Entebbe
Una spericolata azione di successo

Un’operazione militare, avvenuta quasi mezzo secolo fa e di cui si parlò in tutto il mondo con sorpresa e ammirazione, fu quella portata a termine da un commando di componenti delle forze armate dello Stato d’Israele nell’aeroporto di Entebbe, in Uganda, fra il 27 e il 28 giugno 1976. L’impresa fu condotta con la massima discrezione perché, se fosse trapelato anche solo un piccolo segnale del suo avvenimento, sicuramente il risultato sarebbe stato stravolto e le conseguenze molto più gravi di quanto si è verificato, pur avendo, questa, avuti i risvolti negativi che, disgraziatamente, non mancano mai. E proprio perché si procedette sotto silenzio assoluto, per gli osservatori, interessati o curiosi, non c’è stata nemmeno la possibilità di trepidare per coloro che vi erano direttamente coinvolti, perché quando si venne a sapere il tutto era già finito. Un’operazione condotta strategicamente e tatticamente al massimo, degna di entrare nell’olimpo delle operazioni militari che lasciano il segno nella storia.

Volendo, si potrebbe affermare che è stato un episodio degno della penna del più fantasioso scrittore di romanzi a effetto, tanto sembrò, allora (ma dopo la sua conclusione) da un lato ragionata, ma dall’altro spericolata e con previsione di risultati indolori a speranze ridotte. Anzi, mi viene un dubbio e mi chiedo: se la missione di Entebbe non fosse avvenuta e uno scrittore avesse scritto un romanzo che raccontasse quello che laggiù successe veramente, sarebbe stato credibile o troppo fantasioso? E mi rispondo: ritengo che il giudizio generale sarebbe stato espresso con il pollice verso, essendo la trama troppo irreale. Insomma, anche in questo caso, una volta in più, la realtà ha superato la fantasia.

L’inizio è nella più comune normalità. Il volo 139 di un aereo di linea dell’Air France, l’Airbus A300, partito da Tel Aviv, che fece scalo alle ore 12:30, dopo una sosta nell’aeroporto di Atene, dove imbarcò 58 passeggeri, fra i quali erano due Palestinesi appartenenti al «Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina» (FPLP, un’organizzazione terroristica marxista), e due Tedeschi, Wilfried Böse e Brigitte Kuhlmann, membri del gruppo di estrema sinistra «Revolutionäre Zellen» («Cellule Rivoluzionarie»), era regolarmente decollato e stava volando verso Parigi. A bordo erano 260 persone (148 passeggeri e 12 membri dell’equipaggio).

Era da poco in volo, quando, alle ore 14:10, i quattro, che formavano un commando armato di pistole e bombe a mano, fecero dirottare l’apparecchio verso l’aeroporto di Bengasi in Libia, dando al pilota le giuste coordinate, e ritirarono i passaporti di tutti i passeggeri.

Il dittatore Muammar Gheddafi, informato di quanto stava avvenendo, diede il permesso all’atterraggio dell’aereo e concesse il rifornimento di carburante durante la sosta durata circa sette ore.

Una donna, furbescamente, denunciò un aborto spontaneo che fu creduto e perciò fu rimessa in libertà. Questa, dopo essere giunta a Londra con un volo Lybian Airlines, raccontò quanto era successo e descrisse i quattro dirottatori in modo tale che fu possibile identificarli.

Dopo che un gruppetto di passeggeri fu rilasciato, l’aereo ripartì e, alle ore 3:18 del 28 giugno, atterrò all’aeroporto di Entebbe, una piccola città, sicuramente fino ad allora mai sentita nominare dalla maggior parte della gente, situata sul Lago Victoria nel piccolo Stato dell’Uganda. Aveva appena toccato il suolo, quando l’aereo fu circondato da soldati ugandesi a protezione dei dirottatori.

Il tutto avvenne dopo che il dittatore dell’Uganda Idi Amin Dada, che politicamente era in una posizione a favore dell’Unione Sovietica e dei Palestinesi e in netto contrasto con gli Israeliani, fu informato della richiesta da parte dei dirottatori di poter atterrare; questo pure con l’appoggio del Governo Francese, che riteneva che l’atterraggio a Entebbe avrebbe consentito di dialogare con il commando (meglio lì che non si sa dove): così il dittatore concesse il permesso all’atterraggio. Detto per inciso, Amin lo fece volentieri, giacché era abbastanza contrariato perché gli Israeliani gli avevano negato la fornitura di aerei da combattimento e, pertanto, i rapporti diplomatici erano tesi, se non inesistenti.

