L’Iran e la crisi siriana
Caratteristiche e finalità del coinvolgimento iraniano nella guerra civile in Siria

Dopo sette anni di guerra civile in Siria, l’Iran continua a giocare un ruolo chiave nel mantenimento di Bashar Al Assad al potere. Insieme con la Russia, l’Iran si è posto come «supporter» del regime siriano, unendo la coalizione anti-ribelli. La posta in gioco in Siria per l’Iran è elevata e il suo coinvolgimento ha fornito al regime delle grandi risorse per combattere l’insurrezione.

La strategia dell’Iran è passata attraverso diversi gradi di intensità, spostando la sua narrazione per trovare un ampio consenso nel suo ambiente politico interno. In effetti, il processo decisionale per quanto riguarda la sicurezza in Iran è un meccanismo complesso; il sistema della Repubblica Islamica, multi sfaccettato e gerarchico, potrebbe essere meglio descritto come un processo consensuale tra leader politici e militari. La strategia politica dell’Iran in Siria è, quindi, influenzata da diversi attori. La politica interna svolge un ruolo importante nella definizione della politica di sicurezza nazionale e soprattutto nell’attuale strategia in Siria. Gli interessi dell’Iran nel conflitto sono stati affrontati da molti esperti di politica internazionale e storici, tuttavia, a causa della mancanza di una posizione trasparente del Governo Iraniano, la valutazione della sua strategia risulta difficile ed ha spesso condotto ad un approccio frammentario. Pertanto, questo articolo si propone di tracciare un quadro storico e politico più omogeneo e chiaro dell’impegno della Repubblica Islamica dell’Iran in Siria.

Nel 2011 l’Iran ha accolto con entusiasmo l’ondata di proteste che avrebbe poi preso il nome di «primavera araba». La «primavera araba» rappresentava per l’Iran la possibilità di migliorare il suo potere strategico in tutta la regione. In ogni modo, la narrazione adottata per inquadrare le rivolte arabe mancava di una comprensione coerente. Quando l’insurrezione è esplosa in Egitto e in Tunisia, il leader supremo dell’Iran, Al Khamenei, è stato molto veloce nel qualificare le rivolte come un «risveglio islamico», creando un’affinità tra la rivoluzione islamica del 1979 e le lotte dei Paesi Arabi contemporanei. Inoltre, in una rara apparizione pubblica a Teheran durante la preghiera del venerdì, Khamenei dichiarò che si trattava di una guerra tra due forze di volontà: la forza di volontà del popolo e la forza di volontà dei suoi nemici. Israele e gli Stati Uniti erano i più interessati a ciò che sarebbe accaduto ai loro interessi in un regime post-Mubarak. Secondo Khamenei, la rinascita della rivoluzione islamica come paradigma interessante per la definizione delle rivolte arabe sarebbe stata rinforzata dalla «empatia divina» che avrebbe messo fine al dominio dei suoi principali nemici: i Sionisti e gli Americani.

Nel caso del Bahrain, l’Iran ha colto la possibilità di espandere la sua retorica islamica nella regione del Golfo. Mentre i funzionari iraniani erano stati molto cauti nel trattare le rivolte nel mondo arabo, evitando qualsiasi interpretazione settaria, la protesta nel Bahrain ha costretto l’Iran a mostrare apertamente la sua simpatia per le manifestazioni di piazza. Khamenei, nel corso di un sermone del venerdì, ha espressamente dimostrato il sostegno della Repubblica ai manifestanti, affermando che la rivoluzione nel Bahrain sarebbe stata vittoriosa con l’aiuto di Dio, inoltre che l’accusa di interferenza dell’Iran era una menzogna.

I media iraniani hanno evidenziato come le proteste nel Bahrain rappresentassero una grave minaccia per l’Arabia Saudita e le altre Monarchie del Golfo, che avevano immediatamente schierato le Forze armate nella capitale del Bahrain per fermare i disordini. Al Saud e altri Governanti del Golfo, tuttavia, temevano non soltanto l’effetto di una rivolta popolare, ma anche un’imminente vittoria iraniana. La presenza di una maggioranza sciita nel Bahrain ha dato luogo al sospetto che una vittoria degli insorti avrebbe costituito un successo anche per Teheran.

Il caso della Libia ha posto un altro problema importante per una narrazione unitaria della «primavera araba». Dall’inizio delle proteste, la Repubblica Islamica aveva optato con decisione per una narrazione del «risveglio islamico» che conducesse al rovesciamento dei regimi autoritari. Tuttavia, dopo l’intervento della NATO contro il regime di Gheddafi, l’Iran ha sposato una retorica anti-occidentale, condannando l’operazione come facente parte di una serie di eventi in cui l’Occidente, guidato dal suo malcelato interesse di ottenere il controllo del petrolio libico, ignorava il diritto internazionale.

Nel marzo del 2011 l’ondata di proteste che aveva plasmato la «primavera araba» raggiungeva il suo culmine in Siria. Le manifestazioni pacifiche nella città di Daraa, nella Siria Meridionale, in seguito denominata «culla della rivoluzione», sono state colpite da una violenta repressione da parte delle Forze di Assad. Il 6 marzo 2012, la detenzione e la tortura di 15 adolescenti, accusati di aver dipinto un graffito anti-Assad che chiedeva la caduta del regime, hanno suscitato numerose proteste in tutta la Siria. Pochi giorni dopo, il 18 marzo ha segnato l’inizio della rivoluzione siriana, quando il Governo ha deciso per sopprimere i disordini, dopo aver inizialmente utilizzato cannoni e gas lacrimogeni contro i manifestanti, di aprire il fuoco, uccidendo almeno quattro dimostranti.

L’Iran è stato colto di sorpresa quando i disordini hanno raggiunto la Siria. Bashar Al Assad era un leader popolare (soprattutto in confronto con i suoi omologhi di altri Paesi Arabi) e il suo Governo ed esercito includevano tutte le fedi e le classi sociali. Alla leadership iraniana si è presentato quindi un enorme dilemma. Dovendo inquadrare la rivolta siriana nel «risveglio islamico» avrebbe dovuto sostenere il rovesciamento del regime di Assad, come era stato per le altre rivolte arabe, ma ciò sarebbe costato all’Iran la perdita del supporto di altri Paesi Arabi così come la sua popolarità nel Medio Oriente; d’altra parte, l’ipotetico rovesciamento del regime di Assad, l’unico vero alleato arabo nella regione, avrebbe privato l’Iran dell’elemento più strategico del suo sforzo di proiettare la sua influenza sul Levante attraverso il sostegno a Hezbollah. Infine, l’Iran ha convenuto che la seconda opzione superava i benefici di appoggiare la fine del regime alauita.

Pertanto, con l’inizio della guerra civile siriana, la narrazione che l’Iran aveva cercato di promuovere durante la «primavera araba» presentandosi come campione degli oppressi, lontano da qualsiasi derivazione settaria, ha mostrato la sua incoerenza e tutti i suoi difetti. Il regime iraniano era consapevole del gioco d’azzardo che stava conducendo riguardo alla sua strategia di politica estera nella regione.

La componente religiosa del contesto siriano avrebbe avuto ripercussioni importanti nei Paesi vicini all’Iran, e in quelli in cui la Repubblica Islamica aveva interessi diretti. Mentre la guerra civile siriana è divenuta sempre più settaria, il Libano, a lungo sotto l’influenza siriana, già gravato da profonde spaccature confessionali, si è mostrato direttamente interessato al destino del regime alauita (una diramazione dello sciismo) e alle caratteristiche di un suo eventuale sostituto. Allo stesso modo, l’Iraq, che dall’invasione del 2003 guidata dagli Stati Uniti ha sofferto per la continua lotta tra gruppi sunniti e sciiti, poteva diventare ancora più settario in caso di vittoria dei gruppi di opposizione siriani sunniti che avrebbero potuto in seguito minare l’influenza iraniana nel Paese.

Di conseguenza, l’Iran doveva reagire alle minacce esterne con un atteggiamento difensivo piuttosto che plasmare l’equilibrio regionale con modalità offensiva. In effetti, la rivolta siriana ha costituito fin dall’inizio una grande minaccia allo «status quo» ideale per l’Iran, costringendo così la Repubblica Islamica ad impegnarsi in modo proattivo per ripristinare la situazione precedente. Non sorprende che la narrazione delle rivolte siriane in Iran per tutto il 2011 sia stata confusa e incoerente.

All’inizio della rivolta siriana, è emersa una contrapposizione all’interno dell’élite politica iraniana su come interpretare la crisi siriana. Il Governo conservatore guidato dal Presidente Mahmoud Ahmadinejad ha immediatamente abbracciato la narrazione del leader supremo, narrazione che enfatizzava il carattere «straniero» della guerra siriana. In particolare, la narrazione della rivolta siriana è stata permeata da una retorica anti-sionista che sottolineava la posizione storica della Siria nei confronti di Israele, così come dalla denuncia dell’attivismo degli Stati Uniti per minare il fronte della resistenza. Nel tentativo di mostrare una coerenza narrativa, i media conservatori hanno giocato un ruolo cruciale nel promuovere la linea dura, per esempio, trovando delle similitudini con le proteste post-elezioni del 2009 in Iran.

