Il taglio di Porto Viro
Nel passato, la sistemazione del Delta del Po era importante per le città che vi sorgevano vicino e per la loro stessa sopravvivenza

Il Po nel Medioevo fu lasciato in balia di se stesso, per cui il suo alveo non faceva altro che adattarsi alle piene e alle conseguenti rotte. Nei suoi dintorni si estendeva una pianura incolta e paludosa, che era non del tutto svincolata dal mare, il cui cuneo salino si addentrava profondamente nel territorio. Il ramo del Po delle Fornaci si divise in tre rami, denominati precisamente il Po di Tramontana verso Nord, il Po di Levante, il più ricco di acque, verso Est, e infine il Po di Scirocco verso Sud-Est.

Dopo la Rotta di Ficarolo del 1152, i detriti depositati dal Po di Tramontana nei suoi straripamenti se da una parte avevano resa difficile la navigazione verso le zone interne della Pianura Padana, dall’altra avevano reso possibile l’interramento della laguna veneta a partire da Chioggia, mettendo in difficoltà il sistema idraulico della Bassa Rodigina. Fra l’altro, a Venezia si temeva che l’Adige andasse a gettarsi nel Po di Tramontana, rendendo la situazione ancora peggiore. A complicare il tutto, manco farlo apposta, il 17 novembre del 1570, nel territorio ferrarese si ebbe un sisma, il quale contribuì fortemente al calo della portata d’acqua sia nel Po di Volano, sia nel Po di Primaro, che avevano resa ricca la città di Ferrara come un porto fluviale di notevole importanza, facendole perdere piano piano questo ruolo. Il Delta del Po era un’importante via di collegamento fluviale fra il mare e le aree interne della Pianura Padana, fino a Milano; fra l’altro, il percorso era definito «via del sale» (all’epoca il sale consentiva la conservazione delle sostanze alimentari, soprattutto quella delle carni, perciò era fra i prodotti più preziosi e perciò più ambiti dai consumatori), che sosteneva l’economia sia della Serenissima Repubblica di Venezia, sia della Corte Estense. A Venezia già da tempo si progettava di intervenire per evitare che la laguna scomparisse, ma per evitare l’insorgere di un conflitto armato con i rivali estensi a causa della via del sale, si rimandò l’inizio dei lavori già da tempo progettati a tempi migliori.

La Grande Bonificazione Ferrarese, attuata nella seconda metà del XV secolo con il prosciugamento delle paludi, e il miglioramento e il risanamento della navigazione interna, resero il territorio meglio sfruttabile e indussero a pensare in grande, ipotizzando la possibilità di costruire insediamenti nel delta del Grande Fiume.

Era il 1578. Alfonso II riedificò la Delizia delle Casette a Magnavacca (oggi Porto Garibaldi), sul mare a poca distanza da Comacchio, anche per controllare la pesca e la vendita delle anguille; ma lo stesso avviò l’intervento di maggior respiro nelle vicinanze della Sacca di Goro (un porto naturale ampio e ben protetto dai venti di tramontana), precisamente nella zona di Mesola, da dove si poteva controllare, incentivare e seguire i traffici marittimi e, fra l’altro, indirizzarli verso l’entroterra. Qui intraprese la costruzione di un importante e lussuoso edificio, definito Castello della Mesola, con quattro torri disposte in diagonale ai vertici e attorniato da strutture adibite ad abitazioni, stalle, alloggi per servi e lavoratori e tutto quanto poteva servire per la vita quotidiana oltre che per la caccia e la pesca. Tutto il complesso, di circa dodici chilometri, era circondato da mura che formavano un poligono irregolare lungo il quale erano situati dodici torrioni quadrangolari e non mancavano i fossati. Per comprendere l’importanza dell’intervento, basti confrontare la lunghezza delle mura con quella della cinta della città di Ferrara, che è di circa nove chilometri. In verità, pare che questo fosse il primo passo degli Estensi per iniziare la costruzione di una nuova città.

