Divisioni etniche, settarie e religiose nella storia dell’Iraq
Come le recenti tensioni etno-religiose rendono difficoltoso tenere un Iraq unito e pacifico

La regione in cui si trova oggi l’odierno Iraq è stata sede di molte culture e civiltà diverse, le quali hanno lasciato un segno nel tessuto sociale del Paese. La storia moderna dell’Iraq è una storia complessa e colma di conflitti che lo hanno portato ad affrontare colpi di stato, sconvolgimenti politici e guerre. Tali conflitti, specialmente quelli che hanno avuto luogo durante il regime del Partito Baath di Saddam Hussein e l’occupazione della Coalizione nel 2003, hanno traumatizzato la società irachena nel suo insieme, provocando profonde spaccature nelle sue molteplici comunità etniche e religiose.

Il presente articolo esamina il contesto politico iracheno nel suo complesso, focalizzando l’attenzione sulle tensioni etno-religiose che hanno contrassegnato la storia dell’Iraq contemporaneo.

L’Iraq attuale è una società multietnica e multireligiosa, in cui la popolazione araba ammonta al 75-80%, quella curda al 15-20% e altre minoranze, come Turcomanni e Assiri, costituiscono il 5% della popolazione. Il 99% della popolazione è musulmana, divisa tra il 60-65% sciita e 32-37% sunnita. I Cristiani, con le altre confessioni, rappresentano lo 0,8%. Arabi sunniti, Arabi sciiti e Curdi sono i tre più consistenti gruppi etno-religiosi del Paese.

Storicamente, le ostilità tra popolazione sciita e sunnita in quello che è adesso l’Iraq sono state sporadiche; infatti, i primi governanti ottomani del Paese non mostrarono un’aperta ostilità verso la popolazione sciita fintanto che questa non si oppose ad un governante sunnita e non fu messa in pericolo la stabilità del territorio. Sebbene la tolleranza tra le comunità si trasformasse in ostilità durante l’Impero Ottomano e l’Impero Persiano, la violenza tra la popolazione sciita e quella sunnita rimase un fatto raro. La persecuzione delle altre comunità, come Curdi, Ebrei e Cristiani, fu sporadica e dipendente dai dominanti. Nel corso del XIX secolo, l’indebolito Impero Ottomano varò delle riforme per centralizzare il potere a Baghdad e modernizzare l’esercito; la partecipazione degli sciiti in queste istituzioni fu bassa, facendo emergere una classe tecnocratica e militare sunnita.

La Prima Guerra Mondiale vide l’aumento dei sentimenti nazionalisti nel Paese, che condussero ad una ribellione contro l’Impero Ottomano, ribellione sostenuta e supportata dall’Inghilterra con la promessa dell’indipendenza. La rivolta di Armeni e Assiri Cristiani nella regione fu sottoposta ad una violenta repressione, mentre la ribellione araba, essendo maggiormente organizzata, ebbe più successo. Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, le promesse di indipendenza non furono rispettate, infatti Inghilterra e Francia si spartirono la Siria e l’Iraq attraverso la sottoscrizione dell’Accordo Sykes-Picot. La mancata indipendenza provocava una nuova ondata di ribellione contro l’occupazione inglese; già nel 1918, le autorità inglesi furono sfidate dalla resistenza a Najaf e nel 1919 i Curdi, che inizialmente avevano accolto positivamente la Gran Bretagna, si ribellarono con l’obiettivo di formare uno stato indipendente curdo sotto la guida di Shaikk Mahmud. La resistenza contro l’occupazione inglese portò ad una unione delle comunità sunnite e sciite, che diedero vita alla grande rivolta del 1920. Sebbene inizialmente unita, le fratture all’interno della resistenza si svilupparono presto: i notabili urbani sunniti erano sospettosi della maggioranza sciita, inoltre la popolazione araba sciita intorno alla città di Bassora non era disposta a partecipare alla ribellione, a causa dei benefici economici che l’attività britannica aveva portato alla regione, mentre i Curdi, anche se interessati all’indipendenza, non aderirono alla rivolta a causa del sospetto verso gli Arabi. La ribellione ottenne un vasto appoggio dalla popolazione sciita di Najaf e Karbala, ma non possedendo un effettivo coordinamento fu soppressa dalle autorità britanniche.

Anche se si concluse con un insuccesso, l’insurrezione dimostrò che l’occupazione britannica era insostenibile, portando, di conseguenza, all’instaurazione di Faisal al-Awwal ibn al-Husayn ibn Ali al-Hashimi come Re nel 1921 e all’istituzione del mandato britannico. Consapevole della sua mancanza di popolarità, della sua posizione subordinata all’autorità inglese e della natura frammentaria della società irachena, Faisal cercò di ottenere una reale indipendenza dagli Inglesi e integrare l’Iraq in una struttura unitaria in cui le singole comunità sentissero rappresentati i loro interessi. Tuttavia, i tentativi di Faisal di creare una identità irachena unitaria, compresi i Curdi e gli sciiti arabi, non ottennero molti successi: la centralizzazione del potere a Baghdad, la mancanza di esperti tecnocratici sciiti e il sospetto verso la popolazione sciita in seguito alla ribellione finirono per favorire gli Arabi sunniti, replicando l’ordine sociale stabilito durante l’epoca ottomana. La formale dichiarazione di indipendenza del 1932 non eliminò tali squilibri strutturali, infatti, anche se Faisal era a conoscenza della situazione, non aveva interesse a rovesciare un sistema su cui aveva costruito la sua autorità, dando inizio invece ad un graduale aumento delle divisioni. Gli sforzi per placare la comunità sciita, dopo le rivolte seguite all’etichettatura come traditori da parte di un funzionario del Governo sunnita, furono minimi e il dispiegamento militare contro i Cristiani Assiri a seguito della rottura dei colloqui per quanto riguardava la loro autonomia furono interpretati come una grande vittoria per l’integrità nazionale.

Il figlio di Faisal, Ghazi, salì al trono nel 1933 alla morte del padre; il nuovo regnante favorì ampiamente l’ideologia pan-arabista, avvicinandosi all’élite sunnita a scapito delle relazioni con gli Sciiti, i Curdi e le altre minoranze, con una conseguente esplosione periodica di violenza e disordine tribale per alcune politiche governative, come la coscrizione o l’esclusione da parte del Governo. La soppressione dei disordini tribali sciiti nella zona dell’Eufrate e di quelli curdi e yazidi nella regione curda vicino a Sinjar nel 1936 eliminò la maggiore minaccia diretta per il Governo, ma non le cause, infatti la successiva repressione governativa del dissenso incoraggiò le divisioni all’interno del Paese.

La soppressione delle ribellioni etno-settarie e tribali non stabilizzò il Governo, che continuò a soffrire per le lotte politiche al suo interno anche durante la Seconda Guerra Mondiale. L’evento più significativo fu il colpo di stato del 1941 che portò il politico nazionalista Rashid Ali al-Kaylani al potere supportato da quattro Generali dell’esercito. L’obiettivo di Rashid Ali era di approfittare del conflitto per diminuire l’influenza britannica in Iraq, cooperando con le potenze dell’Asse; le autorità inglesi, allarmate da questa impostazione, intervennero nel Paese per ripristinare la precedente autorità. Sebbene il colpo di stato non avesse successo, rafforzò il sentimento dell’opinione pubblica secondo il quale l’esercito era un protettore dell’interesse nazionale. L’uso di militari di leva cristiani assiri e il serpeggiante sentimento antisionista, che derivava dal mandato britannico sulla Palestina, furono la causa degli attacchi alle comunità ebraiche irachene da parte dei nazionalisti, che le consideravano una quinta colonna inglese.

