Le guerre nella Repubblica Democratica del Congo
Un’analisi storica delle cause e delle implicazioni delle guerre civili congolesi

L’instabilità politica ha afflitto, e affligge, molti Paesi Africani, impedendo il consolidamento di istituzioni politiche e statuali democratiche. L’instabilità rimaneva una sfida difficile per molti Stati dell’Africa, soprattutto nella regione dei Grandi Laghi; in particolare, la precarietà delle istituzioni statuali e l’insicurezza interna della Repubblica Democratica del Congo rappresentano i principali ostacoli allo sviluppo economico-sociale e alla stabilizzazione della pace nel Paese e nella regione nel suo complesso.

Le cause profonde dei conflitti, risalenti alla dominazione coloniale belga, che hanno minato la stabilità della Repubblica Democratica del Congo (RDC) sono comprensibili solamente attraverso un’analisi storica attenta alle dinamiche politico-istituzionali e al contesto geopolitico regionale.

L’eredità coloniale ha lasciato impronte profonde nel Paese, rivelandosi cruciale per la formazione e il seguente disfacimento dello Stato.

Quando nel 1879 Henry Morton Stanley stabilì «l’autorità del Re» nel Paese, che divenne nel 1885 lo Stato Libero del Congo (in pratica una proprietà privata del Re Leopoldo II del Belgio), introdusse un apparato istituzionale e amministrativo di derivazione europea, anche se in una forma minimale. Le popolazioni assoggettate, diverse per appartenenza etnica, linguistica e territoriale, che avevano sperimentato, nel corso dei secoli, svariate forme di organizzazione politica e statuale, furono sottoposte all’autorità del Sovrano Belga e dopo il 1908, quando il Re rinunciò al possesso privato del territorio, allo Stato Belga.

Come molti territori nel continente africano, i confini dello Stato Libero del Congo furono definiti dal regime coloniale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; infatti, tra il 1881 e il 1892, il Belgio conquistò il Katanga e, in seguito, la parte orientale del Congo, sottratta al controllo degli Arabi Africani e dei mercanti che parlavano swahili tra il 1892 e il 1894. Le frontiere attuali dello Stato furono definite durante la Conferenza di Berlino del 1885, mentre il Trattato del 1910 tra il Belgio e la Germania stabilì il confine tra lo Stato Libero del Congo e il Ruanda. Nel 1919, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e la conseguente sconfitta della Germania, il Ruanda fu affidato al Belgio in amministrazione fiduciaria dalla Società delle Nazioni.

È interessante soffermarsi brevemente sulla regione del Katanga, infatti, sebbene ufficialmente tale area fosse parte integrante dello Stato Libero del Congo, Leopoldo II la sottopose all’amministrazione della sua compagnia, la Compagnie du Katanga, la cui attività ebbe inizio solamente nel 1900 con il nome di Comité Spécial du Katanga. Il Katanga deteneva, quindi, uno status indipendente rispetto al resto della colonia. La provincia, che mantenne una considerevole autonomia fino al 1933 quando fu varata una nuova riforma territoriale, divenne la più sviluppata e la più ricca del Congo.

La politica economica coloniale si caratterizzò per uno sfruttamento intensivo delle ingenti risorse minerarie e naturali del territorio; fin dall’inizio, la colonia fu trasformata in un fornitore di materie prime, in particolare di gomma naturale e prodotti agricoli.

L’estrazione dei minerali acquisì una notevole importanza dopo il 1906, allorquando fu costruita la ferrovia che collegava la capitale Kinshasa al porto di Matadi. Le strade e le ferrovie furono costruite principalmente per l’esportazione, al fine di connettere i siti di produzione congolesi ai mercati delle città al di là del confine, tralasciando volutamente ogni forma di integrazione territoriale del Paese.

Lo Stato Belga offrì importanti incentivi alla Société Générale de Belgique, a cui fu affidato il compito di estrarre l’oro, lo stagno e il rame, minerali destinati a divenire fondamentali della politica economica coloniale. Nonostante lo Stato non fosse coinvolto nella gestione quotidiana della Società, fu un azionista dominante nelle varie sub-società della Societé Générale. Inoltre, alla Società furono consegnate ampie porzioni di territorio per lo sfruttamento minerario e, con il supporto dell’esercito, forza lavoro a basso costo.

Nel 1959, l’anno prima dell’indipendenza, il 60% dei proventi delle esportazioni era fornito dall’industria mineraria e dal rame, l’8% dal caffè e dall’olio di palma e il 7% dai diamanti.

Dal 1920 si sviluppò una modesta industrializzazione, che prese un maggiore slancio durante la Seconda Guerra Mondiale fornendo cemento, sapone e prodotti chimici per l’industria mineraria.

Il regime coloniale non dotò il territorio congolese di ciò che fa parte di uno Stato moderno; infatti, gli investimenti nelle poche infrastrutture esistenti erano finalizzati alla commercializzazione dei minerali e delle colture agricole, non riguardando, se non minimamente, l’educazione e la sanità, solitamente relegate alla gestione delle missioni cattoliche e delle Compagnie. Il sistema di governo coloniale belga è stato denominato «trinità coloniale», poiché l’amministrazione coloniale e militare, la Chiesa Cattolica e le Compagnie Internazionali formarono un’alleanza per governare il territorio e la popolazione.

Una delle particolarità del sistema coloniale belga fu il tentativo di non produrre troppi «évolués», persone istruite e formate per lavorare sia in ambito pubblico sia privato. Dal punto di vista educativo, l’istruzione fornita dalle missioni cattoliche era di basso livello, infatti, il numero di «évolués» nella pubblica amministrazione e nell’esercito, esclusivamente nei gradi più bassi, rimase molto limitato.

Per quanto concerne la partecipazione alla vita politica, la Loi sur le Gouvernement du Congo Belge del 1908, conosciuta anche come Charte Colonial, proibiva l’attività politica, consentendo solo le associazioni su base etnica, religiosa e culturale.

La combinazione di esclusione politica, basso livello di istruzione e una definizione dell’identità e dei diritti in termini etnici spiega perché nessun movimento anti-coloniale si sia sviluppato in tutta la Nazione. La variegata compagine di movimenti politici, nati nel breve periodo di tempo prima dell’indipendenza formale del Paese, si basava sull’appartenenza etnica, identitaria e regionale, non condividendo una visione unitaria per quanto concerneva la forma istituzionale della Nazione.

Sotto il profilo amministrativo, la colonia sperimentò una forma duale di governo, poiché il Governo Centrale aveva giurisdizione sui cittadini, in pratica l’élite bianca, mentre le autorità tradizionali si occupavano dei sudditi, le popolazioni native. La distinzione era evidente anche nel sistema giuridico: il diritto civile fu formalmente introdotto, ma il diritto consuetudinario prevalse. Questa eredità del colonialismo ha condotto a ciò che Mahmood Mamdani definisce «Stato biforcuto» con una «cittadinanza biforcuta».

L’amministrazione belga tentò di utilizzare le autorità tradizionali come avamposti per il suo dominio coercitivo, nominandoli in base alle sue esigenze. Tali bisogni includevano un certo controllo amministrativo, ma soprattutto erano utilizzati per mobilitare il lavoro forzato e riscuotere i tributi; per esempio, i nativi erano reclutati per la costruzione delle strade e per la consegna della gomma.

Ad alcune autorità tradizionali, ma non a tutte, fu concesso di esercitare un potere formale sulle comunità locali, con conseguenze importanti per l’accesso alla terra. I nativi congolesi non avevano un diritto di proprietà individuale ma collettivo, diritto esercitabile attraverso le autorità native che si rifacevano ai diritti ancestrali ereditati per l’assegnazione dei terreni. I Congolesi privi di un’autorità nativa non avevano accesso alla terra ed erano semplicemente tollerati sulla terra di altri gruppi. Nel periodo della post-indipendenza ciò generò scontri per il possesso dei terreni e problemi relativi alla cittadinanza per alcune comunità.