Questa concentrazione di uomini, di mezzi e di quant’altro nella zona mise sul chi vive i Veneziani che, considerato che quel territorio era ben tenuto e che andando verso il mare era sistemato con l’escavazione dei canali necessari, mentre il Porto di Goro lavorava a pieno ritmo, intesero l’importanza strategica di tutto quel fermento. Sì, è vero, si trattava di una delle tante residenze estive, una Delizia, come le chiamavano gli Estensi, ma l’ampiezza del complesso, l’elevazione di mura di difesa, la presenza di tanto personale, armigeri compresi, furono tali da allarmarli, se non spaventarli, e da convincerli che a Ferrara si stava pensando di fondare un’altra città sul Po nelle adiacenze del Porto di Goro, che era molto attivo. E tutto sommato sembra che avessero visto giusto. Così, Venezia inviò spie e tecnici idraulici, protetti da militari, a visionare quale potesse essere la mossa vincente per ostacolare l’espansione ed eliminare la scomoda presenza del Ducato Estense e, fra l’altro, anche e soprattutto per preservare dall’interramento la laguna veneta e i suoi porti.

Il rischio dello scoppio di una guerra fra i vicini era grande, ma non successe nulla fino al 1598, quando il Ducato Estense, a seguito della morte di Alfonso II avvenuta l’anno prima senza lasciare un erede maschio, decaduto al rango di semplice provincia, fu assorbito dalla Santa Sede. E questa fu l’occasione buona da parte dei lagunari per riprendere il discorso, anche perché il Papa, allora Clemente VIII, aveva altro cui pensare, dato che aveva proclamato anno santo il 1600 e non se la sentiva di intraprendere una guerra. I Veneziani astutamente e, se si vuole, perfidamente, sfruttarono la situazione loro favorevole e il Doge Marino Grimani fece avviare i lavori che durarono quattro anni, anche per le difficoltà incontrate a causa di intoppi e sabotaggi da addebitare ai Ferraresi, malnutrizione, morte di operai e altro ancora, il tutto fomentato dallo Stato Pontificio. Che la vita fosse difficile lo documenta il fatto che i tecnici (non certo gli operai) di quando in quando tornavano a Venezia per riposare e per curarsi della malaria che li aveva colpiti.

Il Taglio di Porto Viro fu un’opera colossale, anche e soprattutto per gli scarsi mezzi di cui si disponeva in quei tempi, costituiti principalmente da badili, pale di legno, carriole. (Senza voler accendere polemiche, paragonando i tempi geologici che sono necessari oggi per completare le opere pubbliche – supposto che arrivino all’ultimazione – quelli furono estremamente brevi, tanto che qualcuno li ha definiti addirittura «esemplari»). Gli osservatori inviati dal Papa durante i lavori, che erano stati avviati nella stagione migliore essendo le acque basse, trovarono un ambiente inospitale, pieno di acquitrini maleodoranti, infestati da sciami di zanzare e tafani, e si convinsero che le probabilità che i lavori fossero destinati a essere abbandonati quanto prima erano tante. Ma si trattò di una pia illusione. I lavori proseguirono e giunsero alla loro conclusione secondo il progetto e consistettero nell’escavazione di un nuovo alveo per il fiume, che tagliava il suolo nel tratto compreso fra gli attuali Porto Viro e Taglio di Po, nome quest’ultimo che chiarisce il contenuto del progetto.