Tuttavia, l’opposizione riformista ha fortemente criticato l’interpretazione corrente accusando il Governo di due pesi e due misure. Mentre all’inizio della «primavera araba» l’Iran ha immediatamente abbracciato il carattere rivoluzionario delle rivolte invocando la caduta di dittatori di lunga data, nel caso della Siria il Governo Iraniano supportava il regime baathista. Inoltre, più diveniva evidente il supporto per Assad, più aumentavano gli oppositori del regime dentro e fuori l’Iran che chiedevano ironicamente quando l’Iran avrebbe supportato la volontà del popolo in Paesi i cui Governi avevano alleanze con l’Occidente, e non in quelli alleati con l’Iran.

Chiaramente, l’intera narrazione della rivoluzione islamica costruita dalla Repubblica Islamica è stata minata dalla sua posizione in Siria. Nel 2009 le proteste post-elettorali in Iran, lo slogan «né per Gaza né per il Libano, io darò la mia vita per l’Iran» era stato condannato dal Governo che lo aveva etichettato come anti-islamico e blasfemo. In Siria, l’Iran non è riuscito ad affrontare il secolarismo e il carattere non religioso dello slogan «Dio, Siria, Bashar», sollevando le critiche più dure all’interno del Paese. In particolare, le agenzie di stampa riformiste hanno significativamente contribuito nel mostrare l’incoerenza dell’Iran nel corso della rivolta siriana. Una delle critiche proveniva dall’ex Vice Ministro degli Esteri Mohammed Sayyed Sadr che aveva rilevato come l’Iran avrebbe dovuto sforzarsi di consigliare il Presidente Siriano Bashar Al Assad, nel tentativo di convincerlo ad ascoltare il suo popolo e ad attuare vere riforme. Per affrontare le obiezioni provenienti dall’interno da parte dell’opposizione iraniana e dalla società civile, le élite politiche dell’Iran, la cui principale voce era in ultima analisi il leader supremo, l’Ayatollah Khamenei, hanno forzato la narrazione cercando di identificare la rivolta siriana come una guerra per procura e una sedizione di ispirazione straniera.

Alla fine del 2011, l’Iran ha ospitato una conferenza sul «risveglio islamico» nel tentativo di avallare la sua posizione di protettore dei diritti dei musulmani e dei Governi «democratici».

Durante la conferenza, l’ex Presidente Iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha ribadito il carattere «straniero» della guerra siriana, esortando ad essere vigili, poiché l’Occidente stava cercando di fomentare conflitti settari come parte del suo obiettivo di mantenere in vita Israele.

In un discorso pronunciato alla conferenza del «risveglio islamico», Khamenei ha ulteriormente rafforzato il discorso di una presunta «penetrazione straniera», sostenendo che la guerra siriana era stata erroneamente interpretata come un conflitto tra sciiti e sunniti dalla propaganda occidentale al fine di minare il vero carattere della lotta: le due parti del conflitto in Siria non erano sciiti e sunniti, bensì i sostenitori e gli oppositori della resistenza anti-sionista. Né il Governo Siriano era un Governo sciita, né erano gruppi sunniti la resistenza laica e anti-Islam. Quest’ultima dichiarazione di Khamenei ha chiaramente sottolineato ancora una volta il carattere realista della politica estera iraniana. Anche se il leader supremo è un osservatore nel processo decisionale della politica estera iraniana, e anche se non è possibile ignorare la distinzione tra gli elementi religiosi della società iraniana, il leader supremo ha spesso dimostrato un grado di realismo compatibile con molte teorie di realpolitik, evidenziando l’inclinazione dell’Iran ad applicare, anche in Siria, un approccio prettamente pragmatico.

La raffigurazione occidentale di Bashar Al Assad come un dittatore sanguinario, è stata utilizzata dalla Repubblica Islamica, con l’aggiunta di un lotta geopolitica e strutturale, per l’intervento in Siria. La guerra è stata trasformata dalle élite iraniane in una guerra per procura che comprendeva attori regionali e internazionali come affermato dal rappresentante di Khamenei in Siria, Mojtaba Hosseini, che ha definito la crisi in corso una guerra per procura da parte dell’America e del regime che occupa Gerusalemme (Israele) e di alcuni Paesi Arabi come vendetta per la resistenza della Siria. È quindi chiaro che i media conservatori hanno svolto un ruolo fondamentale per aiutare il Governo Iraniano a raggiungere un notevole grado di consenso tra i responsabili di politica interna unificando la narrazione sulla Siria. Inoltre, dopo aver aperto la strada per affrontare la crisi in conseguenza dell’interventismo straniero, la lotta per la Siria è stata trasformata in una lotta geopolitica regionale accusando l’Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo coinvolti nel conflitto di sponsorizzare il terrorismo e favorire il sorgere di gruppi estremisti islamici.

L’evento più importante che ha aiutato sia Bashar Al Assad sia l’Iran a giustificare per il primo una campagna militare dura e il coinvolgimento in Siria per il secondo, è stato il sorgere dell’ISIS. Il vuoto di potere lasciato dalla sanguinosa guerra civile ha spianato la strada per la comparsa sulla scena di un nuovo gruppo sunnita estremista che ha destabilizzato la Siria.

Lo Stato Islamico era già operativo in Iraq prima di attraversare il confine a metà del 2011 per stabilire una presenza in Siria. Abu Bakr Baghdadi, dopo essere diventato il leader dello Stato Islamico nell’aprile del 2010 in Iraq, ha ricevuto una grande opportunità dall’inizio del conflitto siriano: espandere lo Stato Islamico nella vicina Siria. Pertanto, come la rivolta si è diffusa ed è divenuta più violenta, Baghdadi ha permesso a nove membri siriani del gruppo, guidati da Abu Mohammed Al Golani, di stabilirsi nel Nord della Siria a metà del 2011. Molto rapidamente Al Golani si è affermato come leader di un gruppo conosciuto come Jabhat al Nusra.

Mentre da un lato l’ascesa dello Stato Islamico in Iraq ha minacciato in modo significativo la sicurezza dell’Iran e la sicurezza di un Paese in cui l’Iran aveva lavorato con cura per portarlo sotto la sua sfera di influenza, la Siria, la comparsa sia dell’ISIS sia di Jabhat al Nusra, classificati come gruppi terroristici, ha costituito la scusa perfetta per giustificare la presenza della Repubblica Islamica al fianco di Bashar Al Assad.

Javad Zarif, Ministro degli Esteri Iraniano, ha colto l’occasione per rafforzare l’affermazione secondo la quale la guerra in Siria non era altro che una guerra per procura tra le potenze occidentali, accusando altresì l’Occidente di essere il responsabile della nascita dello Stato Islamico. Tuttavia, mentre l’Iran era pienamente consapevole della minaccia rappresentata dallo Stato Islamico in Siria e in Iraq, due Paesi in cui la Repubblica Islamica aveva un’alta posta in gioco, al fine di controllare la preoccupazione dell’opinione pubblica per la minaccia estremista derivante dalla situazione sui confini del Paese, i media nazionali iraniani hanno giocato un gioco molto calcolato nello sminuire il successo dello Stato Islamico. Infatti, nel luglio del 2014, quando l’ISIS ha fatto importanti conquiste territoriali sia in Siria sia in Iraq, i media hanno minimizzato il suo successo affermando che l’esercito iracheno aveva respinto l’ISIS, e che i combattenti del gruppo erano stati confinati in una piccola area in Iraq.

A questo proposito, come era stato per le narrazioni precedenti, anche quella sull’ISIS ha presentato molte carenze e contraddizioni. In primo luogo, il discorso sull’ISIS ha escluso i due anni in cui non era presente sulla scena siriana, così come i sei mesi di proteste pacifiche, minando, di conseguenza, le ragioni ufficiali dell’intervento dell’Iran in Siria. In secondo luogo, la narrazione sul terrorismo ha semplificato la guerra trasformandola in una disputa tra due blocchi, tra il regime di Assad e i suoi alleati, Iran e Russia da un lato, e il resto dei ribelli siriani dall’altro. Quest’ultimo approccio ha chiaramente evitato di ricordare che l’ISIS ha avuto molti scontri con i cosiddetti ribelli siriani e che, di conseguenza, la sua espansione è avvenuta a spese di questi gruppi di opposizione. Tuttavia, lo sviluppo della situazione in Iraq e l’ascesa dell’ISIS hanno offerto all’Iran l’opportunità di dimostrare di essere una forza importante in Medio Oriente, che dovrebbe essere riconosciuta come un elemento chiave per risolvere le crisi regionali.

Oltre a puntellare la narrazione sullo Stato Islamico, l’Iran ha avuto anche la possibilità di inquadrare la rivolta come un terreno fertile per la diffusione dell’estremismo sunnita. In particolare, la Repubblica Islamica, nel tentativo di trovare un approccio globale e coerente al suo discorso pubblico sulla Siria, ha accusato l’Occidente di sostenere l’Islamismo radicale per innescare una reazione settaria nella regione tra sunniti e sciiti e destabilizzare il Medio Oriente. Per esempio, l’Iran ha ricordato il supporto ai talebani in Afghanistan per contrastare il potenziamento della ex Unione Sovietica nella regione. Di conseguenza, in un’intervista del 30 agosto 2012, il Primo Ministro Siriano Wader Nader Al Halghi ha affrontato la crisi siriana sottolineando la componente del terrorismo ed evidenziando la presenza di gruppi terroristici stranieri.