Il regime monarchico crollò nel 1958, dopo un colpo di stato organizzato dal Generale Abd Al-Karim Qasim, che cercò di sottolineare la secolare unità nazionale dell’Iraq, sminuendo le divisioni etno-settarie, dato il suo background in parte sunnita, sciita e curdo. Anche se all’inizio del regime furono concessi significativi diritti politici, questi furono gradualmente erosi con il crescere del dissenso. Le politiche di Qasim verso il Partito Democratico Curdo, sebbene concilianti nei toni, non erano garanzia per i diritti su cui i Curdi stavano negoziando, tanto che diedero vita ad una escalation della violenza dal 1961. Il Partito Democratico Curdo si rivolse al pan-arabista Partito Baath, scontento per la politica estera di isolamento dell’Iraq, mettendo in atto un colpo di stato nel 1963 che portò alla morte di molti dei sostenitori del regime, tra cui esponenti del Partito Comunista Iracheno che Qasim aveva cooptato nell’Esecutivo. Il colpo di stato fu anche il risultato dell’alleanza tra il Partito Baatista e i militari.

Il nuovo Governo, guidato da Abd al-Salam Arif, iniziò un ciclo di negoziati con i Curdi che si rivelarono infruttuosi, tanto che vi fu una ripresa degli scontri.

È interessante notare che dallo stesso anno il Partito Baath governò anche in Siria, ciò nonostante vi fu sempre rivalità tra i due regimi baatisti durante il regime di Saddam Hussein. Il Partito Baath era stato fondato nel 1940 dal filosofo cristiano libanese Michel Aflaq come movimento pan-arabo socialista, il cui scopo era ridurre le divisioni religiose e settarie tra gli Arabi.

Nel novembre del 1963, Arif epurò dal Partito Baath tutti gli oppositori, tra cui il Primo Ministro Ahmad Hasan al-Bakr, e istituì un Governo militare diretto. Arif morì in un incidente aereo nel 1966 e fu sostituito dal fratello maggiore, Abd al-Rahim al-Arif. Dopo la presa del potere da parte del Partito Baath nel 1968, Bakr tornò al Governo come Presidente dell’Iraq e Saddam Hussein, un civile, divenne il numero due del regime, vice-presidente del comando Supremo del Consiglio Rivoluzionario. In questa funzione, Saddam sviluppò i servizi di sicurezza che si sarebbero sovrapposti alle istituzioni irachene, comprese quelle militari, per monitorare la fedeltà della popolazione al regime. Il 17 luglio del 1979, data l’età avanzata, al-Bakr si dimise su pressione di Saddam che divenne Presidente dell’Iraq. Sotto il suo Governo, i laici sciiti ottennero delle cariche elevate nel Partito, ma i sunniti, per la maggior parte della sua città natale, Tikrit, dominarono le posizioni più alte.

Al momento del suo arrivo al potere, Arif cercò di consolidare la sua posizione promuovendo il clientelismo per prevenire un colpo di stato in grado di deporlo, colpo di stato che lui stesso aveva usato per arrivare al comando. Eliminò dal Partito Baath i gruppi che avrebbero potuto minacciarlo e che non aderivano al suo pan-arabismo e istituì la Guardia Repubblicana Irachena, proveniente dalla sua stessa tribù di al-Jumailat intorno a Ramadi. Le purghe consolidarono indirettamente la presenza e l’identità sunnite.

Il nuovo regime avviò un ambizioso ed ampio processo di modernizzazione, che comprendeva l’espropriazione dei latifondi di terra nell’Iraq Meridionale. In questa zona del Paese, gli sceicchi tribali sciiti si erano trasformati in proprietari, e le loro tribù in mezzadri. Ciò aveva indebolito i tradizionali meccanismi di controllo politico e sociale della popolazione sciita, in combinazione con un esodo massiccio dalla campagna alla città e una maggiore educazione della popolazione, inducendo molti sciiti ad impegnarsi nella politica laica al fine di affrontare i loro problemi sociali. Tra il 1958 e il 1979 – l’anno in cui Saddam Hussein prese il pieno e formale controllo del Partito Baath – il Partito Comunista dell’Iraq (il più grande del Medioriente) e il Baath erano le formazioni politiche scelte dagli sciiti iracheni per entrare nell’arena politica.

Alla fine degli anni Cinquanta, un secondo filone di mobilitazione politica sciita emerse con la fondazione del Partito Da’wa. L’ideologia del Da’wa (che significa chiamata o invito per l’Islam in arabo) è stata in un primo momento pan-islamista, giudicando basilare l’impegno dei musulmani nella moderna società, sulla base di riflessioni su come implementare la volontà di Dio nella vita sociale moderna. Come per altri Partiti islamisti nel resto del Medioriente, il focus iniziale del Da’wa era quindi sulla vita culturale e sociale piuttosto che sulla politica e lo stato. I sostenitori erano tutti sciiti e il Partito, in realtà, ebbe fin dall’inizio un elettorato prevalentemente sciita. Da’wa fu organizzato secondo linee molto centraliste e segrete, e anche se i religiosi ebbero un ruolo rilevate non ne ottennero la leadership assoluta. In questo periodo l’Ayatollah principale era Mohsen al-Hakim, appartenente al filone «quietista», che incoraggiò lo sviluppo del Da’wa credendo che sarebbe stato utile per preservare le prerogative del clero sciita. Nella tradizione sciita, il termine quietismo fa riferimento ad un clero che rimane in disparte rispetto alla politica, riservandosi il ruolo di osservatore e critico degli eventi politici e sociali, intervenendo con forza soltanto in occasioni particolari come le crisi nazionali e sociali.

L’espropriazione della terra, definita «waqf» (vale a dire le donazioni pie), effettuata dai regimi post 1958, minò l’indipendenza economica del clero, creando un problema che al-Hakim credeva potesse essere risolto dal Da’wa. Il legame tra al-Hakim e il Da’wa è proseguito attraverso i suoi figli, tra i quali Muhammad Baqir al-Hakim ha svolto un ruolo centrale come capo del Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq. Alla morte di Mohsen al-Hakim nel 1970, gli successe il quietista Abol-Qasem al Khoei, molto popolare tra gli sciiti di tutto il Medioriente, che seguì la linea del predecessore nel perseguire un delicato equilibrio con il regime autoritario post 1958.

La morte inaspettata di Arif evidenziò la debolezza del sistema clientelare, e il suo successore e fratello Abd al-Rahman fu incapace di prendere il controllo del sistema clientelare già instaurato. La sua decisione di offrire un programma che tenesse conto del carattere bi-nazionale del Paese, arabo e curdo, vide la reazione violenta da parte degli ufficiali sunniti e del clero sciita. Inoltre, la limitata presenza comunista nelle zone meridionali del Paese, rese possibile al Partito Baath attuare un colpo di stato nel 1968 che portò il Generale Ahmed Hassan al-Bakr e nel 1979 Saddam Hussein al potere sopprimendo il dissenso politico e ripristinando il sistema clientelare favorevole alle connessioni tribali, che invariabilmente avvantaggiavano le tribù sunnite del Nord-Ovest dell’Iraq, promuovendo, al contempo, un’ideologia ampiamente pan-arabista sospettosa nei riguardi degli Sciiti e dei Curdi.