Mentre il grado di formalità, la burocrazia e lo stato di diritto aumentarono nel corso degli 81 anni di colonialismo belga, le autorità tradizionali continuarono a governare la vita quotidiana dei Congolesi, occupandosi di temi come il diritto di famiglia e altre questioni giuridiche.

Alla fine degli anni Cinquanta, il Belgio comprese che non era più in grado di gestire un territorio così vasto e complesso, decidendo di attuare delle riforme legislative in vista della prossima indipendenza.

Il Governo Belga ratificò un primo abbozzo di Costituzione nel 1960, stabilendo un sistema parlamentare con un doppio esecutivo, con un Presidente e un Primo Ministro eletti indirettamente dalla Camera Alta del Parlamento. Inoltre, il 23 marzo del 1960, il Legislatore promulgò una legge elettorale proporzionale che estendeva il diritto di voto agli emigrati dalle altre due colonie belghe, il Burundi e il Ruanda; il primo articolo affermava che «il votante deve essere congolese o nato da madre congolese o una persona originaria del Ruanda-Burundi residente in Congo da almeno dieci anni». La legge conservò il sistema statale centralizzato coloniale, ma concesse una relativa autonomia alle sei province appena costituite: Equatore, Kasaï, Katanga, Kivu, Leopoldville e Orientale. È importante, altresì, rilevare il permanere nella Costituzione di molte ambiguità concernenti il controllo dell’Autorità Centrale sugli amministratori provinciali, ambiguità che sarebbero state sfruttate dai leader regionali per realizzare le loro ambizioni politiche.

Dal punto di vista politico, il biennio 1959-1960 vide l’emergere di una classe politica congolese, incapace, tuttavia, di organizzare un movimento anti-coloniale unito; infatti, in un periodo di tempo così breve nacquero più di cento partiti, che rappresentavano le diverse regioni del Paese più che divergenti idee politiche.

I contrasti tra i leader dei vari partiti possono essere esemplificati attraverso dei concetti-chiave: antagonismo ideologico; dispute sulla forma federale o unitaria dello Stato; disputa sul controllo delle risorse naturali; dimensione etnica dei conflitti.

L’assetto istituzionale del Paese divenne, prima della promulgazione ufficiale dell’indipendenza, il terreno di scontro tra il Movement National Congolaise (MNC), il cui leader era Patrice Lumumba, l’Alliance des Bakongo (ABAKO), guidata da Joseph Kasavubu, la Confédération des Associations Tribales du Katanga (Confederation of Tribal Associations of Katanga, CONAKAT), rappresentata da Moise Tshombe ed infine l’ala dissidente del MNC, di cui era leader Albert Kalonji.

Le divergenti posizioni traevano origine da punti di vista ideologici e politici difficilmente conciliabili. Per Patrice Lumumba, il distacco dal Belgio, in quanto Paese colonizzatore, e dall’Occidente doveva essere netto. Inoltre, il leader del MNC propendeva per una politica economica ispirata ai principi del socialismo.

Contrariamente a Lumumba, Tshombe considerava molto più positivamente il legame instauratosi con il Belgio e con la comunità occidentale, da qui la preferenza per una politica economica prettamente capitalistica e liberista.

Per quanto riguardava l’assetto istituzionale dello Stato, Lumumba pensava che uno Stato unitario e centralizzato fosse la massima espressione dell’indipendenza nazionale. Al contrario, Tshombe, Kasavubu e Kalonji desideravano una autonomia significativa per le province del Congo indipendente. Questi disaccordi rappresentano le radici storiche dei movimenti secessionisti negli anni Sessanta e Settanta.

Sebbene il Congo fosse ricco di risorse naturali, queste non erano egualmente distribuite su tutto il territorio, per esempio, il Katanga deteneva il 70% della produzione di rame e cobalto, contribuendo per il 20% alle spese statali e rappresentando il 75% dell’esportazione nazionale. Similmente, il Kasaï, conosciuto anche come lo «Stato dei diamanti», aveva una estesa riserva di gemme. Il Kivu possedeva vaste risorse di oro e di stagno.

Nei primi giorni dell’indipendenza, i leader di queste regioni si dichiararono favorevoli alla secessione, ritenendo la gestione governativa dei proventi derivanti dalle risorse naturali insoddisfacente per le aree territoriali che rappresentavano.

L’aspetto etnico ha giocato un ruolo importante nei conflitti nati all’alba dell’indipendenza e continua a svolgere una funzione significativa anche oggi. È importante evidenziare che i partiti politici avevano tutti una base etnica, a parte il MNC di Patrice Lumumba, aperto sostenitore di un’unità nazionale che prescindesse dall’appartenenza tribale. Gli altri partiti dichiaravano apertamente sia la loro affiliazione etnica sia l’intento di difendere gli interessi specifici del proprio gruppo contro la minaccia degli stranieri, intendendo per stranieri coloro che non appartenevano alla loro etnia.

Per esempio, il CONAKAT di Moise Tshombe si era prefisso il compito di difendere gli interessi degli «autentici Katangani», i gruppi etnici Lulua e Baluba del Katanga, contro gli stranieri, Lulua e Baluba del Kivu e del Kasaï.

L’orientamento etnico del processo politico fu un risultato del sistema coloniale, che volontariamente impedì l’emergere di una classe media, soffocando la società civile e rendendo l’etnicità un aspetto basilare della competizione politica.

Risulta opportuno soffermarsi anche sul contesto internazionale, in un momento storico in cui il processo di decolonizzazione, iniziato con l’indipendenza dell’India nel 1947, si intersecò progressivamente con il nuovo scenario della guerra fredda. L’emancipazione africana fu uno degli eventi che più suscitarono le mire dei blocchi e che si andò connettendo con l’espansione del campo socialista, creando un inedito rapporto con i suoi Paesi più rappresentativi: l’Unione Sovietica, la Cina e Cuba.

In Unione Sovietica, tra il 1956 e il 1964, Chruščëv si proiettò in una politica «volontaristica» volta all’assistenza militare ed economica dei Governi «democratici rivoluzionari», seguaci di un orientamento socialista (Guinea Conakry, Ghana, Mali, Marocco, Repubblica Araba Unita, Algeria). La coesistenza competitiva avviata, nel 1956, dal XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) si legava alla convinzione di avere ormai i mezzi per contrastare l’espansionismo «imperialista» degli Stati Uniti d’America non solo in Europa Occidentale, ma anche tra i Paesi di nuova indipendenza, specie in Africa, dove il marxismo-leninismo animava molti movimenti di liberazione. Si delineò una politica che mirava ad inserirsi nei contrasti tra le Potenze Occidentali e gli Stati Africani sul piano economico, ma che si asteneva dall’interferire nei conflitti inter-africani. Fu il caso del Ghana e della Guinea Conakry, divenuti indipendenti rispettivamente nel 1957 e nel 1958, dove la politica chrusceviana si caratterizzò per gli ingenti aiuti economici, di molto superiori a quelli offerti dagli Stati Uniti e da altri Paesi Occidentali.