E in quel momento, il Primo Ministro Israeliano, Shimon Peres e l’intero Governo Israeliano ne furono informati.

Non appena si seppe la notizia, Radio Uganda la diffuse, associandola ad appelli di rivolta contro Israele e la Francia.

Una volta a terra, ai quattro dirottatori si aggiunsero quattro terroristi. Senza perdere tempo, furono comunicate le loro richieste: 5 milioni di dollari e la liberazione di 53 Palestinesi rinchiusi in varie carceri di Israele, Kenia, Francia, Svizzera e Germania, dando come termine improrogabile le ore 14:00 del 1° luglio 1976; superato inutilmente il quale, si sarebbe dato il via all’uccisione degli ostaggi. Tutto questo fu diffuso anche da Radio Uganda.

Intanto, i terroristi fecero una selezione dei prigionieri e liberarono coloro che non erano né Israeliani né Ebrei, trattenendo i 105 rimanenti. Quando si seppe della «cernita» effettuata, non mancò lo scoppio di critiche, che vennero anche da simpatizzanti dei Palestinesi, in quanto questa aveva fatto ripensare al comportamento nazifascista durante l’ultima guerra mondiale.

Il comandante dell’aereo, Michel Bacos e il suo equipaggio, cui fu proposto di accodarsi ai passeggeri liberati e imbarcati su un altro aereo francese in partenza per la Francia, rifiutarono per non abbandonare le persone che erano state loro affidate. Quindi, tutti i prigionieri furono chiusi nel terminal, cioè nell’edificio al servizio dell’aeroporto. Il loro sostentamento era garantito da pasti forniti da Amin.

Furono iniziate trattative diplomatiche per giungere alla liberazione degli ostaggi. Passarono diversi giorni, ma le trattative condotte dal Governo Israeliano nella figura di Yitzhak Rabin non portarono a nessuna conclusione. Ci fu anche l’intervento di un Generale a riposo, Chaim Bar-Lev, che provò a risolvere la controversia telefonicamente con Amin, che conosceva personalmente, ma inutilmente. L’unico fatto positivo fu che si ebbero tre giorni di proroga sul termine fissato.

E a quel punto, come Giulio Cesare nell’attraversare il Rubicone, che disse «alea iacta est» («il dado è tratto»), si giunse alla grande decisione: si sarebbe fatta un’azione di forza per liberare i passeggeri prigionieri in Uganda. Per cui, d’accordo con il Ministro Shimon Peres, si decise per l’intervento armato.

L’organizzazione dell’intervento fu favorita da un colpo di fortuna: in anni precedenti, il terminal dell’aeroporto di Entebbe era stato progettato e costruito da un’impresa israeliana e tutta quanta la documentazione relativa fu messa a disposizione. E i tecnici, fatti intervenire di proposito, immediatamente fecero approntare una copia esatta dell’edificio aeroportuale di Entebbe, in modo tale che gli incursori potessero muoversi rapidamente su un terreno noto. Tutto quanto fu orchestrato nella massima riservatezza, in modo che nulla potesse trapelare e giungere alle orecchie dei «curiosoni» che ci sono sempre in situazioni analoghe; questo è dimostrato anche dal fatto che coloro che lavorarono alla ricostruzione del terminal furono trattenuti come «graditi ospiti» dei militari fino alla conclusione dell’operazione.

In ogni modo, si trattava di un’impresa militare complessa e piena di possibili imprevisti: non si presentava sicuramente facile, se si considera che bisognava trasportare molti soldati, con il compito di spianare il terreno per l’evacuazione dei prigionieri, lungo un percorso di diverse migliaia di chilometri su un terreno ostile, per atterrare dove la loro presenza era tutt’altro che gradita. Particolare attenzione fu prestata nel decidere la rotta da seguire, perché, considerato che Israele non aveva tanti amici in Africa, nel cui centro si doveva atterrare, bisognava starne alla larga: evitare l’Arabia Saudita, volare lungo il Mar Rosso, fare rifornimento a Gibuti, sullo Stretto fra Arabia e Africa, e quindi, dopo aver girato alla larga dalla Somalia e dai suoi radar, deviare verso l’interno, sorvolando il Kenia e il Lago Victoria.