I risultati di questo contesto erano evidenti. Anche se il Governo del Partito Baath aveva nominato dei rappresentanti del Partito Democratico Curdo, guidato da Mustafa Barzani, nell’Esecutivo, i tentativi di esacerbare il dissenso curdo avevano condotto alle dimissioni dei rappresentanti e alla ripresa del conflitto armato nei dintorni di Kirkuk e all’interruzione della produzione di petrolio. I negoziati continuarono fino al 1971, quando fu concesso un certo grado di autonomia, tuttavia questioni chiave come il petrolio, la finanza e la difesa furono tematiche escluse dalle trattative. I programmi del Governo di spostare delle famiglie arabe a Kirkuk nel tentativo di cambiare la demografia della città e i ripetuti attentati contro Barzani mantennero il Partito Democratico Curdo diffidente nei confronti dell’Esecutivo, spingendolo a riaprire le comunicazioni con l’Iran in previsione di un futuro conflitto.

I rapporti tra Iran e Iraq erano molto peggiorati durante questa fase, in particolare, quando il Governo Iracheno espulse 40.000 Curdi-faili (feyli) come parte integrante del suo giro di vite sulla comunità sciita. Il Partito Democratico Curdo aveva iniziato a ricevere sovvenzioni anche da parte degli Stati Uniti, sempre più preoccupati dalla vicinanza dell’Iraq all’Unione Sovietica, che li portò ad incoraggiare gli scontri con il Governo Iracheno dalla fine del 1972. Tuttavia, né l’Iraq né l’Iran desideravano una ulteriore escalation; nel 1975 l’Iran accettò di interrompere il suo sostegno al Partito Democratico Curdo in cambio della risoluzione della disputa sui confini. Le truppe del Partito Democratico Curdo si dispersero rapidamente, e mentre un certo numero di combattenti accettò l’amnistia, molti, tra cui Barzani, si rifugiarono in Iran. L’Esecutivo Iracheno avrebbe continuato a seguire il suo piano originario per un’autonomia limitata con un’assemblea a Erbil e la ricollocazione delle comunità curde lontano dal confine turco-iraniano, dislocandole tra la popolazione araba sciita e incoraggiando nel contempo le famiglie povere sunnite a trasferirsi nella regione curda. La rete clientelare fu estesa a quei gruppi curdi considerati politicamente strategici e a quegli individui che garantivano una piena lealtà.

Per la popolazione sciita dell’Iraq, che stava sperimentando una rinascita religiosa negli ultimi anni, la caratteristica laica e socialista dello stato e il dominio su di esso delle tribù sunnite del Nord-Ovest rappresentavano dei segnali inquietanti che si concretizzarono quando, nel 1969, il Governo cercò di spingere l’Ayatollah Muhsin al-Hakim a condannare il Governo Iraniano durante la disputa sui confini. Il rifiuto di Al-Hakim portò ad una serie di misure che limitarono la gerarchia sciita in Iraq; studenti e religiosi iraniani furono arrestati o espulsi, e l’Università Kufa a Najaf fu chiusa in nome della lotta contro la minaccia iraniana. Un certo numero di istituti religiosi sunniti venne in aiuto degli sciiti, ma il movimento di protesta era focalizzato nelle aree sciite dell’Iraq. Il sostegno sunnita ai manifestanti sciiti, tuttavia, portò il Governo a sopprimere tutte le istituzioni islamiche, temendo la formazione un fronte islamico unito. Consapevole dell’esistenza di una resistenza sotterranea ancora attiva, il Governo del Partito Baath tentò di minare e dividere la solidarietà sciita estendendo il sistema clientelare ad un certo numero di tribù, famiglie e individui sciiti, replicando le stesse modalità adoperate con la popolazione curda.

La rivoluzione islamica del 1979 in Iran avrebbe continuato ad avere un impatto significativo sui Curdi e sugli Sciiti dell’Iraq. Anche se il Governo Iracheno si era affrettato a riconoscere l’Esecutivo rivoluzionario, il carattere religioso di questo era fonte di preoccupazione per Saddam Hussein. I timori furono rafforzati quando il nuovo Governo Iraniano chiamò gli sciiti dell’Iraq a rovesciarne il Governo ateo e l’organizzazione segreta sciita Da’wa attuò una serie di attacchi contro figure e simboli associati al Governo Baath. Il giro di vite che ne risultò portò a proteste diffuse a Najaf, Karbala, Kufa e a Baghdad guidate dall’Ayatollah Sayyid Muhammad Baqir al-Sadr.

La figura di Sadr era emersa nel corso degli anni Sessanta all’interno del clero sciita, in concorrenza con Khoei per la leadership. Muhammad Baqir al-Sadr o Sadr 1, come viene spesso definito, divenne una figura centrale nello sviluppo dello sciismo-islamismo in Iraq. Al-Sadr aveva lo status di Ayatollah sciita ed era membro della Hawza, che raggruppava i principali Ayatollah della comunità sciita in Iraq. Al-Sadr sviluppò i fondamenti teorici della filosofia politica sciita-islamista nei suoi libri, La nostra filosofia del 1958 e La nostra economia del 1961. Questa linea di pensiero era molto simile a quella di Ruhollah Khomeini, e si concretizzava in una valorizzazione della giustizia sociale, nella nozione del «giusto Governo», in norme morali e costumi canonizzati dalla Sharia e in una ideologia politica teocratica, per cui la sovranità politica apparteneva a Dio e non alle persone. Al-Sadr sviluppò anche il concetto di marja’iya oggettiva, una sorta di leadership collettiva istituzionalizzata degli sciiti, con strumenti per far rispettare le decisioni al di là della morale tradizionale e del potere normativo, basandosi sulla supremazia dell’autorità religiosa su quella politica. Come Khomeini, al-Sadr fece appello in particolare ai poveri sciiti delle città, che non percepivano l’interesse del clero per i loro problemi.

Durante la fine degli anni Settanta, lo sciismo-islamismo si rafforzò in Iran, spronando gli sciiti dell’Iraq ad aderire al Partito Da’wa, che nella visione di al-Sadr sarebbe stato composto da una generazione di rivoluzionari che avrebbe preso un giorno il potere istituendo uno stato basato sulla legge islamica. Saddam Hussein si sentì sempre più minacciato dal Da’wa e cercò di controllare il clero sciita che non supportava gli sciiti-islamisti. Il rapporto tra Saddam Hussein e il clero subì ben presto una trasformazione, passando dalla negoziazione ad un rapporto in cui Saddam Hussein chiedeva una sottomissione totale al regime.

L’apice di questo conflitto fu raggiunto nel 1979 e nel 1980, quando i membri del Da’wa cercarono di assassinare il Ministro degli Esteri Tariq Aziz e Muhammad Baqir al-Sadr fu ucciso insieme con la sorella Bint al-Huda dagli uomini di Saddam Hussein.

Saddam Hussein iniziò a reprimere anche il Partito Da’wa e l’adesione ad esso fu punita con la pena capitale, tanto che alla fine degli anni Settanta i leader della formazione politica erano fuggiti dal Paese o erano stati uccisi o arrestati.

Come accennato in precedenza, il Partito come organizzazione con un’ampia base scomparve in Iraq agli inizi degli anni Ottanta, e le sue attività furono portate avanti da gruppi segreti vagamente coordinati, prendendo parte ad attività terroristiche in Iraq e all’estero. La leadership del Da’wa si divise negli anni Ottanta sul tema della nozione khomeinista del «velayat-e faqih» costituendo due diverse formazioni politiche: Da’wa Tandhim e il Partito Da’wa che non aderì alla teoria khomeinista e non accettò l’ingerenza iraniana nell’organizzazione politica. Letteralmente «velayat-e faqih» significa «governo tutelare del giureconsulto»: è il principio fondante della dottrina khomeinista, secondo cui a guidare la comunità spirituale e politica deve essere un alto esponente religioso esperto della legge islamica, il «vali-ye faqih», fino alla comparsa del dodicesimo Imam.

