta una sfida unica, data la vicinanza del territorio al Golan occupato da Israele. Nel luglio del 2017, gli Stati Uniti, la Russia e la Giordania, dopo lunghi colloqui, hanno negoziato il cessate il fuoco nel Sud-Ovest della Siria tra l’esercito iraniano e le forze di opposizione, che prevede anche la gestione congiunta di un centro di monitoraggio ad Amman. Nel novembre del 2017, gli stessi Paesi hanno deciso di delineare con precisione i territori in questione, stabilendo una zona di de-escalation controllata dall’opposizione e circondata da una striscia di terra di 5 chilometri controllata dall’esercito e con il libero accesso della polizia militare russa, in cui l’ingresso di «forze straniere o combattenti stranieri» fosse proibito. L’accordo tripartitico ha consentito di continuare i combattimenti contro l’ISIS.
Mentre il Primo Ministro Netanyahu ha stroncato in pubblico l’accordo, principalmente perché era stabilita una zona di cuscinetto troppo limitata a Sud-Ovest ed erano ignorati gli sforzi dell’Iran per stabilire una presenza militare permanente in Siria, gli Stati Uniti e la Russia avevano una posizione diversa: la posizione di Israele era stata considerata nell’accordo, nonché la sua sicurezza, e l’opposizione del Primo Ministro era solo a favore dell’opinione pubblica, probabilmente per richiedere un trattamento ancora migliore e mantenere la libertà d’azione contro una presenza iraniana nel Sud-Ovest oltre la zona di cessate il fuoco.
Non è sempre chiaro a che cosa si riferisca il testo dell’accordo, perché si menzionano genericamente le forze «straniere» invece che specificare l’Iran, Hezbollah o le milizie sciite. Il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che l’accordo si riferiva a tutte le milizie straniere, quindi includendo anche Hezbollah, ma non l’Iran, Stato che opera legalmente in Siria su richiesta del Governo Legittimo Siriano (secondo la Russia). Lavrov ha anche accusato gli Stati Uniti di sostenere le forze straniere più pericolose – un’allusione ai jihadisti che combattono dalla parte dei ribelli siriani appoggiati dagli Stati Uniti – e ha suggerito che la partenza delle forze non siriane dovrebbe avvenire in contemporanea.
Non è chiaro che cosa accadrà nella valle di Yarmouk e nell’enclave di Beit Jinn. All’inizio di gennaio del 2018, dopo mesi di intensi combattimenti, l’opposizione nell’enclave di Beit Jinn si è arresa al regime, che adesso controlla una zona triangolare all’intersezione dei confini siriani, libanesi e israeliani. Questa evoluzione significa che combattenti stranieri (incluso l’Iran), secondo i termini dell’accordo di luglio, possono ora essere stanziati a 5 chilometri dalla recinzione di Israele. Lo Stato Ebraico teme che Hezbollah capitalizzerà questo passaggio per installare un’infrastruttura offensiva sulle Alture del Golan. Più a Sud, secondo alcuni resoconti, gli Stati Uniti e la Giordania hanno concordato di spingere i ribelli ad attaccare i jihadisti nella regione di Yarmouk in cambio dell’accordo con la Russia per escludere Hezbollah dalla zona; non è chiaro se gli Stati Uniti intendano farlo anche nella prospettiva di interrompere il loro supporto ai ribelli. Come per le altre «linee rosse» di Israele, la questione pratica riguarda meno ciò che Israele pensa dell’accordo e più la capacità e la volontà della Russia di attuarlo. L’ambiguità dell’accordo e la fine delle ostilità in altre parti del Paese lasciano libero il regime siriano e i suoi alleati di focalizzarsi nuovamente, prima o poi, sull’area Sud-Ovest.
I vertici politici di Israele si sono dimostrati soddisfatti da ciò che hanno sentito sull’Iran da parte dell’amministrazione del Presidente Donald Trump. L’aspra retorica dell’amministrazione suggeriva che gli Stati Uniti pianificavano di frenare quella che consideravano l’aggressiva espansione regionale dell’Iran. Israele, che da tempo chiedeva una linea più dura da parte di Washington verso Teheran e i suoi alleati in Medio Oriente, ha applaudito questi toni più duri. Lo Stato Ebraico ha incoraggiato già nell’aprile del 2017 un bombardamento aereo americano in Siria dopo l’attacco chimico del regime a Khan Sheikhoun; l’offensiva degli Stati Uniti contro le forze del regime vicino ad al-Tanf il 18 maggio del 2017; il rifiuto di avallare l’accordo sul nucleare iraniano; nuove sanzioni contro Hezbollah; la denuncia dei ribelli Huthi nello Yemen; la determinazione, in coordinamento con l’Arabia Saudita, a ripristinare una deterrenza nei confronti dell’Iran. Dalla visita di Trump nel maggio del 2017 a Riyadh, la prospettiva di un’alleanza israeliana, sostenuta dagli Stati Uniti, con gli Stati Arabi nemici dell’Iran è apparsa più realistica.