D’altra parte, era necessario decidere in fretta, perché stava per scadere il tempo concesso dai dirottatori per soddisfare le loro richieste e si temeva che essi avrebbero mantenuto la promessa di far saltare in aria il terminal con dentro tutti gli ostaggi rimasti (forse era una minaccia e nulla di più, perché non si va a distruggere un fabbricato aeroportuale a casa d’altri). Alla fine, alle ore 18:30 del 3 luglio, si diede il via all’operazione «Mivtsa‘ Kadur Ha-ra‘am», cioè «Operazione Fulmine» («Thunderbolt» in inglese).

E il 4 luglio quattro aerei da trasporto C-130 Hercules dell’Aviazione Militare Israeliana (Heyl Ha’Avir) e due Boeing 707, sotto la scorta di caccia Phantom, decollarono da Tel Aviv, destinazione Uganda con a bordo un paio di centinaia di soldati, in parte dell’esercito e in parte appartenenti al Sayeret Matkal (forze speciali dell’esercito israeliano). La scelta di quel tipo di aerei non fu casuale, giacché essi hanno il privilegio di poter caricare molto materiale, di non avere difficoltà nel volare a quota relativamente bassa e di poter atterrare in piste anche corte. Il programma prevedeva l’atterraggio del primo aereo, con gli incursori che avrebbero avuto il compito più pesante, cioè quello di affrontare le sicure reazioni violente, di individuare dove fossero gli ostaggi e di indirizzarli verso il secondo e il terzo aereo, che sarebbero atterrati dopo una decina di minuti, per esservi imbarcati; i militari del quarto aereo sarebbero scesi e rimasti in attesa, pronti a dare manforte a quelli del primo qualora si fossero trovati in difficoltà.

Volarono senza fari di segnalazione, il più vicino possibile al mare, al suolo e all’acqua del Lago Victoria per non farsi intercettare, finché, dopo più di 4.000 chilometri, il primo aereo atterrò a Entebbe, alle ore 23:00. Nel frattempo, un Boeing 707, attrezzato per il pronto soccorso, aveva avuto dal Governo Keniota il permesso di atterrare a Nairobi, dopo che era stato comunicato quanto stava bollendo in pentola; permesso dato volentieri perché il Governo del Kenya era ai ferri corti con quello di Amin Dada. Un altro Boeing 707 dirigeva dall’alto le operazioni.

Non appena toccato terra, furono aperti i portelloni e scesero sulla pista una Mercedes nera e due Land Rover, con bandiere dell’Uganda e con un gruppo di incursori con le divise militari locali: la messinscena doveva dare al personale di terra e ai terroristi l’impressione che il dittatore fosse arrivato urgentemente senza preavviso, disorientandoli completamente. Gli Ugandesi, impressionati dalla colonna, la lasciarono avvicinare al terminal, ma una sentinella (questa la ricostruzione), avendo notato che l’auto era nera, mentre quella di Amin era bianca, si insospettì, e questo le costò la vita, perché gli Israeliani non esitarono a spararle con un’arma silenziata. Il collega sparò e pertanto gli fu riservato lo stesso trattamento. Purtroppo, lo sparo ruppe l’incantesimo e ci fu una sparatoria da entrambe le parti. Alla fine rimasero a terra diversi soldati ugandesi e il comandante degli incursori ,Yonathan Netanyahu.

Intanto, un gruppo di assaltatori raggiunse il terminal, vi entrò, trovò i prigionieri. Gli Israeliani gridarono in ebraico di stare giù e che loro erano l’esercito israeliano, ma per uno di loro, il diciannovenne Jean Jacques Maimoni, la mancanza della conoscenza della lingua fu la condanna a morte, perché, disorientato, non si buttò a terra e loro, credendolo un terrorista, non esitarono a sparargli. La stessa fine fu riservata ad altri tre: però non fu un errore, questa volta, giacché questi erano dirottatori, che tentarono invano di opporsi all’attacco. Chiesero poi agli ostaggi dove si trovassero i terroristi; questi indicarono una porta. I soldati la sfondarono e, dopo aver gettato all’interno granate stordenti e lacrimogeni, entrarono e uccisero i tre dirottatori presenti, che erano rintronati per le esplosioni. Fatto questo, ci fu un rapido ritorno agli aerei, sollecitando i prigionieri a salire a bordo. Intanto gli Ugandesi, che finalmente si erano resi conto che si trovavano in mezzo a un’operazione atta a liberare i passeggeri, dalla vecchia torre di controllo avevano iniziato a sparare contro coloro che correvano verso gli aerei. La reazione degli Israeliani fu immediata e con lanciarazzi riuscirono a far tacere ogni forma di reazione armata. Purtroppo, però, il tutto non era stato indolore, poiché erano rimasti uccisi Pasco Cohen, la signora Ida Borochowitz e – come già detto – Yonathan Netanyahu, fratello di Benjamin.