Il «volontarismo» di Chruščëv si manifestò con evidenza nella crisi congolese del 1960-1961, quando il Governo di Patrice Lumumba – formatosi nel 1960 con le prime elezioni del Congo indipendente e la vittoria del Movement National Congolaise – fu travolto dalla fragilità della stessa coalizione che ne era alla base, ma soprattutto dalle pressioni occidentali, tra cui quella belga, timorosa del radicalismo nazionalista del leader congolese. La crisi fu aggravata dalla secessione della provincia del Katanga, attuata nel 1960 da Moise Tshombe con il sostegno di una compagnia mineraria europea e del Governo Belga, che portò rapidamente al collasso dello Stato e aprì una violenta guerra civile, in cui trovò la morte lo stesso Lumumba nel gennaio del 1961. L’assassinio del Primo Ministro Congolese fu eseguito molto probabilmente su mandato del Ministro degli Interni del Katanga, ma per mano di mercenari belgi e con la complicità di Tshombe e dei servizi segreti di altri Paesi esterni implicati, mentre le Nazioni Unite si mantennero su una posizione neutrale molto ambigua. Ancora oggi le reali responsabilità della sua morte non sono state chiarite.

Il fallimento dell’intervento di Chruščëv per sostenere il Governo di Lumumba e recuperare il Katanga costrinse l’Unione Sovietica a ridimensionare le sue ambizioni militari e la stessa idea di «esportare» la rivoluzione, poiché rischiava di aggravare le tensioni inter-africane.

Nondimeno, gli eventi congolesi consentirono alla diplomazia sovietica di sviluppare una serie di relazioni con diversi Stati Africani e, nel contempo, ebbero un effetto di disincanto di fronte all’utopia del neutralismo afro-asiatico, convincendo molti Paesi Africani, come il Ghana di Nkrumah, della necessità di allearsi con l’ Unione Sovietica contro le forze dell’imperialismo occidentale, ritenuto responsabile della crisi.

Come descritto in precedenza, entro poche settimane dalla proclamazione dell’indipendenza il Congo si trovò sconvolto dalla guerra civile; infatti, oltre alla provincia del Katanga, anche le province di Shaba, del Sud Kasaï e del Kivu dichiararono la loro secessione e, nel contempo, l’esercito si ammutinò, domandando una più veloce «africanizzazione» e un salario maggiore. A questa condizione di instabilità, si aggiunse anche la partenza dal Paese di più di 10.000 unità di personale amministrativo e militare belga, una perdita che non poté essere compensata dal ridotto numero di «evolués».

Il Primo Ministro Patrice Lumumba e il Presidente Joseph Kasavubu chiesero l’intervento delle Nazioni Unite, in risposta alla secessione del Katanga e all’intervento militare belga a favore di Tshombe.

L’esitazione dell’ONU spinse Lumumba a chiedere il sostegno, nel luglio del 1960, dell’Unione Sovietica, incontrando, così, la ferma opposizione del Presidente Kasavubu. I due si accusarono a vicenda di tradimento, pretendendo la deposizione dell’avversario.

Nel settembre dello stesso anno, il Governo fu rovesciato dal Capo di Stato Maggiore Joseph-Désiré Mobutu, incaricato in precedenza dallo stesso Lumumba, che nominò Kasavubu Presidente e Joseph Ileo Primo Ministro. Mobutu istituì anche il «Collège des Commissaire», un Governo «ad interim». Nel dicembre del 1960, il Vice Primo Ministro del Governo di Lumumba, Antoine Gizenga, creò un esecutivo parallelo a Kisangani, rovesciato nel 1961.

Lumumba

L'ultima immagine di Patrice Lumumba, 1961 (fotografia di Horst Fass)

La frammentazione politica portò alla coesistenza anche di quattro esecutivi, sebbene ufficialmente il Governo di Cyrille Adoula fosse ancora in carica dal 1961.

Sotto la pressione delle Nazioni Unite, Moise Tshombe rinunciò, nel gennaio del 1963, ad un Katanga autonomo. Dopo un breve esilio a Madrid, formò una coalizione guadagnandosi non solo il supporto belga, ma anche il sostegno politico e finanziario di altre regioni del Paese. Tshombe riuscì a far incorporare 18.000 dei suoi soldati secessionisti, i «gendarmi Katangan», nell’esercito nazionale. Sostenuto da paracadutisti belgi e dall’American Air Force, Tshombe riconquistò la capitale degli insorti, Kisangani, sostituendo Adoula come Primo Ministro nel luglio del 1964.

Negli anni della guerra civile, il Congo modificò il suo assetto istituzionale; la centralizzazione della Costituzione del 1960 fu abbandonata il 27 aprile del 1962 attraverso una legge, divenuta esecutiva nel 1963, che stabiliva la creazione di 21 province autonome.

Combattenti di Lumumba 1

Sospetti combattenti di Lumumba vengono tormentati prima dell'esecuzione, 1964 (fotografia di Don Mc Cullin)

Combattenti di Lumumba 2

Sospetti combattenti di Lumumba vengono tormentati prima dell'esecuzione, 1964 (fotografia di Don Mc Cullin)

Nell’agosto del 1964 fu promulgata la «Costituzione de Luluabourgh» (Kananga), in cui fu risolto il problema della suddivisione dei poteri fra il Primo Ministro e il Presidente, dando maggiori poteri esecutivi a quest’ultimo.

La Costituzione del 1964 stabiliva l’instaurarsi di un Governo di transizione da formarsi tramite elezioni nazionali. Tshombe, sperando di essere eletto nuovo Presidente, creò la Convention National Congolaise (CONACO), una coalizione elettorale formata da 49 dei 223 partiti politici esistenti, vincendo le elezioni.

Nonostante la vittoria elettorale, nel settembre 1965, il Parlamento diventò molto fluido e una parte sostanziale di esso si schierò contro Tshombe; infatti, era emerso un significativo blocco anti-Tshombe, guidato da Cléophas Kamitatu e Victor Nendaka del «gruppo Binza». Il «gruppo Binza» doveva il suo nome al quartiere Binza a Kinshasa, dove avevano vissuto e si erano incontrati privatamente molti uomini politici. Secondo Larry Devlin, alla guida della CIA in Congo, i membri più importanti del gruppo erano Joseph Mobutu, capo dell’Armée Nationale Congolaise, August Bomboko, Ministro degli Affari Esteri, e Victor Nendaka, capo dell’intelligence.

Il Presidente Kasavubu dichiarò la decadenza del Governo di transizione di Tshombe, nominando come Primo Ministro Evariste Kimba. Seguirono mesi di infruttuose manovre politiche per uscire da questa situazione di stallo. Dopo il mancato voto di fiducia del 14 novembre del 1964 per l’insediamento del Governo di Kimba, mancata investitura causata dall’abilità politica di Tshombe, Victor Nendaka divenne il candidato Presidente, sebbene osteggiato da Cléophas Kamitatu. Questa incapacità del Parlamento di eleggere il Presidente aprì la strada del potere a Joseph-Désiré Mobutu: il 24 novembre, quattordici membri dell’alto comando dell’esercito decisero di prendere il potere, dichiarando decaduti dalle loro funzioni sia Kimba sia Kasavubu e designando Mobutu come Capo di Stato, inaugurando così un regime autoritario destinato a durare fino al 1996.

Quando Joseph Mobutu e altri ufficiali dell’esercito presero il potere, non solo l’élite politica nazionale accettò la nuova situazione quasi all’unanimità, ma così fecero sia il mondo occidentale, Belgio e Stati Uniti riconobbero subito il nuovo esecutivo, sia gli altri Stati Africani.

La disintegrazione politica del Congo ebbe gravi effetti sull’economia: mentre le infrastrutture rimasero quasi intatte, la produzione e l’esportazione – in particolare nel settore agricolo – scesero drasticamente. Tra il 1959 e il 1966 l’agricoltura commerciale scese del 42% e l’estrazione dei minerali del 24%.