Anche se le Guardie della Rivoluzione Iraniana hanno cercato di minimizzare qualsiasi connotazione settaria del ruolo dell’Iran in Siria, la Repubblica Islamica ha comunque rivolto dure critiche all’Arabia Saudita per il suo sostegno ai terroristi e ai gruppi jihadisti, come il Fronte Al Nusra e l’autoproclamato Stato Islamico. La guerra civile in Siria si è quindi trasformata in una nuova fase della lunga disputa tra l’Iran e l’Arabia Saudita, polarizzando il conflitto tra i sostenitori dell’Iran e dell’Arabia e sottolineando la frattura sciita-sunnita.

Anche se accusata di promuovere il settarismo, l’ideologia non sembra rappresentare la forza primaria dietro le azioni dell’Iran in Siria, piuttosto il settarismo è diventato un modo per l’Iran e i suoi rivali sunniti di difendere i loro interessi nella regione con un coerente grado di pragmatismo.

Tuttavia, è innegabile che, per quanto la politica estera iraniana rimanga pragmatica e realista, il coinvolgimento di Hezbollah, un gruppo sciita con sostegno iraniano, abbia aumentato la sensazione che la guerra siriana sia una disputa tra gli attori sciiti e sunniti per l’egemonia regionale. Allo stesso modo, la narrazione dell’Iran riguardo alla protezione dei luoghi sacri sciiti in Siria ha rafforzato la percezione generale che vede la presenza dell’Iran in Siria guidata dalla sua identità sciita, invece che da ragioni strategiche e razionali.

In quanto il più grande Paese Sciita, nel corso degli anni l’Iran è stato estremamente attento nell’usare la carta dell’identità sciita per perseguire i propri interessi nazionali e regionali. Durante la rivoluzione islamica, le radici sciite iraniane sono state ampiamente evidenziate dal leader delle rivolte, l’Ayatollah Khomeini. Tuttavia, negli anni successivi, il pragmatismo iraniano è subentrato all’aspetto ideologico; il contrassegno sciita della rivoluzione è stato sostituito da un più inclusivo discorso islamico, per questa ragione i leader dell’Iran hanno sottolineato il loro impegno per l’unità islamica, minimizzando il carattere sciita della Repubblica Islamica quando si trattavano questioni di politica e continuando ad esprimere una visione pan-islamica, contraria ai principi sciiti-centrici del fondatore della rivoluzione, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini.

Anche se l’Iran si comporta in un modo altamente pragmatico nelle sue relazioni con gli altri Stati, così come nel suo perseguire la sopravvivenza del Paese, i suoi fondamenti religiosi assumono un ruolo significativo nelle relazioni con i gruppi non statuali. In Siria, l’Iran sta perseguendo una politica estera che segue la sua politica di guerra antisimmetrica attraverso l’«empowerment» di gruppi alleati, piuttosto che un coinvolgimento diretto nei conflitti regionali. Di conseguenza, la presenza dell’Iran in Siria è stata molto legata alla creazione e alla formazione di milizie sciite per la lotta contro l’opposizione. Anche se l’Iran ha cercato di negare qualsiasi posizione settaria nel conflitto, i discorsi pubblici hanno fatto largo uso della retorica sciita, al fine di giustificare la presenza della Repubblica Islamica sul territorio siriano. La Siria è infatti sede di una cinquantina di siti considerati sacri per l’Islam sciita. In particolare, la moschea Sayyidah Zaynab, il santuario dalla cupola dorata, che si trova nei pressi di Damasco, è uno dei luoghi più sacri dell’Islam sciita al di fuori dell’Iraq e dell’Arabia Saudita. Ospita i resti di Zaynab, nipote del profeta Maometto e figlia di Ali, il quarto capo del Primo Impero Islamico e una delle più venerate figure dello sciismo.

La difesa del Santuario di Zaynab nei primi giorni della guerra è diventata una importante caratteristica della narrazione iraniana ed era giustificata dalla posizione che la moschea di Zaynab occupa nel mondo sciita, in particolare in Iran. Infatti Sayyeda Zainab è un punto geografico focale per il tentativo dell’Iran di estendere la sua influenza religiosa e politica tra gli sciiti; si stima che nel 2013 circa 202.000 turisti iraniani abbiano visitato il santuario.

Nel contesto della guerra siriana, l’appello per la difesa della moschea di Zaynab non solo ha reso il conflitto più settario, ma ha anche attirato, di conseguenza, combattenti sciiti volontari da tutta la regione. Molti combattenti sciiti hanno riferito di aver viaggiato in Siria per unirsi ai loro correligionari per proteggere i loro luoghi sacri.

Se, da un lato, la narrazione sciita ha contribuito a rafforzare le linee dei combattenti dietro l’Iran e di conseguenza dietro Bashar Al Assad, dall’altro si sono ulteriormente create delle domande sulle reali implicazioni della politica estera iraniana. Già nel 2003, dopo l’invasione americana dell’Iraq, grazie ad una vasta rete di fazioni sciite, l’Iran era stato in grado di utilizzare il sentimento anti-americano per forgiare un’alleanza con diverse milizie irachene, migliorando la sua presa politica sull’Iraq. Tuttavia, il basarsi su gruppi a maggioranza sciita, ha fatto aumentare le preoccupazioni delle potenze regionali sulla trasformazione dell’Iran in un attore settario.

Il crescente sostegno dell’Iran ai gruppi sciiti resta strumentale rispetto al fine che la sua politica estera pragmatica si propone: la sicurezza della rivoluzione islamica e la protezione delle frontiere. Di conseguenza, dopo il 2003 la presenza di centinaia di migliaia di truppe statunitensi in Iraq, per non parlare del vicino Afghanistan, era percepita come una minaccia per l’Iran. Come risposta, le Guardie delle Rivoluzione Iraniana hanno iniziato segretamente ad organizzare e formare piccole milizie sciite irachene e ad usarle per colpire le Forze degli Stati Uniti. Inoltre, le relazioni dell’Iran con i gruppi sciiti estremi, il gruppo sadrista per esempio, sono state stabilite in un momento particolare di insicurezza e per disinnescare i tentativi degli Stati Uniti di ridurre al minimo il ruolo dell’Iran nella regione. A lungo termine, la strategia principale dell’Iran intende costruire stretti rapporti con le fazioni sciite moderate che credono importante stabilire relazioni strategiche con la Repubblica Islamica.

Nella guerra siriana, l’Iran sembra stia utilizzando la stessa tattica adottata in Iraq, garantendosi un supporto più ampio e più possibilità di vincere il conflitto e lasciare Assad al potere. Il discorso religioso applicato alla Siria non è solo confinato alla difesa dei santuari sciiti. L’Iran, dal canto suo, ha messo molta enfasi sulla escatologia mahdista. In effetti, la figura del Mahdi è centrale all’interno dello sciismo e dei suoi vari rami. Oggi, la stragrande maggioranza degli sciiti segue lo sciismo dei dodici imam, un riferimento alla dinastia dei dodici imam iniziata agli albori dell’Islam da Ali ibn Abi Talib, cugino e genero del profeta Maometto. Secondo lo sciismo dei dodici imam, il dodicesimo imam, il cui primo nome è Mohammed, è ancora vivo, anche se si afferma che viva nascosto. Inoltre, ritiene che questo Mahdi o Imam nascosto riapparirà alla fine del tempo per ristabilire la giustizia e la pace sulla terra prima del giorno del giudizio. Particolarmente durante il primo mandato del Presidente Iraniano Ahmadinejad, il mahdismo ha assunto contorni politici, utilizzati da Ahmadinejad nel tentativo di migliorare la sua popolarità tra i religiosi iraniani.

In Siria, il ricorso alla figura del messia sciita è fortemente intrecciato con la necessità di giustificare ed elevare lo status delle Guardie della Rivoluzione Iraniana sul territorio siriano. Le Guardie della Rivoluzione costituiscono una forza militare primaria nelle mani dell’Iran per la sua lotta accanto a Bashar Al Assad. Nel corso della guerra, i funerali dei suoi membri sono diventati un espediente religioso per elevare la loro morte alla condizione di martirio e glorificare il loro sacrificio. Per fare ciò, le Guardie Rivoluzionarie hanno assunto il ruolo di «preparatori» del Medio Oriente per la venuta dell’Imam Al Zaman, spianando la strada per il suo ritorno. Inoltre, secondo l’Iran, le Brigate Quds hanno la funzione più importante a questo proposito, insieme con il leader supremo Ayatollah Khamenei e il popolo iraniano. Pertanto, la presenza delle Forze militari delle Guardie Rivoluzionarie in Siria rappresenta una condizione indispensabile per spianare la strada per il regno dell’imam nascosto, quindi, santificano i loro sforzi nella lotta contro il terrorismo. Inoltre, anche il comandante delle Brigate Quds, il Generale Qassem Soleimani è stato considerato un soldato dell’imam Al Mahdi, al fine di far rispettare la sua posizione e libertà d’azione come l’ufficiale che sovrintende ai ranghi più alti delle Forze militari iraniane.