Così, nacque il Delta moderno. I Veneziani avevano visto giusto e in poco tempo la laguna veneta, scampato il pericolo, tornò alla vita. Il 16 settembre 1604, come atto conclusivo dell’opera, si provocò una falla nell’argine destro del Po di Tramontana, e le sue acque, non più dirette verso Nord-Est, bensì verso Est, giunsero nel territorio ferrarese e, dopo un percorso di circa sette chilometri, entrarono nella sacca di Goro. Il provveditore Giacomo Zane comunicò al Doge il compimento dei lavori, inviandogli il seguente messaggio: «Hoggi alle hore 19, con il favor del Signor Dio, si ha dato acqua al nuovo Taglio, la quale vi è entrata per 50 e più aperture, che si sono fatte nel medesimo tempo nell’argere, et dopo di aver fatto un poco di empito, in spatio di un’hora in circa si parizò con l’altra acqua dell’alveo, et continuò il suo corso, come fa tuttavia placidissimamente». La sua conclusione fu: «Piaccia al Signor Dio, per come à principato a correre con molta felicità [naturalmente si parla dell’acqua], così continui per sempre, a beneficio pubblico, et de particolari ancora». Con quell’intervento eccezionale per l’epoca in cui è stato portato avanti, la città di Venezia era salva, in quanto riuscì a fare in modo che essa «non possa avere mai altre mura se non la laguna».

Contrasti, lamentele, rimostranze, dissidi continuarono fino a quando, il 15 aprile 1749, fra il Doge Pietro Grimani e il Papa Benedetto XIV si giunse a un accordo, segnando sul terreno una linea continua di frontiera (che fu chiamata Linea dei Pilastri, costituita da 50 cippi confinari in cotto, di cui uno è stato restaurato e due sono semplicemente dei ruderi), che separava i territori della Serenissima Repubblica di Venezia da quelli dello Stato Pontificio.

La nuova situazione consentì la formazione di nuovi terreni nel territorio di Rovigo su cui prima si stabilirono pescatori e cacciatori e più tardi, nel secolo XVIII, i nobili veneziani ne approfittarono per costruire le loro residenze estive di caccia, attorno alle quali sorsero tanti piccoli centri abitati, per passare poi all’edificazione di casini di caccia e di palazzi nel vero senso della parola.

Chiaramente, senza quell’opera, il Delta del Po e tutta la costa del mare fra Venezia e Ferrara oggi avrebbero un aspetto completamente diverso. Venezia, tutta soddisfatta, aveva salvato la laguna da un triste riempimento da parte del materiale litoide di erosione trasportato dalle acque provenienti dalla Pianura Padana Centrale e Occidentale, ma nello stesso tempo aveva trasferito complicazioni e preoccupazioni ai confinanti del Sud. In effetti, il timore dei Ferraresi era che l’intervento idraulico progettato da Venezia avrebbe messo a soqquadro l’equilibrio già di per se stesso instabile del loro territorio: ciò che avvenne puntualmente con l’interramento della Sacca di Goro e i danni che colpirono i terreni che erano stati recuperati e avevano tratto beneficio dalla grande bonificazione ferrarese portata avanti dal Marchese (poi Duca) Borso d’Este, nella seconda metà del secolo XV. I suoi interventi avevano puntato la loro attenzione particolarmente nell’area del Polesine dove si era attivato per rendere vivibile e fertile un terreno particolarmente infido, ostile e per niente salutare. Per impedire l’erosione degli argini, a difesa si era messo in opera il cosiddetto paraduro, cioè una staccionata, costituita da lunghi pali di legno infissi verticalmente nel suolo e ricoperti con fascine, poste orizzontalmente. I terreni erano stati migliorati da un’opera che, per quei tempi, divenne famosa in tutta l’Europa, quale mezzo per recuperare aree da adibire all’agricoltura. Il prosciugamento del suolo era stato accompagnato da un tentativo da un lato di ripristinare la navigazione interna e dall’altro di sviluppare l’attività portuale sul Mare Adriatico.

Un immane lavoro finito nel nulla: insomma, i Veneziani, senza tanti complimenti, avevano recitato «mors tua, vita mea!», la locuzione di origine medioevale, che stava a significare che in ogni competizione il vincitore deve essere unico e, guarda caso, a vincere erano stati proprio loro.