Per ripristinare l’economia era fondamentale l’integrità territoriale. Questo si rivelò il compito dell’esercito nazionale, l’Armée Nationale Congolaise. L’esercito, ammutinatosi dopo l’indipendenza, era diviso in vari gruppi locali privi di un comando centralizzato. Mobutu si dimostrò capace di riunirlo e di riorganizzarlo.

Quando Mobutu salì al potere nel novembre del 1964, riuscì a unificare parti significative dell’emergente élite congolese nella misura in cui queste erano disposte a contribuire a uno Stato unitario, dato che la secessione non era un’opzione praticabile. Le minoranze ricche della parte Nord del Paese, povera di risorse, compresero, altresì, che il loro futuro economico sarebbe stato certamente migliore se unito a quello di un Sud ricco di risorse naturali. Al contempo, le classi abbienti del Sud si astennero da ulteriori minacce di secessione e aderirono al progetto nazionale, in parte perché gli Stati Uniti avevano messo in chiaro, sia finanziariamente sia in termini di supporto per Mobutu, che – a differenza dei Belgi, aperti sostenitori della secessione di Tshombe – preferivano un Paese unito come alleato durante il periodo della guerra fredda.

Il distacco del personale amministrativo e militare belga subito dopo l’indipendenza lasciò la piccola e frammentata élite congolese a confrontarsi con le sue aspirazioni, i suoi programmi e la possibilità pratica di attuarli. Il quadro istituzionale e costituzionale, Governo e Parlamento, si rilevarono di gran lunga troppo deboli per risolvere i conflitti senza l’aiuto della forza militare.

Le diverse élite del Congo non condividevano un comune progetto nazionale, poiché si basavano su appartenenze etniche e regionali. L’incapacità di perseguire ambizioni a livello sub-nazionale e l’esaurimento delle forze le spinsero ad accettare la presa del potere di Mobutu. È ipotizzabile che si fossero rese conto che nessuno di loro era abbastanza forte, anche con l’aiuto esterno, per imporre la propria volontà su altri soggetti politici o regionali.

Lo Stato esclusivo e minimalista leopoldino e belga, una volta rimosso, diede vita a un Paese frammentato, con concorrenti centri di potere e forze militari disgregate.

La frammentazione della scena politica tra il 1960 e il 1965 andò di pari passo con una frammentazione economica. Mentre un’economia integrata era lungi dall’essere raggiunta sotto il regime coloniale belga, il declino della produzione agricola e delle attività di estrazione, in combinazione con l’incapacità del Governo Centrale di riscuotere le tasse, lasciò le casse dello Stato vuote.

Furono necessari quasi cinque anni per superare le faziosità e formare un Governo che avesse una capacità operativa su tutto il territorio. Il monopolio del potere sul territorio si rivelò fondamentale per qualsiasi ulteriore tentativo di costruzione dello Stato.

Mobutu e il cosiddetto «gruppo Binza» – i rappresentanti delle élite emergenti del Nord e del Nord-Est – cercarono di introdurre un sistema statuale centralizzato e autoritario, in grado di contenere e comprimere le forze centrifughe delle élite contestatarie. Dopo l’istituzione di un Gabinetto di 22 persone provenienti da tutte le province e appartenenti a tutte le fazioni politiche, Mobutu dichiarò lo stato di emergenza, sciogliendo il Parlamento e proibendo ogni attività politica.

Con l’aiuto dei mercenari e l’appoggio militare del Belgio e degli Stati Uniti, Mobutu fu in grado di «pacificare» le parti del territorio che erano ancora nelle mani delle fazioni opposte.

Il controllo centralizzato sull’opposizione politica fu acquisito un anno e mezzo dopo il colpo di Stato attraverso la creazione del Mouvement Populaire de la Revolution (MPR, 1967). Questo partito riuscì ad ottenere il controllo sui livelli più bassi dell’apparato statale, così come sulle corporazioni coloniali, sui sindacati, sulle organizzazioni giovanili e studentesche, divenendo, dal 1970, l’unico partito legale. Il numero delle province fu gradualmente ridotto da 21 a 8 (più Kinshasa, la capitale), e la loro precedente autonomia finanziaria ricentralizzata attraverso la Presidenza, che dimostrò di essere più efficiente, nella ripartizione delle risorse, delle Autorità provinciali in precedenza autonome. Le province non furono più amministrate da Governatori eletti, ma dai commissari regionali responsabili solo verso Kinshasa. I rappresentanti dello Stato erano spostati in tutto il Paese ogni tre anni e normalmente non potevano prestare servizio nella loro area di residenza.

Le Costituzioni del 1967 e del 1970 affrontarono i problemi legati alla nazionalità, che divenne molto più restrittiva per coloro che provenivano dal Ruanda, e al possesso della terra.

Il tema della nazionalità congolese, originatasi dal Decreto del 27 dicembre 1892 che dava un maggior peso alla dottrina dello «jus solis» rispetto a quella dello «jus sanguinis», si rivela basilare per comprendere i futuri conflitti nel Congo.

La Costituzione del 1964 rappresentò la prima intelaiatura istituzionale che discriminava coloro che discendevano da antenati ruandesi, rendendo molto più restrittiva la concessione della nazionalità congolese. L’articolo 6 riservava la cittadinanza congolese a coloro i cui antenati fossero stati membri di un gruppo etnico vissuto nel Paese prima del 18 ottobre del 1908, escludendo automaticamente la maggior parte dei Banyarwanda di Masisi, che immigrarono tra il 1922 e il 1950 in seguito alla carestia che aveva colpito il Ruanda, così come tutta l’immigrazione illegale dopo il 1960. Le prime frizioni inter-etniche, tra i Banyarwanda e gli altri gruppi etnici, iniziarono nel Nord Kivu, in cui gli immigrati ruandesi avevano superato di due volte il numero dei nativi Hunde.

Nel 1972, tramite un decreto, fu promulgata una legge più inclusiva, che conferiva la cittadinanza congolese a tutti gli immigrati del Ruanda e del Burundi che si fossero stabiliti in Congo prima del giugno del 1950 e risiedessero ancora nel Paese. Secondo l’articolo 15 della legge, «le popolazioni del Ruanda-Burundi stabilitisi nella provincia del Kivu prima del 1° gennaio 1950 e che abbiano continuato a risiedere da allora nella Repubblica dello Zaire prima della promulgazione della presente Legge, hanno acquisito la nazionalità zairese il 30 giugno 1960».

Nel giugno del 1981, l’approvazione della nuova Legge sulla nazionalità, la numero 81-002, comportò delle importanti ripercussioni per la stabilità del Nord Kivu, specialmente per quanto riguardava i diritti sulla terra arabile. La Legge cancellava esplicitamente i diritti dei Banyarwanda. L’articolo 4 della Legge stabiliva che era «Zairese secondo i termini dell’articolo 11 della Costituzione del 30 giugno 1960, ogni persona i cui antenati fossero stati membri di una delle tribù stabilite sul territorio della Repubblica dello Zaire entro il 1° agosto del 1885». La conseguenza della promulgazione di questa legge fu la perdita della cittadinanza da parte della popolazione di origine ruandese, che divenne senza Stato e senza terra.

La Costituzione del 1974 istituzionalizzò il sistema del Partito unico, conferendo alla carica del Presidente amplissimi poteri; infatti, l’articolo 28 recitava: «Esiste un’unica Istituzione, la MPR (Mouvement Populaire de la Revolution), incarnata dal suo Presidente», che d’ufficio era anche Presidente della Repubblica (articolo 30).