Queste narrazioni sono state interpretate dai rivali regionali dell’Iran in Siria e fuori dalla Siria, come l’Arabia Saudita e l’organizzazione ombrello che rappresenta le migliaia di gruppi che combattono Assad, come un chiaro segno di caratterizzazione confessionale della guerra da parte della Repubblica Islamica. Al contrario, essi si adattano perfettamente allo schema di politica estera iraniana, che abusa dei sentimenti ideologici come strumento per perseguire interessi pratici.

Dall’inizio della guerra siriana, l’élite iraniana ha cercato di trovare una narrazione coesa per inquadrare l’impegno dell’Iran. Nel 2013 l’elezione del candidato riformista Hassan Rouhani dopo gli otto anni di mandato molto più radicale dell’ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad ha posto una sfida significativa per un’interpretazione unificante della rivolta siriana. Nel 2009, fu chiaro che le elezioni erano state truccate, e dopo la brutale repressione del Movimento Verde, quando le Forze di opposizione hanno protestato fermamente contro il risultato non democratico, Ahmadinejad ha fatto alcuni errori di calcolo fatali. Pensava che avrebbe potuto sfruttare la sua posizione e nominare i suoi fedelissimi in posti chiave, espellendo, al contempo, i nemici. Dopo la rivoluzione verde, Khamenei riteneva necessario Ahmadinejad per affrontare la crescente popolarità del Movimento Verde. Ahmadinejad pensava di poter diminuire il potere del leader supremo sfidando la teologia sciita e il ruolo dei chierici. I due avevano idee opposte circa il ruolo della Repubblica Islamica: la visione del leader supremo, il cui ideale non era altro che il mantenimento dello «status quo», e quella di Ahmadinejad, in cui il Governo Clericale è emarginato a favore del nazionalismo e del fervore religioso della popolazione. Perciò, le richieste audaci di Ahmadinejad riguardo al ruolo della Repubblica Islamica equivalevano alla blasfemia e hanno costituito una significativa minaccia per la sopravvivenza e la sicurezza del complesso sistema teologico dell’Iran post-rivoluzionario.

Nel 2011, prima della rivolta siriana, questa scissione all’interno della politica nazionale iraniana rischiava di diventare ancora più evidente. All’inizio del 2011, Ahmadinejad sembrava aver adottato la linea del regime, accusando l’Occidente di manovrare gli eventi in Siria per il proprio interesse. Infatti, nel giugno del 2011, la Guida Suprema aveva commentato la situazione in Siria, affermando che l’essenza del «risveglio islamico» nella regione era anti-sionista e anti-americana, nel caso della Siria, gli Stati Uniti e «le mani israeliane» erano evidentemente al lavoro. Tuttavia, alla fine dello stesso anno, le opinioni del Presidente sulla Siria sono cambiate inaspettatamente. Ahmadinejad ha esortato Assad a porre fine alla violenta repressione della popolazione siriana e a trovare un compromesso con l’opposizione al fine di raggiungere una soluzione pacifica. Lo stesso pensiero è stato espresso qualche mese dopo dall’Ayatollah Khamenei, che, anche se non si è astenuto dal sottolineare il ruolo degli Stati Uniti e dell’Occidente, ha adottato un approccio più temperato sul caso Siria: infatti, ha affermato che la posizione della Repubblica Islamica verso la Siria era quella di sostenere qualsiasi tipo di riforma che avesse giovato alla popolazione siriana e contrastato l’interferenza degli Stati Uniti e dei loro alleati nella politica interna del Paese.

Molti osservatori hanno considerato il voltafaccia di Ahmadinejad come un ulteriore tentativo di ridurre al minimo l’autorità di Khamenei. Tuttavia, pur essendo in disaccordo con il leader supremo, Ahmadinejad aveva altre scelte, invece che adottare la linea imposta da Khamenei. In particolare, questa mossa dimostrava non solo il grande potere del leader supremo, ma il relativo poco spazio di manovra che il Presidente deteneva. Inoltre, lo spostamento dell’Iran durante gli ultimi mesi del 2011 e i primi mesi del 2012 ha mostrato come il pragmatismo governi l’ideologia. Quando le rivolte sono divenute sempre più violente, l’Iran ha visto le sue fortune dissolversi su due fronti: la sua immagine di tutore della resistenza araba era messa a dura prova e il suo più importante alleato strategico regionale poteva essere abbattuto. Di conseguenza, il cambiamento della politica iraniana rappresentava un calcolo strategico per proteggere gli interessi della Repubblica Islamica e la sopravvivenza di uno dei suoi più preziosi alleati nella regione.

Nelle elezioni presidenziali del giugno del 2013, gli estremisti iraniani hanno dovuto abdicare in favore dei riformisti guidati da Hassan Rouhani. Pochi mesi prima, nell’ottobre del 2012, molte proteste in Iran condannavano l’impegno del Governo in Siria a fianco della brutale dittatura di Bashar Al Assad. I riformisti e i moderati, appoggiati dall’ex Presidente Iraniano Mohammad Reza Khatami e da Ali Shakouri-Rad, hanno alzato la voce contro la politica della linea dura in Siria. Di conseguenza, il cambiamento sembrava aprire un nuovo capitolo per l’Iran e la sua politica estera, in particolare in Siria.

Tuttavia, dal periodo post-elettorale, la politica riformista sulla Siria è cambiata drammaticamente. Mentre fin dall’inizio della crisi siriana, i riformisti hanno abbracciato la lotta in Siria fornendo un sostegno politico per il popolo oppresso, invitando il Governo Iraniano a porre fine al suo sostegno a Bashar Al Assad, dopo l’elezione di Rouhani, i moderati si sono allineati con la Guida Suprema e le Guardie della Rivoluzione. Infatti, il leader dei riformisti e Presidente Iraniano Hassan Rouhani ha ripetutamente promesso il suo sostegno incondizionato alla Siria e al suo Presidente alauita.

Vi sono molte ragioni alla base di questo cambiamento politico. In primo luogo, Hassan Rouhani divenne Presidente nel 2013 quando il Partito riformista non era più la forza di opposizione, rappresentando invece l’élite dominante. Come élite governante, i riformisti perseguivano la sopravvivenza e la sicurezza del Paese, tenendo contro di obiettivi realistici, piuttosto che seguire obiettivi ideologici. Pertanto, la guerra siriana era considerata un problema geopolitico più ampio alla luce degli interessi nazionali. Da un lato, i riformisti erano molto consapevoli del fatto che la caduta del regime di Assad avrebbe potenziato l’Arabia Saudita, rompendo l’equilibrio regionale tra l’Iran e l’Arabia Saudita a favore di quest’ultima. D’altra parte, la minaccia dell’ISIS incarnava l’argomento perfetto per riconquistare il sostegno internazionale nella lotta contro il molto più minaccioso e brutale Stato Islamico. In questo senso, i riformisti si sono impegnati, a livello internazionale, per la soluzione della questione nucleare in modo da alleviare il peso delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti. Di conseguenza, la Siria ha rappresentato per l’Iran la possibilità di trovare un accordo di compromesso sul suo programma nucleare, ed allo stesso tempo, un risultato positivo nei colloqui sul nucleare avrebbe dato all’Iran più libertà di azione in Siria dopo aver riacquisito la fiducia della Comunità Internazionale.

Un altro fattore che ha influenzato fortemente e, infine, dettato la presa di posizione dei riformisti sulla Siria è stata la voce del leader supremo, l’Ayatollah Khamenei. Infatti, nessun Partito politico osa mettere in discussione la linea imposta da Khamenei concernente la Siria. Al contrario, le autorità hanno arrestato o minacciato molti cittadini iraniani che avevano messo in dubbio il costoso avventurismo militare del regime all’estero a spese delle priorità nazionali. Eppure, i riformisti e i moderati hanno trovato un modo non esplicito per esprimere la loro opposizione anche se non supportata dai riformisti al potere. Per esempio, l’ex Presidente Rafsanjani, che durante il suo mandato ha rappresentato la perfetta realizzazione del pragmatismo, nel settembre del 2013 aveva inviato segnali chiari al Governo Iraniano; infatti, aveva affermato che il popolo siriano aveva sofferto molto durante gli ultimi due anni. Le prigioni traboccavano di persone e il Governo Siriano aveva addirittura trasformato gli stadi in prigioni.

Inoltre, nel giugno del 2016 Majid Ansari, Vice Presidente di Rouhani per gli affari parlamentari, ha apertamente ed esplicitamente criticato la linea dura. Dopo aver condannato il comportamento di Rouhani per non essere abbastanza rivoluzionario, Ansari ha invitato i sostenitori della linea dura a dimostrare il proprio zelo rivoluzionario andando in Siria e lottando per il regime di Assad. Infine, a partire dall’inizio del conflitto e specialmente nella sua fase iniziale, l’Iran ha cercato di presentare una visione politica unitaria sul caso siriano. Sebbene due diversi Presidenti abbiano affrontato la questione siriana, non sono avvenute delle variazioni significative in Iran.

