Tortura e pena di morte: la «giustizia» nei Paesi Islamici
La legge islamica, fondata sulla Sharia, viene interpretata in maniera differente in base allo stato nella quale è in vigore ed alla disputa fra reazionari e riformisti; purtroppo, negli ultimi anni molti Paesi dell’area islamica si vanno sempre più radicalizzando nelle forme più violente di repressione dell’illegalità (o del dissenso)

La pena di morte è prevista in quasi tutti i Paesi islamici ed applicata con grande severità, spesso secondo le durissime prescrizioni delle legge coranica (la Sharia) che regola il diritto penale negli stati più conservatori e reazionari.

In questi ultimi (Arabia Saudita, Afghanistan, Pakistan, Iran...) è la pena inflitta per numerosissimi reati: omicidio, corruzione, adulterio, rapina, traffico di droga, blasfemia, dissenso politico eccetera... Le esecuzioni avvengono solitamente in piazze o stadi davanti al pubblico, anche donne e bambini, ed in modo cruento: decapitazione, impiccagione, lapidazione per le adultere; a volte i condannati, secondo un’ancestrale legge del taglione, sono frustati prima dell’esecuzione da parenti delle proprie vittime ed i loro cadaveri sono poi esposti come monito.

La pena di morte colpisce anche gli stranieri, per lo più lavoratori immigrati in quei Paesi (i rari Occidentali condannati di solito la evitano grazie all’intervento dei loro stati di origine), donne (solitamente giustiziate velate) e minorenni. Nei Paesi Islamici laici (Indonesia, Egitto, Iraq, Malesia, Siria eccetera...) non vi sono queste reminiscenze medievali, ma nondimeno la pena di morte è applicata (soprattutto contro oppositori politici e ribelli militari) ed i Governi locali respingono, come ingerenze straniere, ogni tentativo occidentale di contestarla.

Un caso a parte è quello dell’«europea» (rispetto ai suoi vicini islamici...) Turchia le cui leggi prevedono la pena di morte, pur non eseguendo una condanna dal 1984. Indubbiamente la propaganda abolizionista, che ha già colto dei successi in America Latina e nell’ex Unione Sovietica, è malvista in questi Paesi, per motivi politici e culturali, e la speranza di una sparizione, a lungo termine, della pena capitale è collegata al riconoscimento dei diritti umani del cittadino e dello straniero ed alla loro effettiva tutela.

Il complesso di norme religiose, giuridiche e sociali direttamente fondate sulla dottrina coranica prende il nome di Sharia. In quest’ultima convivono regole teologiche, morali, rituali e quelle che noi chiameremmo norme di diritto privato, affiancate da norme fiscali, penali, processuali e di diritto bellico. Sharia significa, alla lettera, «la via da seguire», ma si può anche tradurre con «Legge divina».

La disciplina accademica con cui gli studiosi descrivono ed esplorano la Sharia è chiamata «fikh». Il termine designa un’attività umana, e non può essere attribuita a Dio o al profeta.

Il termine Sharia viene comunque usato per indicare tanto il diritto divino quanto la scienza che studia questo diritto divino.

In Iran, il codice penale islamico prevede la morte mediante lapidazione per le adultere e per alcuni altri reati. Il diritto islamico è il terzo grande sistema giuridico mondiale.

«Islam» significa «totale sottomissione a Dio», e il diritto islamico non si sottrae a questa sottomissione.

Legato ad un testo scritto in arabo, il diritto islamico risente dello spirito della lingua e della cultura araba. Una lingua che riproduce per iscritto le sole consonanti apre la possibilità di complesse dispute filologiche. Inoltre la mentalità araba, più algebrica che geometrica, tende ad aggregare le nozioni, ma non a sistematizzarle: i pochi principi giuridici fissati per l’eternità dal Corano costituiscono perciò la base di una casistica indistricabile per chi l’affronta con mente euclidea o cartesiana.

Vincolato ad un testo sacro, il diritto islamico è subordinato al rituale religioso; quindi la scienza giuridica è vincolata dalla teologia.

Le categorie giuridiche sono più sfumate di quelle europee: mentre per il nostro diritto vige la logica binaria del lecito e dell’illecito, per quello islamico l’atto giuridico può essere obbligatorio, raccomandato, permesso, riprovato e vietato.

Nato da una predicazione rivolta dapprima al commerciante cittadino e poi al beduino guerriero da parte di un profeta vissuto troppo brevemente; subordinato a precetti religiosi e, come questi, immutabile; diffusosi in breve tempo su un territorio che andava dall’Indonesia alla Spagna e dai Balcani alla Nigeria del Nord, il diritto islamico porta con sé una frattura insanabile: il suo adeguamento a tempi e società nuove è incompatibile con la sua intangibilità. Esso poté tuttavia sopravvivere ed estendersi grazie alla capacità di convivere con altri diritti e grazie alla natura delle sue fonti, le quali riuscirono in larga misura a integrare le disposizioni coraniche, pur senza innovarle formalmente.

Il codice penale stabilisce che «per la lapidazione, le pietre non dovrebbero essere tanto grosse da uccidere il condannato al primo o secondo colpo, né tanto piccole da non poter esser definite vere e proprie pietre».