Dal punto di vista ideologico, Mobutu applicò alla sfera economica e politica i concetti di «autenticità» e «zairinizzazione». In termini di molteplicità istituzionali, tentò di subordinare le istituzioni rivali a quelle dello Stato da lui presieduto, cercando di abolire l’influenza tradizionale dei capi locali, trasformati in quadri politici-amministrativi dello Stato e del Partito. Allo stesso tempo, usò concetti attinenti l’Africa tradizionale, non solo rinominando il Paese Zaire o la provincia del Katanga Shaba, ma anche utilizzando simboli come il cappello di pelle di leopardo e la canna da pesca per riferirsi alla autenticità africana e all’indipendenza dalla tutela coloniale.

La «zairinizzazione» condusse a battaglie ideologiche contro le Chiese – in particolare contro la Chiesa Cattolica – a favore della tradizionale religione animista.

Il regime dittatoriale di Mobutu si caratterizzò per la sua natura autocratica, cleptocratica e clientelare. Il sistema capitalistico instaurato nel Congo/Zaire indipendente si mantenne a un livello embrionale, non garantendo né un miglioramento effettivo delle condizioni della popolazione né uno sviluppo economico saldo e duraturo; infatti, Mobutu utilizzò la «zairinizzazione» in ambito economico per distribuire benefici alle élite e agli apparati governativi. La nazionalizzazione delle industrie più importanti devastò il settore privato e distrusse le infrastrutture commerciali e industriali. Agli inizi del 1974, l’economia dello Zaire fu gravemente colpita dal crollo del prezzo del rame, che rappresentava il prodotto più esportato dal Paese, e da una inflazione galoppante causata dalle spese necessarie per mantenere un apparato statuale divenuto elefantiaco.

Nel tentativo di evitare il collasso economico, le istituzioni monetarie internazionali costrinsero Mobutu ad attuare delle riforme drastiche, che consistettero nel taglio delle prestazioni del welfare, nella privatizzazione delle aziende nazionalizzate e nella svalutazione della moneta.

Un altro disastro, sotto il profilo politico, si trasformò in un onere economico di lunga data. Lo Zaire manteneva dei forti legami con i movimenti di liberazione in Angola fin dal 1960, ma questi legami cambiarono quando la rivoluzione del 1974 fece sì che l’indipendenza angolana fosse molto più probabile. Mobutu decise di inviare delle truppe nel luglio 1975, invadendo il distretto di Cabinda, mentre il Sudafrica invadeva l’Angola dal Sud. Il Movement Populaire Pour la Liberation d’Angola (MPLA), con l’aiuto dei «gendarmi del Katanga» (con tale espressione si fa riferimento ai soldati, legati formalmente a Moise Tshombe durante la secessione del Katanga, che non furono integrati nell’esercito nazionale), sconfisse l’esercito dello Zaire. L’area di Cabinda era al centro delle mire anche delle compagnie petrolifere occidentali, in primo luogo della GULF.

Oltre ai costi della guerra, lo Zaire dovette sopportare anche un impatto significativo sulle esportazioni, rese più costose dalla chiusura, nel 1975, della ferrovia Benguela, che attraversava l’Angola, nonché il sequestro del trasporto ferroviario verso i porti di Beira e Maputo in Mozambico l’anno successivo.

Nel contempo, i «gendarmi Katangan» si erano ricostituiti, principalmente in Angola, organizzandosi in unità denominate «frecce nere» e instaurando un’alleanza di comodo con il MPLA.

Nel 1968, le frecce nere adottarono la denominazione di Front pour la Liberation Nationale du Congo (FLNC).

Nel 1977 e nel 1978, l’FLNC invase per due volte consecutive la provincia di Shaba, scontrandosi con l’esercito nazionale, le Forces Armée Zairoises (FAZ), che riuscì a domare la rivolta con l’aiuto della Francia, del Belgio e degli Stati Uniti.

Queste due invasioni e la reazione zairese non solo mostrarono la tremenda debolezza delle forze armate, ma minacciarono il cuore economico dello Zaire, i ricavi derivanti dalle esportazioni minerarie, poiché senza il controllo sulla produzione mineraria non vi era alcuna speranza di rimborsare i debiti o venire ad accordi con qualsiasi creditore internazionale.

Le due crisi di Shaba convinsero i creditori esteri della necessità di un approccio a lungo termine, da attuarsi con rigorosi meccanismi di controllo. Nel giugno del 1978, si tenne a Bruxelles una Conferenza dei creditori, focalizzata sulla prevenzione di un terzo intervento nella zona di Shaba e sulla stabilizzazione dell’economia congolese. Per il medio termine, fu chiesto un programma di austerità, un miglior controllo delle risorse finanziarie e la pace con l’Angola.

Il regime dittatoriale di Mobutu dovette affrontare una seria opposizione interna, che provocò scioperi in tutti i settori produttivi e agitazioni studentesche represse dall’esercito.

Mentre i creditori esteri avevano già imposto un «aggiustamento strutturale» per l’economia, alla fine del 1970 iniziarono ad insistere per una «liberalizzazione politica». In precedenza, Mobutu era stato visto come un politico forte, ma il suo dominio era quasi collassato due volte durante gli interventi a Shaba. Inoltre, le condizioni di vita si erano così massicciamente e rapidamente deteriorate che il suo supporto nelle città era quasi nullo, dovendo rivolgersi alle forze armate per sopprimere l’opposizione spontanea nella capitale.

La pressione esterna ed interna portò ad una serie di cambiamenti politici, noti con il nome di «liberalizzazione». Nel luglio 1977 l’ufficio del Primo Ministro, carica abolita nel 1966, fu rintrodotto. Nel 1977, si tennero le elezioni per la Presidenza, il Politburo e il Parlamento. Questa liberalizzazione fu solo apparente, poiché Mobutu represse ogni forma di dissenso, non solo della società civile, ma anche dell’esercito, di cui temeva un colpo di Stato.

Il regime passò da una crisi all’altra. Nel gennaio del 1980, un rimpasto di Governo portò alla sostituzione di 13 dei 22 Ministri. Ad aprile dello stesso anno, 4.000 studenti che protestavano contro il regime furono costretti ad entrare nell’esercito, tale provvedimento fu accompagnato dalla chiusura di scuole e università.

Il periodo di transizione tra il 1990 e il 1997 si caratterizzò, inoltre, per una crescente etnicizzazione della politica.

Nel 1990, Mobutu cercò di rispondere e aggirare la pressione nazionale e internazionale creando la Terza Repubblica, una nuova forma statuale, aperta al multipartitismo politico, in cui il Partito e lo Stato avrebbero costituito due entità distinte. In meno di un anno si formarono almeno 200 partiti, tra cui l'Unione pour la Démocratie et le Progrès Social (UDPS) di Etienne Tshisekedi, l’Union des Féderalistes et des Républicains Independentes (UFERI) di Nguza Karl-I-Bond, nipote di Moise Tshombe, e il Parti Démocrate et sociale Chrétien (PDSC) di Joseph Ileo. È interessante osservare come queste formazioni politiche si fondassero unicamente sull’appartenenza etnica e regionale, inoltre avevano la caratteristica di essere guidate da leader già da molti anni attivi politicamente, molti dei quali avevano servito come Ministro o Premier per qualche tempo, e adesso stavano costruendo apertamente le loro reti patrimoniali.

L’opposizione organizzò una Conférence Nationale Souveraine nell’agosto del 1991 per decidere il futuro del Paese e formare un’opposizione unitaria contro il MPR di Mobutu, ma la nomina di Nguza Karl-I-Bond come Primo Ministro divise il movimento.

La Conferenza Nazionale non solo era frammentata, ma aveva dovuto confrontarsi con i gravi disordini scoppiati nel settembre 1991, quando i soldati non pagati avevano iniziato a saccheggiare Kinshasa e altri centri urbani. Questa situazione di caos proseguì nel 1992, allorquando violenti scontri etnici in molte parti della Nazione furono fermati solo con l’aiuto dei soldati belgi e francesi, che ufficialmente avevano il mandato di evacuare i loro rispettivi concittadini. In Shaba, gli scontri inter-etnici riguardarono principalmente due gruppi rivali, i Luba e i Lunda.