Ahmadinejad, anche se in contrasto con la Guida Suprema, era inevitabilmente legato alla linea imposta dal precedente premier. Il predecessore di Rouhani dopo aver perso gran parte del sostegno politico e amministrativo nel periodo successivo alla Rivoluzione Verde non poteva fare altro che rimanere fedele alla linea di Khamenei. Rouhani, da parte sua, nel corso dei primi due anni del suo mandato, era stato molto impegnato nella ricerca di una soluzione positiva nei colloqui sul nucleare, per questa ragione il Presidente Iraniano non poteva permettersi di scontrarsi con l’Ayatollah in una fase così delicata per il futuro del popolo iraniano, che sopportava un pesante onere economico. Tuttavia, anche dopo l’accordo sul nucleare, Rouhani non sembrava aver deviato dalla linea dettata dalla Guida Suprema che mantiene l’ultima parola in materia di politica estera. Nonostante alcune chiare differenze tra i politici iraniani sul ruolo dell’Iran in Siria, la linea del leader supremo insieme con il ruolo delle Guardie della Rivoluzione Iraniana spegne tutte le voci dissenzienti.

Le politica interna e quella regionale dell’Iran sono altamente interconnesse. Nelle prime fasi della guerra, il tentativo dell’Iran di trovare una legittimazione popolare per il suo intervento all’estero rischiava di essere minato dalle differenti voci politiche. Infatti, l’analisi di cui sopra ha dimostrato come i Partiti di opposizione e i leader riformisti in Iran avessero minato il discorso dell’Iran sulla Siria. Molti hanno criticato la Repubblica Islamica per aver sostenuto la repressione violenta di Bashar Al Assad, invece di essere promotrice di un vero e proprio processo «bottom-up». In particolare, le dinamiche interne tra gli attori della sfera politica, i Partiti e la Guida Suprema hanno dimostrato come i riformisti, la voce principale dell’opposizione, dopo essere diventati il Partito al Governo, si siano allineati alla politica dettata da Khamenei. Nonostante queste sfide interne, la Repubblica Islamica ha sempre mantenuto un alto livello di pragmatismo. Sicuramente, Teheran ha dovuto affrontare molte incoerenze nella sua narrazione pubblica sulla Siria, ma la voce del leader supremo ha avuto la precedenza su ogni altro decisore.

Anche se Ali Khamenei nei suoi discorsi pubblici ha cercato di abbracciare la retorica anti-occidentale, d’altra parte ha evitato di invocare il carattere sciita dello Stato Iraniano in modo da non creare un’area di antagonismo con i musulmani sunniti nel conflitto. Inoltre, nel momento in cui l’ISIS è apparso sulla scena siriana, la lotta contro il terrorismo e la conseguente cooperazione con l’Occidente, vale a dire gli Stati Uniti, l’Iran ha mostrato la volontà di mettere da parte le ragioni ideologiche. Tuttavia, d’altra parte, la narrazione sciita considera la guerra civile siriana una battaglia per proteggere i luoghi santi sciiti a Damasco, rafforzando la percezione dell’Iran come attore offensivo e settario. Quest’ultima narrazione piuttosto che costituire effettivamente uno spostamento verso una politica estera più guidata dall’ideologia, è stata lo strumento perfetto per far avanzare la strategia militare iraniana nel contesto interno. Anche se sostituiti a volte da ragioni ideologiche, i «driver» principali della politica estera dell’Iran rimangono pragmatici.

Prima di valutare l’impatto degli sviluppi della guerra siriana sulla politica dell’Iran nel conflitto, è opportuna una rapida panoramica della dottrina militare iraniana, al fine di comprendere appieno la posizione dell’Iran nella guerra e se l’Iran si stia spostando verso un altro realismo offensivo, sebbene la dottrina militare iraniana sia stata in gran parte caratterizzata da una posizione difensiva.

Dopo il conflitto Iran-Iraq, che ha lasciato il Paese fortemente traumatizzato per il numero di vittime, l’Iran ha iniziato a sviluppare la sua strategia nazionale di sicurezza difensiva. Gli esperti militari hanno cominciato a prestare maggiore attenzione ai principi della moderna conduzione della guerra, come le operazioni combinate e congiunte. La «self-reliance» e la difesa da minacce esterne sono divenute il nucleo della politica di sicurezza dell’Iran. Dopo la fine del guerra con l’Iraq e durante tutti gli anni Novanta, l’Iran ha iniziato a ricostruire l’apparato del suo esercito nazionale. L’Iran ha avviato il suo programma di missili balistici per scoraggiare l’Iraq dall’attaccare la sua popolazione come negli anni Ottanta, e adesso le forze missilistiche strategiche iraniane sono elementi chiave per la sua strategia di deterrenza. Inoltre, la dottrina militare iraniana deve essere intesa come reazione alle minacce percepite nella regione.

Il conflitto Iraq-Iran ha dimostrato a Teheran che la Repubblica Islamica di recente formazione non aveva alleati in Medio Oriente, se non la Siria. Le potenze esterne hanno mostrato un grande livello di ostilità verso gli Ayatollah, fornendo così un forte sostegno alla causa di Saddam, supportandolo con armi e artiglieria pesante. Gli Stati Uniti e Israele sono diventati le principali minacce per la Repubblica Islamica.

Nel 2001 e nel 2003, in seguito all’operazione guidata dall’America per sconfiggere una volta per tutte il regime dei talebani unita all’operazione militare in Iraq per rovesciare Saddam Hussein, i fatti hanno convinto i leader iraniani che erano i prossimi sulla linea del fuoco. Di conseguenza, l’Iran ha prontamente ridefinito la propria strategia di sicurezza; le Guardie della Rivoluzione Iraniana hanno sviluppato dei concetti di difesa, come la Dottrina Mosaico, per sopravvivere all’invasione e alla fine espellere l’aggressore attraverso la guerriglia.

Il successo della rivolta sunnita in Iraq e la guerra per procura delle Guardie della Rivoluzione contro gli Stati Uniti hanno alleviato le preoccupazioni dell’Iran su un imminente e minaccioso attacco. Pertanto, la strategia militare iraniana ha ampiamente cercato di evitare qualsiasi scontro diretto e prevenire un’escalation di violenza, contraddicendo, di conseguenza, coloro che avevano qualificato l’Iran come uno Stato offensivo. Nel suo piano di visione ventennale, redatto durante la Presidenza di Khatami e pubblicato nel 2005, l’Iran ha ribadito i suoi obiettivi difensivi; il documento affermava che l’Iran sarebbe diventato più sicuro, indipendente e potente con un sistema di difesa basato sulla deterrenza su tutti i fronti e su larga scala, e grazie all’alleanza tra il Governo e la popolazione. Quest’ultimo elemento riflette la paura di interferenze esterne atte a minare la sicurezza interna; quindi, il documento pone l’accento sulla sicurezza per difendersi dalla sovversione straniera e per prevenire i potenziali effetti destabilizzanti degli investimenti economici stranieri.

Nel 2011 la rivolta siriana ha costituito un altro test importante per il processo decisionale di sicurezza nazionale dell’Iran. La perdita della Siria rappresenterebbe una grande minaccia per la sicurezza dell’Iran, in quanto l’eventuale caduta del suo alleato storico potrebbe portare tutti gli avversari dell’Iran ai suoi confini. A questo proposito, dall’inizio dell’insurrezione in Siria, l’Iran ha incanalato molti sforzi militari per mantenere Assad al potere, in modo da reagire a una minaccia esterna e definire i suoi interventi come mezzo per mantenere lo «status quo» e preservare i suoi interessi. Tuttavia, a seguito degli sviluppi sul terreno, l’approccio difensivo iniziale dell’Iran si è spostato verso una posizione più offensiva.

È opportuno soffermarsi sul ruolo del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Iraniana. Fondato dopo un decreto di Khomeini poco dopo la vittoria della rivoluzione islamica del 1978-1979, l’IRGC si è evoluto ben oltre le sue fondamenta originali come una guardia ideologica per il regime rivoluzionario nascente. L’IRGC è stato storicamente responsabile di proteggere il Paese da minacce esterne e interne. Le Forze Quds fanno parte dell’IRGC, anche se sono un corpo subordinato agiscono come organizzazione indipendente. In effetti, il Generale Qassem Soleimani, comandante delle Quds, risponde direttamente al leader supremo, bypassando il suo nominale superiore, il Generale Mohammad Ali Jafari. Inoltre, l’IRGC è composto da Forze navali, aeree e di terra. I componenti di tutte queste divisioni sono stati storicamente incaricati della difesa dei confini iraniani. Oggi, l’IRGC costituisce la principale forza militare nelle attività iraniane in Siria.

Comprendere il suo ruolo in Siria, di conseguenza, può aiutare a far luce sulle finalità dell’Iran nel conflitto e sull’evoluzione della sua dottrina militare. L’IRGC, o Pasdaran (Guardie), è stato fin dall’inizio della guerra responsabile di tutte le operazioni condotte dall’Iran sul suolo siriano. L’IRGC opera in Siria attraverso divisioni subordinate: le Forze di terra, le Forze Quds, il Servizio di intelligence, le Forze dell’ordine.