La repressione dei Partiti sciiti islamici in Iraq ebbe due conseguenze. La prima fu che il Partito Da’wa fu in larga misura smantellato, e la sua esistenza continuò attraverso piccoli gruppi di élite all’estero. La seconda conseguenza fu che una nuova organizzazione, il Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica in Iraq, fu creata in Iran da Muhammad Baqir al-Hakim, figlio di Mohsin al-Hakim e allievo di Muhammad Baqir al-Sadr. Questa formazione aveva come fine, in un primo momento, di coordinare i gruppi sciiti-islamisti in esilio, ma tale tentativo fallì nel 1984, quando il leader del Da’wa lasciò e il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq divenne indipendente. Il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica fu guidato da Muhammad Baqir al-Hakim, che aveva dei contatti diretti con Khomeini.

A seguito dello scoppio della guerra Iran-Iraq, l’esecutivo iracheno aumentò i suoi sforzi per dividere la popolazione sciita, estendendo la rete clientelare agli ufficiali sciiti che avevano mostrato affidabilità e fedeltà. Allo stesso tempo, sciiti etichettati come iraniani furono espulsi dal Paese.

Per la maggior parte della durata della guerra Iran-Iraq, la regione curda rimase in uno stato di calma, con il Partito Democratico Curdo espulso e l’ordine mantenuto dal Governo e dalla rete clientelare curda. L’Unione Patriottica del Kurdistan, guidata da Jalal Talabani, e il Partito Democratico Curdo si erano divisi e l’Unione Patriottica fu coinvolta nei negoziati con il Governo Iracheno in merito ai temi dell’autonomia, anche se Saddam Hussein non intendeva concedere alcuna autodeterminazione, ma si serviva dei negoziati per dividere il fronte curdo. Nel 1985, ciò era divenuto evidente, per questo le maggiori formazioni politiche curde iniziarono un percorso di riconciliazione, anche grazie all’aiuto dell’Iran che voleva utilizzare i Curdi per compensare la fase di stallo militare nella controffensiva contro l’Iraq. Consapevole del deteriorarsi della sicurezza e della modernizzazione delle capacità militari irachene, Saddam Hussein appoggiò Ali Hasan al-Majid nella campagna al-Anfal del 1987. La campagna iniziò con delle azioni militari nel 1987, ma un anno dopo, quando era chiaro che nessuna offensiva iraniana avrebbe avuto luogo, si trasformò in pulizia etnica nei confronti dei Curdi, con la distruzione di numerose città e villaggi e lo sterminio degli abitanti con l’utilizzo di armi chimiche. La campagna non coinvolse la rete clientelare curda, costringendo l’Unione Patriottica del Kurdistan e il Partito Democratico Curdo a ritirarsi verso l’Iran e la Turchia.

L’invasione del Kuwait nel 1990 e la successiva sconfitta militare per mano della Coalizione portarono ad un’altra ondata di violenza etno-settaria da parte degli sciiti e dei curdi che, vedendo indebolito il potere di Saddam Hussein, considerarono la ribellione un’opportunità. Nonostante il suo slancio iniziale, la rivolta sciita era fortemente divisa e non presentava una leadership unificata. Questo, in combinazione con la mancanza di supporto materiale da parte degli Stati Uniti, permise all’esercito iracheno di ottenere la supremazia durante il conflitto. Nel tentativo di trasformare il conflitto da una ribellione contro Saddam Hussein in un conflitto settario, il Governo incoraggiò articoli che attaccavano gli sciiti, i serbatoi dei mezzi militari erano dipinti con slogan anti-sciiti e santuari sciiti a Najaf e Karbala furono violati. Inoltre, nell’intento di distruggere le paludi in cui molti sciiti vivevano e numerosi ribelli avevano trovato rifugio, il Governo attuò un vero disastro ecologico. In ultima analisi, dalle 20.000 alle 100.000 persone furono uccise. La resistenza sciita continuò clandestinamente, soprattutto da parte del Partito Da’wa, che avrebbe guadagnato una certa prominenza dopo il 2003, e dal Supremo Consiglio della Rivoluzione Islamica in Iraq che seguiva un’ideologia komeinista.

Nella regione curda, il Partito Democratico Curdo e l’Unione Patriottica del Kurdistan furono in grado di unirsi nella ribellione; nonostante i successi iniziali, la liquidazione della ribellione da parte del Governo nelle regioni sciite e la riconquista di Kirkuk fomentarono il timore del ripetersi della campagna di al-Anfal, provocando un esodo di massa dei profughi curdi e il collasso delle linee curde. A differenza del Sud, il conflitto nella regione curda è stato molto pubblicizzato, tanto da portare alla stipula dell’Accordo di Washington, con la creazione di una no-fly zone per il Governo Iracheno, che garantì «de facto» l’autonomia per la regione curda. L’Accordo riconobbe, inoltre, le aspirazioni delle minoranze più esigue, come Turcomanni, Assiri, Yazidi, Caldei e Arabi Cristiani, dando loro uno status giuridico uguale a quello dei Curdi. Tuttavia, le lotte intestine tra il Partito Democratico Curdo e l’Unione Patriottica del Kurdistan riemersero, causando un periodo di conflitto latente per tutti gli anni Novanta.

Nel corso degli anni Novanta, il Governo di Saddam Hussein rafforzò il suo controllo sulla Nazione. Anche se alcuni politici sciiti ebbero incarichi governativi, la maggior parte di questi era prettamente simbolica e priva di qualsiasi potere reale. Il potere continuò a basarsi su reti clientelari tribali, concentrandosi principalmente nella tribù di Saddam Hussein, al-Majid, combinandosi con regolarità con altre tribù regionali, soprattutto sunnite, garantendo in questo modo l’inesistenza di una opposizione stabile.

Saddam Hussein e il suo Partito Baath hanno governato brutalmente per un quarto di secolo, arco temporale in cui l’Iraq è passato attraverso numerose guerre, sanzioni internazionali e disordini civili. Una grande rivolta nel 1991, quando 14 delle 18 province irachene si sollevarono, fu schiacciata con violenza, causando moltissime vittime.

Saddam Hussein e il suo Governo ebbero fine soltanto con l’intervento straniero guidato dagli Stati Uniti nel 2003 attraverso l’operazione Iraqi Freedom. La guerra fu sostenuta da numerosi alleati della cosiddetta «Coalizione dei volenterosi»; l’iniziativa, spinta dall’amministrazione di George Bush Junior, portò al disarmo di Saddam Hussein, alla sua morte e allo smantellamento del suo programma di armi. L’assenza delle armi di distruzione di massa, la motivazione indicata per l’invasione, minò la credibilità dell’amministrazione Bush e della «Coalizione dei volenterosi». L’assenza delle armi, combinata con l’instabilità e l’aumento della violenza dopo la caduta di Saddam, avrebbe convinto molti osservatori che l’intervento in Iraq era stato un errore, e la ricostruzione post-conflitto un fallimento per la politica estera americana. La promessa di portare la democrazia in Iraq, come ultimo esperimento di democratizzazione, era divenuta il principale motivo per la guerra stessa, anche se la democratizzazione non era la ragione principale dell’intervento militare, infatti vi era anche la questione delle armi di distruzione di massa. Diffondere la democrazia in Iraq divenne una priorità assoluta quando fu chiaro che non vi erano armi di distruzione di massa. L’accusa che la guerra era stata non solo un errore, ma anche immorale, fu comune. La presenza straniera in Iraq e la costante escalation di scontri e violenze hanno contribuito al declino del sostegno pubblico, tanto che le truppe americane si sono ritirate nel dicembre del 2011, realizzando così la promessa fatta da Barack Obama durante la campagna elettorale del 2008.