La Conferenza Nazionale e il regime di Mobutu iniziarono a lottare su chi fosse realmente al potere. Mentre la Conferenza Nazionale formò un Governo di coalizione, l’esercito e molti Ministeri erano, formalmente, ancora sotto il controllo di Mobutu.

Nel contempo, si svilupparono dei conflitti sul possesso della terra nel Congo Orientale, che spinsero 200.000 persone a rifugiarsi nel Kivu per sfuggire alle violenze della Divisione Spéciale Présidentielle (DSP) e della «Garde civile», inviate da Mobutu per sedare la rivolta. I Kinyarwanda erano stati privati della cittadinanza e dell’accesso alla terra da una Commissione Governativa, in quanto ritenuti rifugiati e quindi passibili di espulsione dal Paese.

Il contesto geopolitico regionale stava divenendo sempre più complesso dal punto di vista etnico; infatti, dall’ottobre del 1990 il Rwandan Patriotic Front (RPF) aveva avviato delle operazioni militari contro l’Uganda. Il regime di Mobutu intraprese, quindi, una puntuale verifica dei requisiti per la cittadinanza dei Banyarwanda, che appoggiavano espressamente il RPF, negandola a coloro i cui antenati erano immigrati nel Paese dopo la Conferenza di Berlino del 1885. Di conseguenza, molte persone che parlavano lingue ruandesi furono private della cittadinanza.

Tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, l’aspetto etnico dei conflitti interni al Congo fu aggravato dall’arrivo nel Nord e nel Sud Kivu di circa 50.000 rifugiati del Burundi, in fuga dal Paese dopo l’assassinio del Presidente Melchior Ndadaye.

Nel 1994, un altro importante fattore di destabilizzazione fu l’afflusso nel Congo Orientale di più di un milione di rifugiati Hutu dal Ruanda, in conseguenza del genocidio e della vittoria del Rwandan Patriotic Front. L’arrivo di un numero così elevato di Hutu ruppe il delicato equilibrio etnico dell’area, aumentando la marginalizzazione dei Banyamulenge, associati al gruppo etnico ruandese dei Tutsi. Mobutu cercò di sfruttare la situazione esacerbando l’antagonismo etnico, specialmente etichettando i residenti che parlavano lingue ruandesi come stranieri, al servizio di un Paese estero, il Ruanda.

Il 28 aprile del 1995, il Parlamento adottò una risoluzione che privava della cittadinanza congolese i Banyarwanda e i Banyamulenge. Nell’ottobre del 1996, il Governatore del Sud Kivu decise di espellere dalla regione entrambi i gruppi etnici in ottemperanza alla risoluzione del Parlamento.

La palese incapacità del regime dittatoriale di Mobutu di risolvere, senza l’uso della violenza, i conflitti interni era dovuta al disimpegno dei suoi alleati occidentali nel contesto della fine della guerra fredda. Mobutu non era più considerato un alleato strategico nella lotta al comunismo in Africa, bensì un compagno scomodo, anche alla luce della violazione dei diritti umani, per esempio il massacro degli studenti universitari a Lubumbashi nel 1990, e della repressione di ogni richiesta di istituzioni democratiche.

Nel biennio 1996-1997 ebbe luogo la Prima Guerra del Congo, che vide insorgere l’area orientale del Paese sotto la guida di Laurent Kabila, leader dell’Alliance des Forces Démocratiques de la Liberation (AFDL), che aveva raccolto intorno a sé i gruppi etnici avversi al regime, tra cui i Mai-Mai e i Banyamulenge. La vittoria di Kabila non sarebbe stata possibile senza l’aiuto finanziario e militare dell’Uganda, del Burundi e del Ruanda, infatti questi tre Paesi decisero nel 1996 di rovesciare Mobutu e instaurare un nuovo Governo a Kinshasa.

Le motivazioni di questo supporto da parte dei vicini del Congo non sono ancora del tutto chiare. Presumibilmente, l’obiettivo primario del Ruanda era quello di sbarazzarsi della minaccia rappresentata dalla milizia Interahamwe («Coloro che combattono insieme», gruppo armato ruandese Hutu responsabile del genocidio del 1994) nel Congo Orientale e sostenere la popolazione Kinyarwanda nel Kivu. L’Uganda e l’Angola erano interessate alla propria sicurezza interna. È molto diffusa la convinzione che il Ruanda e l’Uganda avessero l’intenzione di saccheggiare le ricchezze della Repubblica Democratica del Congo, utilizzando come pretesto la minaccia per il gruppo etnico dei Kinyarwanda nel Kivu.

Nel 1996 il lungo regno dittatoriale di Mobutu cadde.

I conflitti inter-etnici, che hanno avuto un ruolo così preponderante nella storia della maggior parte dei Paesi Africani, presero il sopravvento subito dopo l’insediamento di Kabila.

Al momento della presa del potere, era evidente che molti dei suoi sostenitori, detentori di alte cariche politiche e militari, non parlavano né il francese né il lingala, una delle quattro lingue nazionali. La legittimità di Kabila fu messa sotto accusa dagli oppositori interni, infatti era considerato un fantoccio nelle mani dell’Uganda e del Ruanda. La situazione interna del Congo divenne ancora più precaria quando le pressioni internazionali e nazionali per investigare sui massacri etnici, specialmente di Hutu, avvenuti durante la sua marcia verso Kinshasa, divennero più forti; nel momento in cui i tentativi di Kabila di impedire un’indagine delle Nazioni Unite si dimostrarono infruttuosi, egli si allontanò dai precedenti alleati. Nel contempo, assicuratosi il sostegno della milizia Interahamwe, aveva iniziato una campagna genocidaria contro i Tutsi.

Alla fine del luglio del 1998, Kabila ordinò l’allontanamento di tutti i consiglieri ruandesi e ugandesi da Kinshasa. Questo atto fu considerato un attacco dai suoi ex alleati, che immediatamente si rivolsero contro di lui. Dopo pochi giorni, i Banyamulenge a Goma, con l’aiuto di una parte dell’esercito che aveva sostenuto Mobutu, insorsero, appoggiati dal Ruanda, nel Nord Kivu.

Mentre i gruppi armati ribelli avevano iniziato ad agire, l’ala politica di questa nuova rivolta doveva ancora costituirsi, evento che avvenne dieci giorni dopo, il 12 agosto, quando si formò il Congolese Rally for Democracy (RCD). Entro due settimane, l’RCD – dopo il dirottamento di un aereo con l’aiuto delle forze armate ugandesi e ruandesi – aveva stabilito le sue truppe nel Congo Occidentale e controllava la centrale idroelettrica di Inga e il porto di Matadi. Solo una settimana più tardi, conquistava la città di Kisangani e minacciava Kinshasa.

Nel mese di settembre, fu fondato un altro gruppo ribelle: il Mouvement de Libération du Congo (MLC) sotto la guida di Jean-Pierre Bemba, sostenuto dall’Uganda.

L’alleanza tra Uganda e Ruanda non impedì che l’RCD e l’MLC si scontrassero più volte, in particolare durante la battaglia di Kisangani.

Le ragioni della scissione tra Uganda e Ruanda, e di conseguenza dei movimenti da loro sostenuti, sono ancora fonte di discussione, ma la spiegazione più logica sembra essere la mancanza di un accordo sul leader più idoneo e sulla loro quota di saccheggi nella Repubblica Democratica del Congo.