Che dire allora delle punizioni corporali prescritte in regime di Sharia, la legge islamica, invocata da alcuni stati con consistenti minoranze musulmane (come Nigeria o Tanzania) e applicata meticolosamente da nazioni musulmane come l’Arabia Saudita, l’Iran, il Sudan e l’Afghanistan dei Talebani?

La Sharia infatti è legge fondamentale in Arabia Saudita e le pene vengono sanzionate in base alla gravità dei delitti commessi, come ai tempi di Maometto, solo alcuni secoli fa, e vanno dalla morte per decapitazione per delitti di assassinio, di stupro e di traffico di droga, all’amputazione della mano, della gamba o di entrambi per il furto, fino allo scudiscio per pene considerate minori, come la vendita di alcool, il «papagallismo» eccetera.

A tale riguardo, ha destato grande impressione in Gran Bretagna la punizione decretata dal tribunale di Riyadh a quattro cittadini britannici accusati di commercio di bevande alcoliche, «delitto» che in base alla legge islamica merita, come detto, la frusta. Così le autorità saudite hanno condannato gli empi albionici a subire dalle 300 alle 500 frustate ciascuno (oltre a molti mesi di prigione). A 20 scudisciate è stato condannato, come riporta il quotidiano saudita «Al-Madina», un passeggero che non aveva chiuso il telefonino ed aveva risposto ad una telefonata sul cellulare mentre si trovava in volo da Riyadh a Tabuk. Mentre con solo 100 scudisciate è stata punita una donna saudita che seviziava la propria serva-schiava filippina al punto da farla suicidare. In Afghanistan i Talebani, gli «studenti di Dio», avevano iniziato prestissimo ad usare lo scudiscio per imporre al popolo la creazione «del più puro stato islamico del mondo». Per mesi la polizia religiosa ha fustigato ogni giorno centinaia di uomini e di donne per strada, i primi per non essersi lasciati crescere la barba nella misura che i Talebani avevano stabilito come «d’ordinanza» (un pugno di lunghezza dall’osso del mento!) o per avere trasportato in taxi delle donne senza i prescritti accompagnatori maschi di «famiglia», e le donne perché la finestrella di garza del loro burqa lasciava intravedere qualche lineamento del volto, o perché portavano anelli, bracciali o scarpe con il tacco.

In Iran, invece, si può essere condannati alle pene dello staffile e ad altre pene corporali per le ragioni più varie. Frustati sono stati degli spettatori che hanno interrotto uno spettacolo teatrale di un noto comico locale, Hami Reza Mahisefat, frustati sono ogni giorno sulla pubblica piazza centinaia di giovani e meno giovani, ma soprattutto studenti, che vengono puniti per ubriachezza o per aver cercato di «adescare» delle donne per strada. La polizia si è giustificata affermando che tali «infrazioni di legge» sono state commesse in pubblico e che quindi in pubblico vanno punite: come tutte le pene della Sharia, esse vanno comminate in pubblico perché devono servire da esempio al popolo.

Alcuni osservatori ritengono però che l’ondata di impiccagioni per i delitti più gravi e di punizioni corporali per i reati minori sia uno degli aspetti della lotta per il potere tra i riformisti e i sostenitori della linea dura, tanto che essa forma oggetto di disputa religiosa tra i sostenitori della forca, della lapidazione e dello scudiscio come «elemento immutabile della legge islamica» ed i moderati riformisti che sostengono invece che tali punizioni non trovano «conferma e giustificazione nel Corano». I riformisti accusano il potere giudiziario, in mano ai conservatori più reazionari, di deformare il codice islamico per screditare l’azione di liberalizzazione graduale della vita in Iran dopo anni di fondamentalismo komeinista.

In Africa la Sharia è applicata regolarmente in Sudan dove uomini e donne sono passati allo staffile per aver «disturbato l’ordine pubblico» e con ciò viene data libera pratica ad ogni forma di repressione del dissenso: troppo spesso le minoranze, e tra queste quelle cristiane, sono state al centro dell’«attenzione» dei mullah di regime, finendo per far fiorire una guerriglia di carattere non solo tribale ma anche religioso.

Da poco in vigore in alcuni stati della Nigeria, la legge islamica della Sharia sta cercando di recuperare il tempo perduto. Dopo le prime timide prove negli stati di Sokoto e Zamfara, gli stati della federazione a decretare per primi la legge coranica come legge fondamentale, siamo ora alla prova generale della sua tenuta. Dopo avere iniziato con la frusta per punire «reati» minori come l’appropriazione indebita, l’uso e/o smercio di bevande alcoliche, il trasporto di un passeggero femmina sul sellino posteriore di un moto-taxi, si è passati alla fustigazione per reati sessuali: 100 frustate sulla pubblica piazza per un rapporto consumato fuori del matrimonio e via andando.

La condanna capitale è entrata in vigore nel 1999.

Attenti, Italiani, comportatevi bene, altrimenti le leggi islamiche, fra non molto, le dovremo subire sulla nostra pelle.

(aprile 2017)

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