In generale, l’Iran sta operando in Siria su due fronti. In primo luogo, la missione di assistenza ha l’obiettivo principale di mantenere Assad al potere e sostenere le Forze del regime. In secondo luogo, la missione complementare comporta l’assistenza alle milizie filo-governative, vale a dire gli alleati che possono sopravvivere alla eventuale caduta del regime alauita. Questa strategia sembra essere in linea con l’idea di guerra asimmetrica, che si basa sulla formazione di gruppi alleati fuori dai confini dell’Iran per evitare operazioni di combattimento diretto, quindi sottolineando anche il carattere difensivo della politica militare iraniana in Siria. Tuttavia, la strategia dell’Iran in Siria non è rimasta la stessa. Variazioni sul campo di battaglia siriano hanno spinto l’Iran a intensificare le sue attività militari nel Paese e a rimodellare le sue tattiche di combattimento.

Nelle prime fasi della guerra, il ruolo dell’IRGC in Siria è stato limitato ad un ruolo consultivo. TAA (addestrare, consigliare, assistere) era l’acronimo utilizzato per definire i compiti del Guardie Rivoluzionarie in sostegno ad Assad. La missione di consulenza iniziale era caratterizzata dalla presenza di alti ufficiali dell’IRGC che sostenevano le operazioni di Assad. Di particolare importanza durante questa prima fase era il concepimento delle Forze di Difesa Nazionale, NDF, che si sono formate con l’aiuto delle Forze Quds dopo l’estate del 2012. Le NDF raccolgono esistenti milizie di quartiere con una gerarchia funzionante e forniscono loro attrezzature e formazione. Inoltre, il ruolo dell’Iran non era relegato solo all’addestramento. La Repubblica Islamica insieme al suo alleato libanese, Hezbollah, sta fornendo formazione ai membri delle NDF. Questo gruppo ha impedito ad Assad di mantenere la sua presa sulla parte centrale e meridionale della Siria.

Il personale dell’IRGC fino al 2014, secondo quanto sostenuto da fonti iraniane, è stato limitato ai volontari. Tuttavia, questa affermazione sembra essere solo un modo per il Governo Iraniano di minimizzare il suo ruolo nella guerra, mantenendo un coinvolgimento di basso profilo. Infatti, ciò ha permesso al regime di rendere plausibile la negazione del suo sostegno ad Assad che sarebbe stato impossibile con il dispiegamento regolare delle unità dell’IRGC.

L’Iran, inoltre, per la prima volta nella storia ha deciso di schierare le Forze di terra dell’IRGC. Il loro dispiegamento rappresenta un cambiamento notevole per le operazioni militari convenzionali e potrebbe essere un primo indizio della natura mutevole dei metodi di guerra della Repubblica Islamica.

Quando la posizione di Assad ha cominciato a deteriorarsi, l’Iran è diventato più assertivo nelle sue operazioni militari. Gli sviluppi sul terreno stavano evolvendo in favore dell’opposizione e Assad stava perdendo territori significativi. Inoltre, la cattura di Mosul nel giugno 2014 da parte dell’ISIS ha minacciato ancora di più di vanificare gli sforzi dell’Iran in Siria. Dopo la perdita di Mosul in Iraq, l’Iran ha dovuto inviare un numero consistente di milizie sciite irachene, che combattevano in Siria, per contenere l’ISIS in Iraq. Di conseguenza, al fine di rafforzare le linee iraniane, Hezbollah ha inviato 1.000 combattenti in Siria, e gli sciiti afgani hanno iniziato a sostenere le forze pro-regime. Entro la metà del 2015 la posizione di Assad si è ulteriormente indebolita, tuttavia, l’Iran ha continuato a fornire alla missione una caratteristica di consulenza classica. L’Iran non ha perso molto personale, dal momento che il suo compito non era quello di combattere o condurre le truppe direttamente nel conflitto, ma piuttosto era inerente la logistica e la pianificazione delle operazioni.

Nel settembre 2015, il regime di Assad sembrava essere destinato a cadere. Con Aleppo, la seconda città più grande della Siria, e il principale centro economico del Paese, nelle mani dei ribelli, Assad aveva perso un importante centro urbano. Un importante e quasi inatteso evento ha completamente cambiato il destino di Assad e gli esiti futuri della guerra: il 30 settembre 2015 la Russia è entrata nel conflitto siriano. L’intervento russo nella guerra ha cambiato non solo il corso degli eventi, ma anche la strategia militare delle Forze armate iraniane. L’Iran ha iniziato a distribuire un numero maggiore di ufficiali di terra dell’IRGC, fornendo ufficiali di consulenza di alto livello ed elementi di combattimento sul terreno. Questa mossa sottolinea ancora una volta la trasformazione dell’IRGC GF: un’organizzazione che è stata inizialmente strutturata per difendere il regime dall’invasione da terra e dai disordini interni, era ora dispiegata per dirigere operazioni di combattimento convenzionali.

Entro due settimane dall’intervento della Russia, sono iniziate le operazioni ad Aleppo. L’IRGC è stato attivamente coinvolto nelle operazioni militari. Durante questo periodo, le truppe hanno svolto un ruolo fondamentale nelle operazioni per rompere l’assedio delle città di Al Zahra e Nubl a febbraio, operazione che ha anche tagliato una importante linea di rifornimenti dalla Turchia all’opposizione ad Aleppo. Inoltre, le truppe iraniane e le forze delegate hanno giocato un ruolo diretto nella fornitura di informazioni di intelligence per gli attacchi degli aerei russi. Durante la battaglia per Aleppo, l’Iran ha adottato un nuovo modello di combattimento mentre le forze pro-regime hanno stretto la presa sulla città. Gli esperti militari iraniani sembrano aver utilizzato ufficiali dell’IRGC per rafforzare e fungere da elementi di comando per le forze alleate. Questi ufficiali non erano a capo dei propri soldati arruolati in Siria, ma piuttosto sono serviti come elementi di integrazione tra i diversi gruppi di alleati dell’Iran che operano sul terreno siriano. Questo modello è risultato quello più conveniente, dato che ha minimizzato il numero potenziale di perdite iraniane ma ha anche migliorato l’efficacia di combattimento dei partner locali.

Infine, questa complessa strategia militare mostra la crescente capacità dell’Iran di proiettare la sua potenza militare all’estero, e di impegnarsi in una guerra apparentemente convenzionale. Lo spiegamento delle Forze di terra dell’IRGC consentirà, nel lungo termine, all’Iran di distribuire giovani cadetti all’estero avendo quindi soldati addestrati per le future guerre dello stesso tipo. Tuttavia, nessuna di queste prove indica che l’Iran sia fiducioso circa il potere militare. Il Paese potrebbe essere semplicemente coinvolto in una guerra civile perché ha l’imperativo strategico di farlo e, a parte le Forze Quds, la sua strategia militare è focalizzata sulla difesa e sulla deterrenza, non sulla proiezione della sua potenza nella regione.

Dal momento che la Russia è intervenuta in Siria a fine settembre 2015, Mosca e Teheran hanno unito le forze per mantenere il regime di Assad al potere. Tuttavia, nonostante l’evidente prova della loro cooperazione, le relazioni tra i due Paesi nel conflitto siriano sono state erroneamente interpretate come la nascita di una nuova solida amicizia nella regione, piuttosto che come un matrimonio di convenienza dettato dalle circostanze.

L’Iran e la Russia sono naturali alleati in Siria. È un’affermazione audace, comunque, parlare di una cooperazione militare pianificata congiunta. Mentre vi è un certo grado di cooperazione strategica, le operazioni iraniane e russe in Siria rappresentano movimenti indipendenti verso un obiettivo comune. I due attori hanno collaborato principalmente sulla condivisione delle informazioni di intelligence e sulla strategia militare. Tuttavia, dal punto di vista militare, sembrano essere fortemente dipendenti, come se stessero perseguendo strategie complementari. La Russia non ha dispiegato Forze di terra in Siria, limitando, pertanto, la misura del suo coinvolgimento nel conflitto alle operazioni aeree. D’altra parte, l’Iran, che ha implementato le Forze dell’IRGC, ha bisogno degli attacchi aerei russi per condurre le proprie operazioni di terra. Inoltre, l’Iran ha permesso alla Russia di utilizzare la sua base di Hamadan per condurre attacchi aerei in Siria. Tuttavia, oltre la condivisione delle informazioni di intelligence, Iran e Russia non sembrano aver pianificato una lunga e congiunta cooperazione, facendo aumentare, di conseguenza, le domande sulla longevità della loro «partnership».

Iran e Russia hanno un obiettivo comune in Siria che è, almeno fino ad ora, mantenere Assad al potere ed evitare il collasso totale delle istituzioni statali. Inoltre, uno dei principali driver della loro cooperazione è la paura condivisa della crescente egemonia degli Stati Uniti nella regione. In particolare, il Cremlino mira ad evitare lo stesso scenario della Libia e dell’Iraq, dove l’interventismo occidentale guidato dagli Stati Uniti ha portato al crollo delle istituzioni statali locali dando vita ad uno scenario geopolitico instabile. Allo stesso modo, dopo il sorgere dello Stato Islamico e degli altri gruppi estremisti sunniti islamici, come Jabhat Al Nusra, entrambi i Paesi temono gli effetti e la diffusione del terrorismo islamico nei propri territori.

Per queste ragioni, e tenuto conto del giro di vite dell’Iran sulle proteste della Rivoluzione Verde nel 2009, la Russia vede Teheran come un attore regionale attraente e stabile, uno Stato funzionante in grado di promuovere gli interessi russi nel territorio siriano.