Il Governo di Kabila era seriamente in pericolo, mentre le sue truppe – o almeno quelle che non avevano disertato o si erano rivoltate contro di lui alleandosi con i militanti hutu – stavano combattendo in tutto il Paese. Kabila chiese, quindi, l’aiuto di altri Paesi Africani, assicurandosi il sostegno della Southern African Development Community (SADC) e l’invio di truppe da parte di Angola, Zimbabwe, Namibia, Ciad, Libia e Sudan.

Dal settembre del 1998, si instaurò una guerra multiforme, la Seconda Guerra del Congo o, come spesso è indicata, la «Prima Guerra Mondiale Africana», contrassegnata da diversi accordi e cessate il fuoco non rispettati, nonostante il grande impegno della diplomazia internazionale.

La guerra è continuata ufficialmente fino al 2002. I tentativi di pacificazione avevano portato alla stipula di tre Accordi: nel gennaio del 1999, il cessate il fuoco di Windhoek; nel luglio del 1999, l’Accordo di Lusaka, firmato da Angola, Namibia, Zimbabwe, Ruanda, Uganda, Congo e successivamente dall’MLC, ma non dall’RCD; nell’aprile del 2002, l’Accordo di Sun City.

Le Nazioni Unite furono coinvolte nell’agosto del 1999, dopo l’Accordo di Lusaka. Il primo intervento si concretizzò nell’invio di 90 unità di personale di collegamento per sostenere il cessate il fuoco, ma dal febbraio 2000 la MONUC, Mission des Nations Unies en République Démocratique du Congo, fu composta da 5.537 soldati.

I combattimenti proseguirono con numerosi scontri e offensive in tutto il Paese.

Nel gennaio del 2001 Laurent Kabila fu assassinato e suo figlio Joseph prestò giuramento come Presidente.

In questo periodo, il Congo era «de facto» diviso in tre aree: il territorio schierato con l’Uganda; il territorio schierato con il Ruanda; il territorio controllato dal Governo. In ogni area, erano operative autorità native e milizie etniche e i molti tentativi per mettere fine alla violenza furono vani fino all’Accordo di Sun City, dopo 19 mesi di dialogo inter-congolese. Anche se questo trattato non fermò completamente la guerra, la violenza fu significativamente ridotta. Esso fornì un quadro di riferimento per un Governo unificato, multipartitico e un calendario per le elezioni.

L’Accordo non fu in grado di portare alla formazione di un Governo o alla redazione di una Costituzione, poiché i principali responsabili della guerra non erano concordi sulle condizioni proposte, di conseguenza, l’RCD e diversi partiti dell’opposizione non armata, incluso l’ex Primo Ministro Etienne Tshisekedi, rifiutarono di firmare.

Ulteriori passi furono necessari per porre fine alla guerra: vale a dire un Accordo di pace tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo, siglato a Pretoria in Sud Africa il 30 luglio del 2002, e un Trattato di pace tra la Repubblica Democratica del Congo e l’Uganda, firmato il 6 settembre del 2002 a Luanda in Angola. Il primo Accordo aveva due obiettivi principali: il ritiro dei soldati ruandesi dalla Repubblica Democratica del Congo; il disarmo della milizia Interahamwe e delle ex truppe governative ancora operanti nella Repubblica Democratica del Congo Orientale. Nell’ottobre del 2002, il Ruanda confermò il ritiro delle sue truppe, circostanza convalidata dalla missione ONU. Il secondo Accordo, che prevedeva il ritiro dei soldati ugandesi da Buni, nella provincia di Ituri, ha incontrato molte difficoltà per la sua applicazione pratica.

Soltanto il 17 dicembre del 2002 i belligeranti sono stati pronti a firmare il «Global and All-Inclusive Agreement» che ha indicato il percorso verso un nuovo Governo e ha ufficialmente messo fine alla guerra.

I firmatari sono stati: il Governo Nazionale; l’MLC; l’RCD; l’RCD-ML; l’RCD-N; l’opposizione politica interna; la società civile; i Mai-Mai.

L’Accordo conteneva un piano per unificare il Paese, disarmare e integrare i belligeranti, redigere una Costituzione e tenere elezioni nazionali.

Le conseguenze economiche e sociali della guerra furono devastanti per il Congo, sia in termini umani, milioni di morti, sia in termini materiali, con la distruzione di infrastrutture e la caduta del PIL del 20%.

Dal 2002 al 2006 la Repubblica Democratica del Congo dovette affrontare molteplici sfide, soprattutto in ambito politico, per avviare un vero processo di democratizzazione, che, purtroppo, non è stato completato.

Si insediava un Governo di transizione sotto la presidenza di Joseph Kabila, con quattro Vice Presidenti, in attesa delle elezioni programmate per il 2005.

È di particolare importanza analizzare, fra i vari atti compiuti dal Governo provvisorio, la Legge sulla nazionalità, il Global and Inclusive Act of The Transition del 2002, modificato nel 2004, che avrebbe dovuto porre fine alla disputa sulla nazionalità degli immigrati ruandesi. L’articolo 6 della Legge stabiliva «che ogni persona appartenente ad un gruppo etnico o ad una nazionalità la cui popolazione fosse stata parte del territorio poi divenuto il Congo indipendente, era di origine congolese». Di conseguenza, gli immigrati ruandesi entrati in Congo dopo il 1960 acquisivano la cittadinanza congolese. La Legge non faceva alcun riferimento ai rifugiati tutsi, più di 190.000, che erano immigrati in Congo dopo il 1960 e ai loro figli nati nel Paese. L’articolo 21 della Legge cercava di sanare, almeno in parte, questo vulnus stabilendo che una persona, discendente da immigrati ruandesi, potesse scegliere la nazionalità congolese una volta raggiunta la maggiore età.

La Costituzione del 2006 ristabilì un impianto rappresentativo proporzionale basato su una struttura semi-parlamentare, con l’intento di coniugare il sistema presidenziale e quello parlamentare, apportando una maggiore stabilità politica. Nella prospettiva di evitare ulteriori conflitti fra il Governo Centrale e gli apparati provinciali, si optava per un sistema federale, con la creazione di 25 province, oltre alla capitale.

La nuova Costituzione fu approvata dal Senato e dal Parlamento e confermata, successivamente, da un referendum nel febbraio del 2006.

Il processo elettorale del 2006 rappresentava il più rilevante evento storico in una Nazione che non aveva avuto libere elezioni da quarant’anni. Le elezioni sembrarono portare una ventata di aria fresca nel dibattito istituzionale, creando la speranza che le istituzioni dello Stato e il Governo Centrale potessero usufruire di una maggiore legittimità.

Il primo turno delle elezioni presidenziali si tenne nel luglio del 2006. Dato il risultato delle votazioni, Kabila ottenne il 45% e lo sfidante Bemba il 20%, fu necessario un secondo turno. Il clima nel Paese era molto instabile e turbolento, infatti si verificarono dei disordini nella capitale, che furono tenuti sotto controllo dalle truppe della Missione ONU.

Entrambi i candidati costruirono delle alleanze con dei partiti i cui candidati Presidenti non avevano ottenuto un grande risultato elettorale; Kabila formò l’Alliance de la Majorité Présidentielle (AMP), che comprendeva 31 partiti politici, mentre Bemba fondò il Regroupement des Nationalistes Congolais (RENACO), composto da 23 formazioni politiche. Il secondo turno si tenne nell’ottobre del 2006, consegnando la vittoria a Joseph Kabila, che divenne Presidente, mettendo così fine al periodo di transizione. Kabila scelse come Primo Ministro Antoine Gizenga, un anziano uomo politico che nel 1960 era stato Vice Primo Ministro.

Sotto il profilo economico, il nuovo Governo iniziò subito a lavorare con il Fondo Monetario Internazionale e con la Banca Mondiale per risolvere i problemi legati alle entrate dello Stato. La creazione di nuove regole economiche comportò conseguentemente la realizzazione di un nuovo quadro giuridico che indirizzasse le diverse sfere dell’economia nazionale.