La rimozione dal potere di Saddam Hussein ha suscitato reazioni divergenti tra i gruppi e le comunità dell’Iraq. Molti Sciiti e Curdi, ma anche alcune frange sunnite, hanno sostenuto la rimozione di Saddam, ma le radicate divisioni conseguenti alla guerra e alla dittatura hanno reso le controparti sospettose le une delle altre.

Dalla sua nascita, l’Autorità Provvisoria di Coalizione ha avuto una visione semplicistica della società irachena, credendo che essa fosse divisa in tre comunità antagoniste, basando le sue politiche su tale percezione invece che sulle radicate divisioni etno-settarie. Sebbene le divisioni etno-settarie possano essere riscontrate in tutta la storia dell’Iraq, la nomina del Consiglio Governativo Iracheno da parte dell’Autorità Provvisoria di Coalizione ha rappresentato il primo caso nella storia moderna dell’Iraq in cui queste identità divenivano prioritarie rispetto all’identità nazionale, a livello istituzionale, rappresentando un pericoloso precedente.

Con grande sorpresa dell’Autorità Provvisoria di Coalizione, la resistenza baatista, anche nella città natale di Saddam, Tikrit, non ebbe luogo. Tuttavia, le tensioni tra la popolazione araba sunnita e il nuovo regime erano molto forti, specialmente alla luce del fatto che i principali alleati della Coalizione erano i nazionalisti curdi del Nord e i Partiti sciiti guidati da religiosi nel Sud. Queste tensioni furono convalidate dall’incapacità della Coalizione di ristabilire l’ordine dopo la caduta di Saddam, che portò a saccheggi diffusi, tra cui quello delle armi e delle attrezzature militari, culminando nella politica di de-baatificazione, che si concretizzò nell’espulsione dall’esercito e dalla pubblica amministrazione di 300.000 membri delle forze armate e 30.000 dipendenti pubblici, creando ulteriore risentimento nella popolazione sunnita. Un violento scontro tra soldati americani e manifestanti nell’aprile del 2004 agì come catalizzatore per una rivolta sunnita che si diffuse rapidamente in tutte le altre città, contemporaneamente si fece strada anche una rivolta sciita guidata da Muqtada al-Sadr, i cui sostenitori, soprattutto la classe sociale urbana più povera, erano stati colpiti duramente dalle politiche economiche liberiste dell’Autorità Provvisoria, concretizzatesi nel taglio dei sussidi e nel licenziamento dei dipendenti di inefficienti imprese statali.

Fu in questo contesto che il potere fu consegnato ad un Governo ad interim guidato dal nazionalista laico ed ex baatista Ayad Allawi nel giugno del 2004, replicando la rappresentazione etno-settaria del Consiglio Direttivo Iracheno che aveva nominato come capo di stato uno Sceicco sunnita, con due vice-Presidenti, uno curdo e l’altro sciita. Allawi si impegnò per combattere la violenza esplosa nel Paese, invertendo alcune delle politiche del processo di de-baatificazione e favorendo la crescita di organizzazioni militari e paramilitari per affrontare gli insorti. Nella città di Najaf, gli insorti seguaci di al-Sadr riuscirono a negoziare la fine delle ostilità, mentre a Falluja i diffusi bombardamenti portarono ad un massiccio esodo di civili e a molte morti senza vittorie tangibili sugli insorti. La presenza di truppe curde e sciite infastidì ulteriormente i sunniti che si sentivano perseguitati, tanto che il Partito Islamico sunnita iracheno ritirò il suo appoggio al Governo Allawi e decise di boicottare le elezioni previste per il gennaio del 2005.

Nonostante il boicottaggio da parte della maggioranza della popolazione sunnita, le elezioni del gennaio del 2005 si svolsero regolarmente; i vincitori furono l’Alleanza Irachena Unita, un Partito sciita, costituito dall’islamista Da’wa e dai Partiti del Supremo Consiglio della Rivoluzione Islamica in Iraq, seguiti dall’Alleanza del Kurdistan, nata dall’unione del Partito Democratico Curdo e dell’Unione Patriottica Curda, e dalla Lista Irachena di Allawi.

La popolazione sunnita praticamente non aveva rappresentanti. Fu nominato Primo Ministro Ibrahim al-Ja’fari, sciita del Partito Da’wa, con tre vice-Primi Ministri, uno sciita, uno curdo e uno sunnita, con un certo numero di Ministri curdi, sciiti e sunniti. La nuova struttura di potere favorì i Ministri curdi e sciiti che cercarono di consolidare le loro posizioni, impegnandosi negli stessi modelli clientelari che avevano caratterizzato il periodo dittatoriale di Saddam Hussein, con la conseguente crescita delle violenze nel Paese e della divisione all’interno della comunità sunnita. Questo contesto fu esacerbato dalla stesura di una nuova Costituzione che sottolineava la natura federale dell’Iraq andando contro la volontà della popolazione sunnita e di alcuni sciiti islamisti, tra cui il Partito Da’wa e il Supremo Consiglio della Rivoluzione Islamica in Iraq.

L’invasione della Coalizione nel 2003 portò all’annullamento unilaterale della Costituzione promulgata nel 1970. La nuova Costituzione fu formulata da un team, sotto gli auspici di Paul Bremer, nominato dal Presidente USA George W. Bush capo dell’Autorità Provvisoria, che aveva poca dimestichezza con la politica e con la società irachene nel loro complesso e nessuna esperienza costituzionale. Inoltre, il documento fu commissionato e redatto in brevissimo tempo sotto precisa richiesta dell’Autorità Provvisoria che desiderava una transizione rapida alla democrazia per giustificare la sua uscita. Anche se la Costituzione fu approvata a seguito del referendum del 2005, l’enfasi sul federalismo e la percezione che i gruppi sciiti e curdi avessero un’influenza sproporzionata nella realizzazione del testo costituzionale fecero nascere accuse di brogli e diffusi boicottaggi da parte dei sunniti e dei laici.

A causa delle condizioni in cui fu redatto, il documento finale aveva un linguaggio che sottolineava le divisioni etno-settarie invece che fondere le diverse comunità in un organismo quanto più simile ad uno stato unitario, inoltre conteneva una serie di contraddizioni e ambiguità che avrebbero avuto un impatto significativo sulla politica irachena negli anni a venire. Queste problematiche erano così riassumibili: 1) Il preambolo della Costituzione era insolitamente lungo e conteneva un’enfasi sulla leadership religiosa che poteva anche non essere inclusa nella Costituzione vera e propria, riferendosi alle identità settarie, invece che ad una identità irachena unitaria. 2) L’enfasi sull’Islam come religione dello stato e fonte della Legislazione. Anche se questo non rappresentava un problema in un Paese a maggioranza musulmana, potenzialmente poteva rendere insignificanti i diritti garantiti dagli articoli dal 14 al 46 che concernevano la libertà dalle discriminazioni religiose e la libertà di credo. 3) La Costituzione dichiarava che in caso di contrapposizione tra Leggi centrali e Leggi locali quest’ultime avrebbero prevalso, costituendo l’unico caso in cui una costituzione moderna prevedeva una simile gerarchia. L’inserimento dell’articolo 126 che impediva modifiche costituzionali senza il parere favorevole delle istituzioni regionali bloccava efficacemente la possibilità di apportare modifiche. Le autorità curde trassero un particolare vantaggio da questa clausola, varando una serie di Leggi che contraddicevano il Governo Centrale, specialmente nel campo dello sfruttamento delle risorse, costante fonte di tensioni con l’Esecutivo di Baghdad. 4) In relazione a questo tema, i diritti di sfruttamento delle risorse naturali e i fondi di finanziamento destinati alle province furono diversi e incoerenti. Il Governo Regionale Curdo, per esempio, riceveva il 17% del bilancio nazionale, mentre Thi Qar, un’altra area alla ricerca di uno status federale, meno dell’1%. Tutti i tentativi di rimuovere i privilegi speciali del Governo Regionale Curdo furono rigettati. 5) Disposizioni analoghe esistevano nei confronti delle forze armate e della politica estera. Il divieto della formazione delle milizie e la creazione di un esercito unitario furono passi in avanti verso la concordia nazionale, tuttavia la debolezza del Governo Centrale lasciò i peshmerga curdi quali forze di combattimento separate. Riguardo alla politica estera, l’articolo 121 stabiliva la presenza dei governatori negli uffici delle ambasciate e delle missioni diplomatiche, con la conseguenza che questi uffici diventarono più influenti rispetto al Ministero degli Esteri del Governo Centrale, creando differenze e tensioni tra i due apparati. 6) Gli articoli riguardanti la lotta al terrorismo furono mal definiti e avrebbero potuto essere utilizzati per condannare tutti coloro che si opponevano al processo politico. La comunità sunnita, che aveva subito l’impatto maggiore del processo di de-baatificazione, obiettò affermando che questo impediva un legittimo dibattito politico sulla formulazione del paragrafo.