Anche se entrambi i Paesi condividono gli stessi obiettivi finali per il futuro della Siria, la visione e gli interessi a lungo termine dietro le loro azioni in Siria sono leggermente diversi. L’Iran vede la Siria come suo principale «hub» territoriale per la fornitura di armi a Hezbollah, roccaforte iraniana contro la minaccia israeliana. Di conseguenza, solo la conservazione delle istituzioni statali alauite e di Assad al potere garantirebbero all’Iran la continuazione del suo asse di resistenza e il suo rapporto con Hezbollah. Anche la Russia non vede Hezbollah come un gruppo terroristico e ha spesso ribadito di considerare il gruppo come un attore legittimo della politica libanese. Tuttavia, il triumvirato composto da Iran-Russia-Hezbollah come spina dorsale delle operazioni militari siriane potrebbe minare i rapporti di Mosca con Israele. Quest’ultimo teme che l’affare delle armi tra la Russia e l’Iran possa inavvertitamente dare all’Iran la possibilità di fornire al gruppo libanese nuove armi contro Israele. In questo senso, la Russia deve tenere conto delle preoccupazioni per la sicurezza di Israele, e il Cremlino ha rassicurato Tel Aviv che non ha fornito armi ad Hezbollah.

D’altra parte, gli interessi della Russia in Siria non sono direttamente collegati al destino di Bashar Al Assad. La Russia sta usando la Siria per riacquisire il suo status di influente potere globale alla luce della diminuzione della leva americana nella regione e infine per mantenere la sua unica base navale nel Mediterraneo nei pressi delle coste di Tartus. Eppure, finora Assad sembra essere il partner perfetto a causa della sua opposizione agli Stati Uniti e alle influenze occidentali nel Governo della Siria e nel Medio Oriente in generale. Il futuro di Assad è un altro elemento che ha causato notevoli divergenze fra l’Iran e la Russia e può provocarne altre in futuro. Mentre l’Iran considerava, almeno fino al 2015, la persistenza di Bashar Al Assad come una linea rossa, la Russia è stata più flessibile su chi avrebbe potuto sostituire l’attuale leader politico alauita. La Russia è stata più desiderosa di trovare una soluzione politica per la deposizione di Assad a condizione che fossero mantenuti alcuni presupposti e fosse conservato un regime in grado di governare e pronto a rispettare gli interessi della Russia. Tuttavia, anche l’Iran dal 2017 sembra aver abbandonato la sua posizione radicale sul futuro di Assad in favore di una soluzione diplomatica che non danneggi i suoi interessi primari.

Inoltre, le relazioni che la Russia ha instaurato con i Paesi del Golfo, e in particolare con l’Arabia Saudita, potrebbero costituire una causa di attrito con l’Iran. Il Regno Saudita è il rivale politico storico dell’Iran nella regione e nella guerra siriana, nella quale i Sauditi stanno sostenendo l’opposizione con la fornitura di armi e attrezzature militari. Pertanto, la Russia è cauta nei riguardi di una troppo stretta collaborazione con l’Iran, con il rischio di essere rappresentata come parte della mezzaluna sciita, inimicandosi i suoi alleati arabi. D’altra parte, l’Iran è consapevole del fatto che la Russia ha bisogno di dare priorità ai propri interessi economici e che la sua «partnership» con Teheran è contingente agli eventi in Siria, e non può sostituire quella con la Siria di Assad. Infine, nel marzo 2016, la Russia aveva annunciato il suo ritiro dalla Siria, apparentemente senza consultare, ma solo informando, l’Iran. Una decisione che sottolinea come i percorsi dell’Iran e della Russia in Siria non sono così intrecciati e dipendenti gli uni dagli altri come appaiono.

Pertanto, ciò che definisce il rapporto tra l’Iran e la Russia è un alto grado di pragmatismo. Entrambi i Paesi sono consapevoli dei loro interessi divergenti e che la loro «partnership» non può avere la prospettiva di una lunga durata. Per quanto riguarda gli sviluppi in Siria, l’Iran è ben consapevole del fatto che senza l’aiuto militare fornito dalla Russia non sarebbe in grado di prolungare gli esiti della guerra, mantenendo Assad al potere. D’altra parte, la presenza storica e politica dell’Iran è molto più forte e influente di quella russa. Il Cremlino riconosce che il mantenimento di un rapporto di amicizia con l’Iran, che ha una notevole influenza su gran parte della società civile siriana, garantirebbe uno scenario favorevole anche a Mosca.

La «partnership» Iran-Russia non si è limitata alla Siria, ed i risultati finali della guerra non sembrano mettere a repentaglio il futuro della loro relazione. In realtà, l’Iran e la Russia hanno collaborato per lungo tempo soprattutto in campo economico. Già durante i negoziati 5+1 sul programma nucleare iraniano, la Russia aveva agito come mediatore tra l’Occidente e l’Iran per convincere la Repubblica Islamica a fare alcune concessioni in cambio della revoca delle sanzioni economiche, facendo leva sulle sue relazioni con l’Europa e gli Stati Uniti. In parte, questo ha portato la Russia ad assumere un ruolo di protettore dell’Iran, ma anche di garante del rispetto iraniano. Dal punto di vista dell’Iran, l’accordo sul nucleare ha aperto nuove opportunità di cooperazione economica, in effetti le priorità economiche hanno messo da parte le considerazioni ideologiche. È importante soffermarsi anche sugli effetti dell’accordo di Camp David firmato dall’Iran e da cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dalla Germania (P5+1) sul programma nucleare iraniano. L’accordo è stato una svolta per Teheran che ha accettato di sospendere il suo programma nucleare in cambio della fine delle limitazioni al petrolio iraniano, delle sanzioni economiche e dell’embargo sulle armi. L’accordo ha aperto la strada per investimenti esteri diretti e permetterà all’Iran di partecipare all’economia globale. Allo stesso modo, l’accordo aumenterà il commercio del Paese e il PIL, reintegrerà l’Iran nei mercati globali, e aprirà alla cooperazione con altri Stati nel sistema internazionale. L’Iran probabilmente utilizzerà questa nuova forza economica e l’accesso alle armi per sostenere i suoi alleati ed estendere la sua influenza regionale. Senza sforzi da parte degli Stati Uniti, che sotto la Presidenza Trump hanno deciso di recedere dall’accordo, e della Comunità Internazionale per ridurre le tensioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran, si approfondirà la lotta di potere tra Arabia Saudita e Iran. Anche se la minaccia di un Iran in possesso di un’arma nucleare è stata ridotta, l’Arabia Saudita si sente sempre più intimorita da un Iran che utilizzerà probabilmente la sua nuova forza economica per diventare la nuova potenza egemone regionale. Infatti, numerose delegazioni europee di alto livello hanno visitato l’Iran dopo che il Joint Comprehensive Plan of Action è stato perfezionato, la maggior parte delle quali comprendeva dirigenti aziendali che cercavano di riprendere i rapporti commerciali con Teheran.

La cooperazione economica con la Russia, anche prima dell’accordo sul nucleare, è stata di vitale importanza per l’acquisizione di armi e attrezzature per il sistema di difesa.

Un altro elemento importante da prendere in considerazione per le relazioni dell’Iran con la Russia è l’unità dei suoi politici. Anche se, come spiegato sopra, Rafsanjani aveva espresso la sua preoccupazione per le operazioni dell’Iran in Siria e di conseguenza con la Russia, tuttavia l’ultima parola su tutte le questioni sensibili non appartiene al Presidente, ma al leader supremo. In altre parole, Hashemi Rafsanjani potrebbe esprimere un parere che differisce dalla leadership del Paese, ma l’Iran farà come dice Khamenei. La Guida Suprema ha «de facto» dato via libera alla cooperazione con la Russia e lo ha ribadito durante l’incontro con Putin nel novembre del 2015. Una mossa che sottolinea come il leader supremo abbia messo da parte le ideologie in favore del pragmatismo nella sua politica estera, garantendo l’economia e la sicurezza militare del Paese.

Infine, le dinamiche di cooperazione dell’Iran con la Russia sono state caratterizzate da un bilanciamento tra gli interessi dell’Iran e le richieste occidentali. L’Iran è ben consapevole di aver bisogno della Russia tanto quanto ha bisogno che l’Occidente apra il suo mercato economico e guidi il Paese fuori da una difficile crisi finanziaria.

Un altro attore alleato dell’Iran in Siria è Hezbollah. Nato dalla guerra civile libanese per proteggere la maggioranza sciita della popolazione del Sud del Libano, Hezbollah è stato da allora la più potente delle milizie dell’Iran, e il più affidabile ed efficace gruppo alleato della Repubblica Islamica nella regione. Fin dalla sua creazione, Hezbollah ha ricevuto finanziamenti e forniture di armi dall’Iran attraverso la Siria e ha svolto un ruolo importante come parte dell’asse della resistenza contro Israele e, in misura minore, contro gli Stati Uniti. Nel corso degli anni, Hezbollah ha guadagnato molta popolarità in tutto il tutto il Medio Oriente, in particolare durante gli anni Duemila, fino a quando nel 2006 è stato espulso dal Libano da Israele.

Le recenti elezioni legislative in Libano hanno segnato la vittoria di Hezbollah, un segnale molto preoccupante per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che considerano il «Partito di Dio» un’organizzazione terroristica.