L’insediamento del Governo di Kabila non risolse le difficoltà legate alla progressiva etnicizzazione della sfera politica, infatti la maggior parte delle formazioni politiche si basava sull’appartenenza etnica. Inoltre, durante la campagna per le elezioni presidenziali, l’appartenenza etnica dei candidati fu al centro della discussione pubblica, tanto che lo stesso Kabila era stato accusato dall’avversario Jean-Pierre Bemba di non essere congolese, bensì ruandese, poiché parlava malamente il francese e per niente il lingala.

La situazione interna del Paese si mostrava ancora molto instabile e complessa, dal momento che molte delle milizie presenti durante la guerra non erano state ancora smantellate, costituendo un ulteriore elemento di insicurezza. Il contesto era reso ancora più difficile dalle continue diatribe in merito alla cittadinanza congolese degli immigrati ruandesi, specialmente di etnia tutsi, che erano effettivamente discriminati anche a livello politico, infatti nelle elezioni del 2006 soltanto un Tutsi era stato eletto all’Assemblea Provinciale di Masisi.

L’area del Paese che più mostrava i segni premonitori di una esplosione di violenza era il Kivu, in cui si concentravano le milizie di etnia tutsi, che non avevano alcuna intenzione di entrare a far parte dell’esercito nazionale.

Dal 2004, dopo aver dichiaro illegittimo il Governo, il Generale Laurent Nkunda Batware, di etnia tutsi, si ritirò nel Nord Kivu, iniziando un duro conflitto con lo Stato Centrale.

Le elezioni presidenziali del 2011, sulla cui regolarità persistono molti dubbi, riconfermarono Kabila alla Presidenza. Il Presidente uscente si impose con il 48,95% dei voti contro il 32,33% ottenuto da Etienne Tshisekedi, leader dell’Union pour la Democratie et le Progress Social, UDSP.

Il Governo e il Congrès National pour la Défense du Peuple, la formazione militare creata dal Generale Laurent Nkunda e successivamente guidata dal suo luogotenente Bosco Ndaganda, firmarono un Accordo di cessate il fuoco nel 2009, accordo che si è rivelato, nondimeno, molto fragile.

Nel novembre del 2008 si riaccese la guerriglia nel distretto dell’Haut Uélé, con l’attacco a diverse città da parte del Lord’s Resistance Army, un gruppo ribelle ugandese guidato da Joseph Kony.

L’analisi storica delle guerre civili congolesi ha permesso di comprendere come uno dei fattori determinanti per la nascita dei conflitti nella Repubblica Democratica del Congo sia il difficile rapporto tra il debole Stato Centrale e le autorità locali, rapporto complicato dalla mancanza di chiarezza sulla divisione dei poteri, soprattutto per quanto concerne la giurisprudenza sulla terra. Tale carenza legislativa ha generato un vuoto di potere foriero di ribellioni e scontri.

Infine, la manipolazione delle Leggi sulla nazionalità ha emarginato gli immigrati del Ruanda e del Burundi, perpetuando, altresì, l’antagonismo tra gli altri gruppi etnici. Le politiche dell’esclusione sono alla base dei conflitti nella Repubblica Democratica del Congo e, di conseguenza, dell’estensione di questi stessi conflitti negli Stati vicini. In particolare, il coinvolgimento delle Nazioni confinanti, durante la Prima Guerra del Congo, fu dovuto alla richiesta di aiuto da parte di quei gruppi etnici considerati stranieri. Il Congo appare affetto, secondo la definizione di Huntington, dalla «sindrome della discendenza nazionale», elemento fondamentale dell’internazionalizzazione della guerra civile nel Paese.

Attualmente, la Repubblica Democratica del Congo continua a vivere un clima molto instabile; il Governo Centrale controlla solo la parte occidentale del territorio nazionale, poiché, nelle province orientali, milizie, bande armate e gruppi ribelli di altri Stati compiono razzie e violenze ai danni della popolazione civile.


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(maggio 2016)

Tag: Daniela Franceschi, Africa, conflitto in Congo, guerre civili, Congo Belga, Zaire, Stato libero del Congo, Congo-Lèopoldville, Congo-Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, Belgio, colonizzazione, Europa, decolonizzazione, indipendenza, Re Leopoldo II del Belgio, 1960, Regione dei Grandi Laghi, Nord e Sud Kivu, Katanga, RDC, Africa Centrale, guerra civile, ADF-NALU, Allied Democratic Forces / National Army for the Liberation of, Uganda, AFDL, l’Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo, Laurent-Désiré Kabila, Joseph Kabila, Henry Morton Stanley, Patrice Lumumba, Mobutu Sese Seko, ANR, Agence Nationale de Renseignement (Congolese intelligence agency), APR, Armée Patriotique Rwandaise (ex-Rwandan army), AU, African Union, CAR, Central African Republic, CIAT, Comité International d’Accompagnement de la Transition (International Committee to Support Transition), CNDP, Congrès National pour la Défense du Peuple (National Congress for the Defence of the People), CNS, Conferènce Nationale Souveraine (Conference for National Sovereignty), DDR, Disarmament, Demobilisation, and Reintegration of national armed groups, DDRRR, Disarmament, Demobilisation, Repatriation, Resettlement, and Reintegration of foreign armed groups, DDR(RR), DDR and DDRRR programmes, Unione Europea, FAC, Forces Armées Congolaises, FARDC, Forces Armées de la République Démocratique du Congo, FAZ, Forces Armées Zaïroises, FNL, Forces Nationales de Libération (Burundian Rebel Group), FDLR, Forces Démocratiques pour la Libération du Rwanda (Democratic Forces for the Liberation of Rwanda (Rwandan Hutu militia formed by the Rwandan Interahamwe in the DRC), FRF, Forces Républicaines Fédéralistes (Mai – Fizi - Minembwe), INGO, International Non-Governmental Organisation, IDPs, Internally Displaced Persons, ISSSS, International Security and Stabilization Support Strategy (ex-UNSSSS), International support of STAREC, LRA, Lord’s Resistance Army, Joseph Kony, MLC, Mouvement de Libération du Congo, Jean-Pierre Bemba, MNC, Multinational Corporation, MONUC, Mission de l’Organisation des Nations Unies au Congo (United Nations Observation Mission in the DRC), MONUSCO, Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la Stabilisation en RD Congo (United Nations Organization Stabilization Mission in DR Congo), NGO, Non-Governmental Organisation, ONG, OAU, Organisation of the African Unity, PARECO, Patriotes Résistants Congolais, Mai, Generale Kakule Sikuli Vasaka Lafontaine, RCD, Rassemblement Congolais pour la Démocratie (Rally for Congolese Democracy), Professor Ernest Wamba dia Wamba, Arthur Zahidi Ngoma, Wamba dia Wamba, Dr. Emile Ilunga, Antipas Mbusa Nyawisi, Roger Lumbala, RDF, Rwandan Defence Forces (Rwandan Army), Simba Mai/ MRS: Simba Mai/ Mouvement Revolutionaire Socialiste, SOCICO, Societé Civile au Congo (Official Structure/Platform of civil society groups in Congo), STAREC, Programme de Stabilisation et de Reconstruction des Zones sortant des Conflits Armés - Government’s Stabilization and Reconstruction Plan for Areas coming out of Armed Conflict, Provinces of North and South Kivu, Maniema, UN, United Nations, UPDS, Union pour la Démocratie et le Progrès Social, UPN-DDR, Unité d’Exécution du Programme National de Désarmement, Démobilisation et Réinsertion (DDR National Programme Execution Unit).