In ultima analisi, la Costituzione ebbe scarso consenso e legittimità nella società irachena e il linguaggio vago, contradditorio ed etno-settario contribuì alla lotta politica nel Paese.

È opportuno soffermarsi sull’evoluzione dei principali Partiti dopo l’approvazione della nuova Costituzione.

A differenza degli altri Partiti sciiti islamici, il Da’wa non aveva né un’importante organizzazione politica né una milizia. La sua leadership era composita, infatti contava non soltanto le due correnti in cui si era diviso negli anni Ottanta, ma anche i gruppi formatisi in esilio, a Teheran, Damasco e Londra. La rappresentanza parlamentare derivava dalla sua alleanza con i Partiti islamici sciiti, poiché la sua capacità di attrarre voti da solo era molto debole rispetto alle altre formazioni politiche. Allo stesso tempo, il Da’wa occupava una posizione particolare nella coscienza della popolazione a causa della sua lunga storia di opposizione e persecuzione da parte del regime baatista. Il Da’wa ottenne 30 seggi alle elezioni del dicembre 2005, eguagliando il concorrente Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq, conquistando, inoltre, quattro incarichi nel Governo, tra cui quello di Primo Ministro.

Il Da’wa è stato spesso descritto come una sorta di Partito cuscinetto tra gli altri più importanti Partiti islamici all’interno dell’Alleanza Irachena Unita.

Storicamente, il Da’wa ha mantenuto una stretta alleanza con i leader del molto meglio organizzato Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica, i cui capi hanno ricevuto la loro preparazione politica e militare nei suoi centri di studio clandestini. Sebbene vi siano state persistenti segnalazioni sulle tensioni tra le due formazioni politiche, la cooperazione politica e militare è continuata per tutti gli anni Novanta, in parte perché il ruolo di mediazione dell’Iran ha impedito la trasformazione delle dispute dottrinali e politiche in un conflitto aperto.

Anche se l’obiettivo storico del Partito era quello di stabilire uno stato islamico in Iraq, esso ha supportato le elezioni e il sistema parlamentare. Per esempio, nel dicembre del 2002, al-Maliki affermò: «Noi preferiamo il gioco democratico. Quello che la gente deciderà è ciò che conta, lontano dalle sette e dalle etnie. Per ciò, noi chiediamo uno stato islamico – non religioso – fintanto che gli Iracheni supportano volontariamente un tale stato».

È interessante notare che il Da’wa non ha mai specificato come intendesse coniugare la sua visione di stato islamico con la democrazia. Come segno del suo pragmatismo, è indicativo che il Partito si sia opposto alla rigida applicazione delle norme sul vestiario nelle zone sciite.

Nel maggio del 2007, il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica ha deciso di omettere la parola «rivoluzione» dal suo nome, come segno che la Costituzione irachena aveva superato la necessità di un sovvertimento. Ciò non deve essere considerato un’indicazione della trasformazione ideologica del Partito, ma piuttosto una testimonianza del suo pragmatismo politico, che considerava più importante conquistare il potere che mantenere fermi i principi ideologici. Allo stesso tempo, poteva essere interpretato come un tentativo di allontanare la formazione politica dall’Iran, evidenziando le sue radici irachene.

Sebbene il Consiglio Supremo Islamico Iracheno sia stato istituito con l’aiuto attivo dell’Ayatollah Khomeini, e in quel momento avesse adottato la teoria del «velayat-e faqih», da allora riuscì a formare un’alleanza con entrambi i Partiti curdi in Iraq e negli Stati Uniti, divenendo il più importante Partito politico in Iraq, posizionando con successo i suoi quadri dirigenti nelle posizioni più rilevanti nell’ambito della politica e della sicurezza dello stato iracheno.

Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2003, il Consiglio Supremo Islamico era in una buona posizione per avvantaggiarsi della situazione. Il suo leader, Muhammad Baqir al-Hakim, aveva costruito e organizzato durante i suoi anni in Iran una milizia, la Brigata Badr, con più di 10.000 uomini sovvenzionati e addestrati dalla Guardia Rivoluzionaria Iraniana.

Durante la permanenza in Iran, il Partito abbracciò il principio del «velayat-e faqih», adattandosi rapidamente ad una posizione più democratica e liberale dopo la caduta di Saddam Hussein. Rimangono ancora dei seri dubbi sulla effettiva veridicità di questa svolta ideologica.

Nel gennaio del 2005, il Partito ha partecipato alle elezioni all’interno della lista dell’Alleanza Irachena Unita, ottenendo 140 seggi dei 275 disponibili. Dato che le elezioni si svolgevano in concomitanza con le votazioni per i Consigli dei Governatorati, il Partito ottenne il controllo delle nove province in cui la popolazione sciita era in maggioranza. A dicembre dello stesso anno, si sono ripetute le elezioni generali, che hanno visto la partecipazione dei Partiti sunniti e sadristi, ma non quelle provinciali, ciò ha consentito al Consiglio Supremo Islamico di mantenere il controllo delle province conquistate.

Fin dall’inizio, il Partito è riuscito ad affermarsi negli importanti Ministeri delle Finanze e degli Interni, oltre ad ottenere uno dei due posti di vicepresidente. La combinazione del controllo dell’apparato politico e di sicurezza nelle maggiori province, così come il controllo di rilevanti pilastri della politica nazionale e delle risorse economiche, ha permesso al Consiglio Supremo di affermarsi come una sorta di «macchina» politica. Ciò si è basato su un sistema clientelare in cui i sostenitori erano motivati più da interessi personali che da convinzioni ideologiche o religiose. I quadri delle milizie Badr sono stati in gran parte integrati nelle forze di sicurezza ufficiali, e la sostituzione del personale della pubblica amministrazione è stata utilizzata per stabilire un gruppo clientelare tale da formare la sua base politica.

Il principale oppositore del Partito, oltre alla comunità sunnita, è stato il movimento sadrista e il suo leader Moqtada al-Sadr. Il conflitto sociale tra classe media dell’Iraq Centrale, che rappresentava la base politica del Consiglio Supremo, e la classe dei lavoratori dei sobborghi e della città di Baghdad, base politica del movimento di al-Sadr, si stagliava dietro il conflitto politico tra le due formazioni.