Prima di prendere il volo, un gruppo di incursori distrusse 11 caccia MIG-17, forniti dalla Russia all’Uganda, disposti in bella fila, per impedire che potessero inseguire gli Hercules che, dopo una sosta tecnica effettuata a Nairobi, proseguirono il loro volo di ritorno verso Tel Aviv.

Stando a quanto è stato comunicato, l’operazione si era conclusa in 53 minuti.

Facendo il consuntivo dell’intera impresa, dei 103 prigionieri morirono tre civili (uno ucciso per errore e due durante l’imbarco sugli aerei) e un militare, Yonathan Netanyahu, oltre a sei dirottatori; cinque soldati furono feriti e, di questi, Sorin Hershko in modo invalidante. Una passeggera, la settantacinquenne Dora Bloch, che si era sentita male al momento dell’attacco, era ricoverata nell’ospedale di Kampala; all’indomani dell’attacco scomparì e, dopo che Amin lasciò il potere, ne trovarono i resti. Solamente nell’aprile del 1987 si seppe la verità, quando il Ministro della Sanità dell’Uganda, Henry Kyemba, comunicò alla Commissione dei Diritti Umani Ugandese che la poveretta era stata portata via dal suo letto da due ufficiali che, poi, l’avevano uccisa per ordine di Amin. Fra gli Ugandesi, non si sa con precisione quanti furono i morti: si parla di una cifra compresa fra 12 e 45.

In definitiva, si è trattato di un’operazione studiata e portata a termine in un modo che, forse, migliore non sarebbe potuto essere.

Le reazioni di Amin furono a livello della sua cattiveria e della sua ferocia: funzionari furono cacciati, perché non avevano fatto fino in fondo il loro dovere o perché in quel momento erano assenti ingiustificati, secondo lui; inoltre, centinaia di Kenioti che vivevano in Uganda furono eliminati come ritorsione al supporto dato allo Stato Isreliano, e altro ancora. L’attrito fra l’Uganda e il Kenia divenne talmente aspro che scoppiò una guerra fra i due Stati che si concluse con la fine della dittatura di Amin. In Israele, malgrado il dolore per la perdita di tre ostaggi e del comandante, furono soddisfatti di quanto erano riusciti a ottenere.

La morte di Yonathan Netanyahu fu un trampolino di lancio nella carriera politica per il fratello Benjamin, che tuttora è Primo Ministro del Governo d’Israele. L’«Operazione Entebbe» fu poi ribattezzata «Operazione Yonathan», in onore dell’unico incursore rimasto ucciso nella sparatoria.

Un neo, in questa faccenda, sta nella punizione subita dal comandante dell’aereo dirottato per essersi rifiutato, insieme a tutti i membri del suo equipaggio, di abbandonare gli ostaggi, che erano passeggeri affidati alle sue cure: infatti, ebbe una lunga sospensione dal lavoro, punizione che si meritò una disapprovazione generale.

Tanto che, per questo atto, il Presidente della Repubblica Francese Valéry Giscard d’Estaing gli conferì la Legion d’Onore, mentre ebbe un’onorificenza da parte dell’Organizzazione Ebraica «Bené Berith» («Figli dell’Alleanza»). Tutti i componenti dell’equipaggio ebbero la soddisfazione di ricevere un’onorificenza dallo Stato d’Israele.

Fu un’operazione da manuale, se si vuole, che dimostra come talora il voler raggiungere certi obiettivi richieda decisione, coraggio e spregiudicatezza, doti che consentono di raggiungere fini che il buon senso ritiene siano assolutamente irrealizzabili.

(settembre 2023)

Tag: Mario Zaniboni, Entebbe, Uganda, Airbus A300, Tel Aviv, Atene, Bengasi, FPLP, RZ, Gheddafi, Dada, Bacos, Gibuti, Rabin, Operazione Fulmine, C130 Hercules, Phantom, Jonathan Netanyahu, Giscard d’Estaing.