Gli obiettivi del gruppo sciita sono direttamente collegati a quelli di Teheran, ossia salvaguardare il condotto siriano per il passaggio di uomini alla sua organizzazione e impedire alle organizzazioni jihadiste sunnite di diffondersi in tutta la Siria. Inoltre, come lo stesso capo di Hezbollah ha dichiarato, la Siria costituisce la spina dorsale della resistenza di Hezbollah contro Israele anche alla luce del fatto che Assad ha più volte fornito un rifugio sicuro a molti suoi combattenti.

Hezbollah è presente in Siria dal 2012 e, come l’Iran, ha spostato le sue operazioni militari in conformità con gli sviluppi della guerra. Inizialmente, il ruolo del gruppo libanese in Siria ha comportato attività di consulenza e sostegno ad Assad e al suo esercito. Il carattere limitato dell’iniziale coinvolgimento di Hezbollah derivava dalla condizione dell’esercito di Assad, che sembrava ancora efficiente. Quando le forze fedeli al regime hanno iniziato a perdere terreno e a subire battute d’arresto significative, il ruolo di Hezbollah è rapidamente progredito.

Nel 2013 il ruolo di Hezbollah è cambiato, divenendo drammaticamente un ruolo diretto di combattimento, operando a fianco delle Forze militari e paramilitari siriane. Inoltre, ha ampliato i suoi sforzi per formare le riorganizzate milizie filo-Assad. Il completo dispiegamento è arrivato nell’aprile del 2013, quando Hezbollah ha condotto con successo le operazioni di terra per riconquistare la città di Al Qusayr, prevalentemente sunnita, nella provincia di Homs, non lontano dal confine con il Libano. La riconquista della città non era stata solo una priorità militare per il regime di Assad, ma anche per Hezbollah, perché una presenza ribelle, oltre a minacciare la linea di comunicazione di Assad con la costa, era una minaccia anche per i villaggi sciiti libanesi su entrambi i lati del confine e vicino ad Al Qusayr.

Oltre le operazioni di combattimento, la presenza di Hezbollah in Siria è stata fondamentale nella formazione e nel finanziamento di gruppi di miliziani locali. In particolare, Quwat Al-Ridha, un gruppo operante sotto comando Hezbollah, sembra essere il nucleo centrale per Hezbollah in Siria. Quwat Al-Ridha comprende sciiti e sunniti provenienti dalle zone di campagna intorno a città come Homs, Aleppo, Daraa e Damasco. Tuttavia, la presenza di Hezbollah in Siria non è avvenuta senza costi. Grazie alle sue attività in sostegno di un regime autoritario e contro i fratelli musulmani sunniti, Hezbollah ha perso la reputazione acquisita nella regione nel decennio precedente. Il rapporto con Hamas, la sua controparte palestinese nella lotta contro Israele, è stato gravemente danneggiato dalle operazioni di Hezbollah nella guerra siriana.

Dopo il 2013 Hezbollah ha costantemente ampliato le sue operazioni in Siria, assumendo insieme con l’Iran e la Russia un ruolo di primo piano nel puntellare Assad e il suo apparato militare contro la rivolta dell’opposizione. In realtà, Hezbollah è uno dei più esperti gruppi militari nel conflitto e la più efficace forza di terra in Siria in proporzione alla sua dimensione. Militarmente, oltre alla sua lunga collaborazione con l’Iran, e la sua vicinanza geografica con la Siria, Hezbollah è ben posizionata per operare in Siria perché è un gruppo arabo e le sue operazioni di combattimento contano su una fanteria leggera. L’esercito siriano è in primo luogo una forza meccanizzata pesante che non ha la capacità di una fanteria leggera di sostenere un conflitto contro insorti con armi leggere. Inoltre, la consolidata esperienza in attività contro-insurrezionali maturata nel lungo confronto con Israele ha facilitato i compiti di Hezbollah nella formazione delle milizie irachene sciite e di altri gruppi paramilitari. Pertanto, Hezbollah è più adatta alle operazioni a stretto contatto con le controparti siriane della Guardia Rivoluzionaria Iraniana. Hezbollah non agisce in modo indipendente dall’Iran nel conflitto in corso, anzi opera sotto il comando dell’IRGC e comunica costantemente con Teheran su come organizzare le missioni sul terreno. Tuttavia, anche se gli sforzi di Hezbollah sono principalmente diretti a rispettare la posizione di Assad e a preservare il condotto siriano come una linea di fornitura per le armi, nel corso degli anni Hezbollah è divenuto progressivamente un grande Partito dell’arena politica libanese. Di conseguenza, la sua dipendenza dagli aiuti finanziari iraniani è stata ridotta e il gruppo ha cercato di fare affidamento su altre fonti. Viceversa, il Governo pragmatico del Presidente Hassan Rouhani ha presumibilmente dedicato più risorse per la ripresa economica nazionale, ritardando la fornitura del 10% del finanziamento annuale per Hezbollah.

Molti hanno accusato l’Iran di aver fomentato una tensione settaria crescente in Siria supportando i gruppi sciiti come Hezbollah. Da un lato, se è vero che l’Iran ha addestrato le milizie sciite per combattere l’opposizione, dall’altro la strategia della Repubblica Islamica, nonché quella di Hezbollah, in Siria comprende la politica settaria. Infatti, Hezbollah ha rimodellato la sua serie storica di alleanze. Dopo che l’ISIS è stato raggiunto dal Fronte di Al Nusra in un’incursione nel Nord della cittadina di Arsal nella Valle della Bekaa nell’agosto del 2014, Hezbollah ha cominciato a costruire alleanze con le comunità cristiane vicino al confine, che la sostengono contribuendo alla formazione delle milizie locali per difendere le loro città.

Da questa prospettiva, la dottrina militare difensiva dell’Iran non sembra aver avuto una svolta drammatica. La formazione delle organizzazioni paramilitari rientra nella linea di guerra asimmetrica dell’Iran. Tuttavia, tre anni di intervento di Hezbollah in Siria potrebbero aver facilitato la capacità dell’Iran di spostarsi verso una dottrina offensiva.

La guerra siriana non solo ha costretto gruppi religiosi ed etnici differenti a combattere insieme, ma ha anche migliorato la capacità di ciascun gruppo di operare in tale ambiente di guerriglia. Infatti, Hezbollah, l’IRGC-QF, e l’esercito siriano sono diventati più esperti non solo nella formazione e nella pianificazione comune, ma hanno anche imparato ad operare l’uno accanto all’altro come Forza di combattimento unificato. L’Iran ha appreso anche delle lezioni preziose sulla guerriglia, che possono essere integrate nel proprio addestramento.

La possibilità per l’Iran, per Hezbollah e per i combattenti iracheni di condurre operazioni attraverso le frontiere su vari terreni ha rivelato le nuove capacità dell’Iran di condurre una guerra semi-convenzionale all’estero, spostando così la sua dottrina difensiva verso una semi-offensiva, capace di intervenire su confini iraniani.

Infine, l’impegno di Hezbollah in Siria è estremamente importante per una serie di motivi. In primo luogo, l’Iran può contare su un alleato prezioso, con una efficace capacità militare che gli altri gruppi partner non hanno. In secondo luogo, la convergenza di obiettivi tra Iran e Hezbollah nella guerra ha reso più facile per l’Iran far avanzare la propria posizione. In terzo luogo, e soprattutto, il ruolo di Hezbollah ha notevolmente migliorato le capacità dell’Iran di progettare un’influenza all’estero, quindi, porre le basi per quella che potrebbe essere una significativa trasformazione della forza convenzionale militare iraniana in una forza capace di affrontare gli attori di un conflitto più convenzionale.

La strategia più importante dell’Iran nella guerra siriana è stata sia la creazione sia l’espansione di gruppi sciiti. I gruppi militanti sciiti sono venuti a costituire il nucleo a breve e a lungo termine della strategia iraniana nel conflitto in corso. Tuttavia, la proliferazione di gruppi sciiti appoggiati dall’Iran in Siria non è una tattica nuova, piuttosto un prolungamento della sua lunga strategia di guerra non convenzionale.

In conclusione, è possibile affermare che la strategia militare di Teheran rimane difensiva, perché non ha ancora acquisito la tecnologia e la capacità necessarie per intraprendere guerre convenzionali. Tuttavia, l’intervento di Teheran nel conflitto ha costantemente messo in pericolo il contesto siriano, un cambiamento radicale per una politica estera che fino ad allora aveva evitato dirette operazioni all’estero. La Siria è stata finora un banco di prova importante per la funzionalità delle Forze armate iraniane. La guerra civile siriana ha dato a Teheran più fiducia e assertività nella conduzione di operazioni all’estero. Tuttavia, è difficile prevedere se l’Iran deciderà di aumentare gli sforzi per lo sviluppo di una guerra più convenzionale al fine di proiettare la sua influenza ancora più lontano. Quello che è certo è che la Repubblica Islamica ha acquisito una capacità che nessun altro Stato in Medio Oriente possiede.


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(luglio 2018)

Tag: Daniela Franceschi, l’Iran e la crisi siriana, la crisi siriana, Medio Oriente, la guerra civile in Siria, la guerra in Siria, il coinvolgimento dell’Iran nel conflitto siriano, il ruolo dell’Iran nella crisi siriana.