Un’altra occasione di scontro fu la proposta del Consiglio Supremo di costituire una nuova provincia-governatorato nel Sud. Con l’appoggio dei Curdi, il Consiglio fece passare una Legge in Parlamento che consentiva la formazione di una nuova provincia. I Partiti sunniti, il Da’wa e i sadristi si mostrarono tutti contrari, temendo la disintegrazione dello stato iracheno e la perdita dell’accesso ai proventi del petrolio del Sud, corrispondenti all’85% del totale delle risorse petrolifere irachene.

Il Partito Fadhila, una diramazione del movimento sadrista, che rappresentava gli interessi locali della città di Bassora, si opponeva all’idea sostenendo il progetto di una provincia più piccola costituita dai tre governatorati del Sud. Dal 2006, Fadhila ha ritenuto che l’autonomia federale avrebbe dovuto comprendere un solo governatorato, cioè Bassora. Queste differenti posizioni sulla questione federale erano correlate agli interessi divergenti dei Partiti e dei loro rispettivi collegi elettorali; infatti, mentre il Consiglio Supremo avrebbe dominato la nuova provincia, data la sua forte presenza nell’Iraq Centrale, il movimento sadrista avrebbe perso la sua influenza, in gran parte perché l’elettorato di Baghdad ne sarebbe stato escluso.

Il Consiglio Supremo riteneva che la sua proposta fosse compatibile con il mantenimento dell’unitarietà dello stato iracheno, tuttavia molti osservatori argomentavano che un simile progetto avrebbe potuto disintegrare l’Iraq, poiché il Governo Centrale era considerato troppo debole per gestire un tale sistema federalista dove tutto il potere e il controllo delle risorse sarebbero stati demandati alle province.

L’approvazione della Costituzione consentì nuove elezioni generali nel dicembre del 2005, che videro la partecipazione dei Partiti sunniti e sadristi, con la conseguente vittoria dell’Alleanza Irachena Unita che portò Nuri al-Maliki, della formazione politica Da’wa, alla carica di Primo Ministro. Il Partito, tuttavia, ottenne meno seggi e dovette formare una coalizione di Governo, lasciando al-Maliki vincolato e in competizione per l’influenza.

La continua insicurezza e la sfiducia tra sciiti e sunniti hanno incanalato la ribellione in una direzione sempre più settaria, che è stata sfruttata da gruppi estremisti come al-Qaeda, il cui leader in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi, dichiarò che gli sciiti non erano veri musulmani, avviando una serie di attacchi contro siti sciiti e civili, tra cui il bombardamento del santuario di Askari a Samarra nel febbraio del 2006.

Il malcontento esistente tra la popolazione sunnita dell’Iraq, che aveva rappresentato la più grande base di appoggio per Saddam Hussein, in particolare nelle città di Tikrit e Ramadi, è stato esacerbato dopo l’invasione da parte degli Stati Uniti e della «Coalizione dei volenterosi», dato che le nuove autorità non riuscirono ad affrontarne i problemi e ad incentivarne la partecipazione al Governo, con una conseguente ondata di insurrezioni che misero in pericolo le future prospettive di riconciliazione. Durante il regime di Saddam Hussein, l’affiliazione al sistema clientelare del Partito Baath era l’opzione più idonea per ottenere un benessere economico, specialmente per la popolazione sunnita delle città di Tikrit, Ramadi e Fallujiah.

La popolazione sunnita ha percepito il processo di de-baatificazione, la perdita dell’influenza detenuta prima del 2003 e il sistema politico come elementi ad essa ostili.

Al culmine dello scontro, alla fine del 2006, si contavano 3.000 morti al mese dovuti al conflitto settario esploso in molte parti dell’Iraq. Il sistema clientelare è continuato anche durante il mandato di al-Maliki, con l’aumento dei conflitti settari tra combattenti locali e governativi.

La violenza ha iniziato a diminuire a metà del 2008, a causa di una serie di fattori, tra i quali la decisione di al-Maliki di formare un Governo di unità nazionale più inclusivo, l’utilizzo di truppe statunitensi per migliorare la sicurezza in tutto il Paese, e il rallentamento delle politiche di de-baatificazione. Un numero crescente di ufficiali dell’esercito non si era riarmato, inoltre durante il «risveglio di Anbar» le tribù sunnite, che si erano contrapposte ad al-Qaeda, avevano messo fine alla rivolta.

La cessazione della violenza e le migliorate condizioni di sicurezza hanno condotto ad un periodo di stabilità e calma relativa in tutto l’Iraq. I sondaggi effettuati nell’ottobre del 2008 suggerivano che l’identità irachena era rimasta relativamente forte in tutto il Paese e che i blocchi etno-settari che avevano dominato la scena politica si erano indeboliti. Anche se le tensioni tra le comunità erano rimaste elevate, le elezioni del 2009 suggerivano che i modelli di voto stavano gradualmente passando da una base etno-settaria ad una ideologica. Fu in questo periodo di relativa stabilità che gli Stati Uniti iniziarono il processo di ritiro che sarebbe stato completato nel dicembre del 2011.

Alle tribù sunnite che avevano partecipato al «risveglio di Anbar» era stata promessa una maggiore integrazione nel Governo di Baghdad e posti di lavoro per garantire sicurezza economica. Le promesse mancate fatte a queste tribù, che nel biennio 2007-2008 avevano combattuto contro al-Qaeda, comprendevano anche l’integrazione nell’esercito nazionale dei loro combattenti e posti di lavoro governativi. Tuttavia, la maggior parte del Governo di Baghdad ancora diffidava delle tribù a causa del loro ruolo prima e durante il «risveglio» e per il fatto che erano armate e tecnicamente indipendenti dallo stato centrale. Sotto la pressione di altre fazioni politiche contrarie alla concessione di potere alle tribù sunnite, il Governo iniziò a promuovere alcune persone ad esso vicino e a rimuovere o arrestare coloro che erano troppo critici verso le sue politiche, compresi coloro che erano coinvolti in crimini terroristici o in atti contro lo stato. La comunità sunnita interpretò questo comportamento come una mossa calcolata diretta contro di essa, mirante a sopprimere i rivali politici; per esempio, la rimozione nel dicembre del 2012 del Ministro delle Finanze sunnita Rafi al-Issawi fu percepita come un espediente mirato ad allontanare gli avversari politici. Le proteste successive e il deterioramento della sicurezza hanno creato quel vuoto statuale di cui avevano bisogno gruppi ribelli come lo Stato Islamico per stabilire la loro presenza in Iraq.

Nelle settimane successive, le proteste iniziarono dalla città di Ramadi; le manifestazioni di dissenso, generalmente pacifiche, furono organizzate da gruppi ribelli o neo-baatisti, tra i quali i più rilevanti erano il Jaysh Rijal al-Tariqah al-Naqshabandia e il Consiglio Militare Generale dei Rivoluzionari Iracheni, che fondevano il potere e l’identità sunniti con i vecchi simboli baatisti. Il movimento ebbe un successo limitato con il rilascio di 3.000 detenuti e l’ammorbidimento del processo di de-baatificazione.

Anche se si svolsero dei negoziati, e qualche progresso fu realizzato, gli sforzi del Governo per arrestare le proteste, anche con la forza, condussero alla crescente mobilitazione dei gruppi armati in Iraq.

L’attacco dell’ISIS, precedentemente noto come al-Qaeda in Iraq, ad una squadra SWAT aumentò ulteriormente le tensioni, tanto che il Primo Ministro al-Maliki etichettò i manifestanti come sostenitori di al-Qaeda, arrestando i membri del Parlamento in sintonia con i dimostranti e reprimendo con la forza le manifestazioni. Consapevole delle crescenti agitazioni, al-Maliki promise il ritiro delle forze armate da Ramadi, ma il vuoto di sicurezza fu utilizzato dall’ISIS per conquistare la città e dichiararla parte del Califfato Islamico.