Israele, tuttavia, ha rapidamente temperato le sue grandi aspettative nei confronti dell’intervento della Casa Bianca in Siria. Quando Trump proclamò, nel suo annuncio al popolo iraniano, che la sua amministrazione avrebbe lavorato con gli alleati per contrastare l’azione destabilizzante del regime iraniano e il supporto ai gruppi terroristici nella regione, Israele sperava che la Siria fosse tra i primi posti in cui la nuova amministrazione americana avrebbe agito con forza. Non era così. Durante il primo anno dell’amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno ponderato attentamente i propri interessi prima di affrontare l’Iran in Siria. Washington ha mostrato una scarsa inclinazione a sfidare le forze allineate all’Iran ad Ovest dell’Eufrate, deludendo profondamente Israele. Anche i recenti attacchi aerei, dopo i presunti attacchi chimici del regime a Douma, non stravolgono la linea politica statunitense che non presuppone un impegno diretto contro l’Iran, e meno ancora contro la Russia, avvertita in anticipo delle operazioni militari occidentali; è importante notare che Mosca non ha risposto agli attacchi anglo-franco-statunitensi, infatti la Russia non prevede l’uscita di scena di Bashar al-Assad ma nemmeno la sua centralità, per questo i rapporti tra il Presidente Siriano e Vladimir Putin sono meno idilliaci di quanto la propaganda siriana faccia credere.
Israele si trova in una situazione difficile dato che la Russia sembra destinata a rimanere in Siria per un tempo abbastanza lungo, un partner abbastanza fedele, anche se provvisorio, del regime, di Hezbollah e dell’Iran. Mosca ha cercato di bilanciare le sue preoccupazioni con quelle dello Stato Ebraico e trovare un «modus vivendi» tra le due parti. La Russia ha chiuso un occhio praticamente su tutti i 100 attacchi aerei israeliani degli ultimi cinque anni. Ma Israele nutre poche speranze che la Russia possa essere spinta ad andare oltre nei confronti dell’Iran.
Il calcolo politico di Israele si basa sulla corretta calibrazione dei bersagli, sulla deterrenza dei suoi nemici e sull’accurata lettura delle azioni di Hezbollah e dei suoi sostenitori, anche se questo potrebbe rivelarsi rischioso: il conflitto siriano è divenuto così complesso che qualsiasi scontro potrebbe intensificarsi rapidamente, negando ad Israele la possibilità di una guerra limitata.
Ulteriori complicazioni di questi calcoli strategici sono rappresentate dai rapidi sviluppi regionali e globali, che hanno ribaltato le regole convenzionali del gioco che avevano mantenuto più o meno la pace fino al 2006.
Recentemente, lo Stato Ebraico ha ammesso il bombardamento della base T-4 nella Siria Centrale, ad Est di Homs, aprendo così una nuova fase nel complesso conflitto siriano.
Un alto funzionario militare israeliano ha confermato il raid aereo al quotidiano statunitense «The New York Times». Secondo quanto riferito da questa fonte al giornalista del «New York Times», Thomas Friedman, «era la prima volta che attaccavamo obiettivi iraniani, comprese strutture militari e soldati». Ha anche evidenziato come il raid sulla base aerea T-4 vicino a Palmira, nel centro della Siria, fosse avvenuto dopo che l’Iran aveva lanciato a febbraio un drone carico di esplosivi nello spazio aereo israeliano. L’attacco ha preso di mira l’intero programma di droni iraniano presente nella base. I media di Teheran avevano riferito di almeno sette vittime tra i soldati iraniani, su un totale di quattordici morti provocati dal raid. L’incidente del drone è stato «la prima volta che abbiamo visto l’Iran fare qualcosa contro Israele e non per delega», ha detto il funzionario, secondo cui quell’attacco ha aperto una nuova fase nell’opposizione tra Israele e Iran.
In via ufficiale il Governo Israeliano non ha commentato la rivelazione del quotidiano americano ma fuori dall’ufficialità, e con la garanzia dell’anonimato, fonti di Gerusalemme vicine al Primo Ministro Benjamin Netanyahu hanno ribadito che «Israele ha fatto più volte presente, sia in vertici istituzionali che nelle relazioni fra servizi di intelligence, che i Guardiani della Rivoluzione Iraniani erano stati incorporati nella catena di comando militare siriana ai livelli più alti, e che l’Iran stava rafforzando la propria presenza militare in Siria. Questa è per Israele una minaccia diretta alla propria sicurezza, e quando questa è la posta in gioco, nessuno può impedire di esercitare il nostro diritto di difesa». Amos Yadlin, in precedenza capo dell’intelligence militare e attualmente direttore dell’Institute for National Security Studies all’Università di Tel Aviv, ha sollecitato un intervento «ufficiale», soprattutto dopo l’attacco chimico a Douma. Yadlin non usa solo argomentazioni militari, ma tocca argomenti molto sensibili per l’opinione pubblica ebraica: «È importante che Israele espliciti la sua posizione morale, a pochi giorni dal momento in cui commemoriamo la Shoah, e colpisca un assassino che non esita a usare armi di distruzione di massa contro la sua gente. In questo caso gli interessi strategici coincidono con un obbligo etico».
La rapida evoluzione degli eventi, che ha provocato una risposta immediata da parte israeliana, potrebbe condurre Israele verso un maggiore coinvolgimento nella crisi siriana e allo stesso tempo ampliare lo scenario di crisi, con conseguenze ad oggi imprevedibili per i futuri assetti geopolitici del Medio Oriente.
1 Ari Shavit, Soul-searching on Syria, «Ha’aretz», September 8, 2012.
2 Confronta Ofer Shelah, The limits of power,
«Ma’ariv», October 7, 2012.
Ofer Shelah, A Question for
Israel: What If Syria Becomes the Next Lebanon?,
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