La mancata rappresentazione politica della popolazione sunnita durante il Governo di al-Maliki condusse organizzazioni neo-baatiste come il Jaysh Rijal al-Tariqah al-Naqshabandia e lo Stato Islamico a trasformare nel 2013 il movimento di protesta sunnita in un’insurrezione che conquistò le città di Mosul, Ramadi, Tikrit e Fallujah nel 2014, recuperate dallo stato iracheno nel 2015.

Risulta importante soffermarsi anche sull’ISIS, la formazione terroristica divenuta sempre più un attore fondamentale della crisi irachena. Lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante è una organizzazione terrorista stanziatasi nel territorio desertico, ricco di petrolio e gas, che circonda i fiumi Eufrate e Tigri della Siria e dell’Iraq. L’ISIS è una mutazione dei gruppi salafiti-jihadisti guidati in Iraq da Abu Musab al-Zarqawi e da altri comandanti, la cui ultima iterazione è lo Stato Islamico in Iraq guidato dall’Iracheno Abu Bakr al-Baghdadi.

L’ISIS si è impegnata a stabilire uno stato islamico; per perseguire questo obiettivo ha dichiarato la fondazione del Califfato nel giugno del 2014, invitando i musulmani di tutto il mondo a migrare verso i suoi territori. Le ambizioni dell’ISIS sono esplicitamente transnazionali, con un rifiuto completo del concetto di Stato-Nazione. Gli obiettivi a breve termine comprendono la distribuzione di risorse umane e materiali nel territorio che controlla per consolidare il proprio potere, la raccolta di fondi per l’acquisizione delle armi e la costruzione di una base di appoggio in cui formare la futura generazione di combattenti. L’intento genocida nei confronti delle minoranze, basti ricordare le stragi di Cristiani e yazidi, la sua rapida espansione, e la minaccia dei confini hanno condotto ad un intervento internazionale nel settembre del 2014.

Per quanto concerne il contesto iracheno, l’ISIS ha saputo sfruttare e strumentalizzare la debolezza dell’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein e le preoccupazioni dei sunniti per l’ascesa degli sciiti e l’influenza dell’Iran. Baghdadi ha utilizzato la spaccatura esistente in tutto il Medioriente tra sciiti e sunniti, intensificatasi con la nuova «Guerra Fredda» tra la sunnita Arabia Saudita e l’Iran sciita, di cui la guerra «per procura» nello Yemen è l’esempio più significativo. Baghdadi raffigura il suo gruppo come l’avanguardia dei perseguitati sunniti, considerando gli sciiti degli infedeli che devono convertirsi o essere eliminati.

Le organizzazioni come Jaysh Rijal al-Tariqah al-Naqshabandia, il Consiglio Militare Generale dei Rivoluzionari Iracheni e altri gruppi più piccoli si sono affrettati ad unirsi all’ISIS, spesso rappresentandosi come partner alla pari in una «rivoluzione» che aveva avuto luogo nella regione di Anbar ed era stata supportata da un certo numero di tribù durante l’attacco del 2014, quando furono conquistate Fallujah e Mosul approfittando delle rivolte popolari contro le unità militari irachene in queste aree. Fu istituita una stretta interpretazione della Sharia attraverso l’utilizzo di metodi estremamente brutali contro qualsiasi gruppo etnico che non intendeva convertirsi, in primo luogo i Cristiani, i curdi, e gli yazidi. I gruppi neo-baatisti di insorti radunatisi intorno all’ISIS hanno continuato a mantenere un ruolo rilevante, cercando di conciliare le politiche repressive dell’ISIS con la propria ideologia pan-arabista o pan-irachena. Benché alcuni ex baatisti, come Izzat Ibrahim al-Duri, vicepresidente di Saddam Hussein, siano divenuti noti come figure chiave dell’ISIS, la maggior parte degli ex baatisti e dei gruppi di insorti che non hanno aderito all’ISIS sono stati eliminati.

Sebbene alcune tribù sunnite e gruppi di insorti abbiano sostenuto lo Stato Islamico durante l’offensiva del 2014 e il successivo conflitto contro lo stato iracheno, non tutte le tribù sunnite si sono schierate con l’ISIS. Tuttavia, queste tribù hanno sofferto una cronica mancanza di armi, attrezzature e supporto logistico da parte del Governo Centrale di Baghdad. Tale mancato sostegno può essere legato alla sfiducia verso le tribù sunnite da parte dei funzionari del Governo, anche a causa del fatto che molte armi sono state vendute invece che utilizzate per la sicurezza. Il Governo Iracheno sembrava prediligere l’uso di Hashd al-Shaabi per liberare il territorio iracheno dallo Stato Islamico; è interessante notare come questa organizzazione, in prevalenza sciita, abbia raccolto, nel corso del tempo, molti combattenti sunniti e cristiani, rappresentando un timido segnale positivo per la futura riconciliazione e instaurazione della fiducia e della cooperazione tra le diverse comunità dell’Iraq.

Dal punto di vista politico, ad al-Maliki è subentrato Haider al-Abadi che ha dovuto affrontare sfide aggravate dalla politica clientelare adottata dai precedenti Governi. Al-Abadi è salito al potere grazie ad un programma politico che avrebbe dovuto frenare la corruzione e il settarismo dominanti negli anni precedenti, che secondo molti osservatori avevano spianato la strada alla conquista dell’Iraq da parte dello Stato Islamico, ottenendo l’appoggio dell’Ayatollah al-Sistani e di un’ampia parte degli sciiti. Il suo programma per frenare la corruzione, in particolare a seguito delle proteste del 2015, ha ricevuto un ampio sostegno. Tuttavia, la continua presenza di lealisti dei vari Partiti nel Governo ha rallentato e addirittura bloccato le riforme. I ritardi nell’attuazione della politica di lotta alla corruzione e l’introduzione di misure di austerità, come la riduzione degli stipendi e i licenziamenti per ridurre il deficit del bilancio, hanno fatto perdere ad al-Abadi il sostegno dei movimenti di protesta e del clero che lo avevano supportato nell’ascesa al potere. La sua intenzione di ricostruire l’esercito iracheno, nel frattempo, ha sollevato tensioni con i gruppi armati che si erano dimostrati efficaci nella lotta contro lo Stato Islamico. Lo sviluppo di conflitti tra i Partiti e la costante corruzione mettono a rischio la riconciliazione e la sicurezza irachene, inoltre forniscono materiale di propaganda ai gruppi estremisti che cercano di attirare la popolazione nelle loro fila.

Tra la fine del 2014 e i primi mesi del 2015 vi sono state una serie di offensive dell’ISIS contro Curdi e Sciiti in territorio iracheno. La crisi ha portato ad una mobilitazione di massa delle unità curde e irachene dell’esercito, nonché delle tribù sunnite che non sostenevano l’ISIS. Anche se la controffensiva contro l’ISIS ha avuto successo, come dimostra la riconquista di città come Baiji, Tikrit, Sinjar e Mosul, il divampare delle ostilità tra Curdi e Sciiti nonostante gli obiettivi comuni e le accuse di discriminazione da parte della minoranza turcomanna contro i combattenti curdi indicano che la sconfitta dell’ISIS non permetterà, da sola, di risolvere le problematiche etno-settarie che affliggono l’Iraq, mancando una leadership legittimata e unificante capace di raccogliere la sfida di un processo di nation-building difficile e dall’esito incerto.


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(novembre 2017)

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