L’Adige mantenne la foce a Sud della laguna e i rami del Po diedero inizio al prolungamento del Delta nell’Adriatico, grazie alla deposizione delle torbide che le acque portavano da Occidente dovute ai detriti di erosione di Alpi, Prealpi e Appennini. A pagare il prezzo della sopravvivenza di Venezia fu il territorio dell’ex Ducato Ferrarese. In breve, la nuova situazione territoriale di parte del Sud del Delta avviò una grave crisi, in cui Ferrara si dibatté con scarso appoggio da parte della Santa Sede. L’allontanamento dal mare dell’importante Castello di Mesola fu grave. Anzi, proprio Mesola in modo particolare sofferse per quanto era avvenuto, giacché la cinta delle mura fu demolita al fine di recuperarne il materiale costruttivo. Gli effetti si sentirono a breve pure nella morfologia del territorio del Delta, con i sedimenti trascinati dal fiume che misero in seria difficoltà la funzionalità del Porto di Goro, danneggiando la pesca nella sacca ridotta di dimensioni, rendendo pressoché inagibili gli approdi e gli scoli della bonifica, che ben presto furono interrati. Circa 20.000 ettari di suolo recuperato attraverso la bonifica s’impaludarono di nuovo. Il Delta continuò a spingersi nel mare, protendendosi a forma di freccia, grazie ai sedimenti che giungevano da Ovest, mettendo in discussione tutta la sistemazione che fu necessario affrontare nei secoli successivi. Infatti, ci fu l’interramento del Po di Goro e di altri rami minori, avviando un ritorno alle paludi da bonificare; intanto, più gli scarichi a mare si allontanavano, più aumentavano i depositi di lapidei e ciò anche perché, già a metà del secolo XVIII, i corsi del Po e dei suoi affluenti erano stati per lunghi tratti forniti di argini. Per farsi un’idea dell’entità della deposizione di detriti, è più che sufficiente confrontare l’espansione del Delta misurata nel 1604 e quella riscontrata nel 1840: 53 ettari l’anno contro 135. Insomma, i danni che dovettero essere affrontati dai tecnici idraulici ferraresi non furono né pochi né di lieve entità. Nell’opera di risanamento del disastrato territorio, diedero un aiuto importante quei dodici sacchi di riso che consentirono di avviare la coltivazione delle risaie, che tuttora producono un cereale veramente gustoso.

Non si entra nello specifico dei lavori sostenuti, perché essi non fanno parte dello scopo della redazione della presente nota, che era quello di mostrare come una decisione presa per sistemare un territorio possa andare alla cieca fra risultati positivi e negativi, ma naturalmente senza prendere in considerazione i risvolti di natura politica, che spesso guardano con i paraocchi ciò che si dovrebbe vagliare con una visione estesa a 360°.

Adesso i rami del Po che costituiscono il sistema deltizio sono sette: Po di Pila, di Maistra, di Tolle, di Gnocca, di Goro, di Volano, di Levante. Supposto che gli apporti di materiale solido nel Mare Adriatico continuino a pervenire (e non c’è nessuna ragione che possa dire il contrario), non è difficile prevedere che in un futuro, certamente non prossimo, ma non eccessivamente lontano, essi possano giungere alla costa dalmata, trasformando il Mare di Venezia in un mare interno, cioè in lago salato, come ora sono il Lago di Aral e il Mar Caspio.

Tuttavia sarebbe opportuno tenere presente che il pianeta Terra è pesantemente messo in difficoltà per la sua sopravvivenza, a causa del riscaldamento globale. È stato detto e ribadito in più convegni, nell’ipotesi che a qualcuno fosse sfuggito, che la situazione è gravissima giacché, con il concreto scioglimento dei ghiacci delle calotte polari e dei nevai, il livello degli oceani è destinato ad aumentare. Però, non avevo ancora compreso di quanto. Infatti, la notizia che ho letto e che mi ha veramente turbato riporta che, secondo coloro che si interessano al problema e, essendo loro gli esperti, non si può dubitare delle loro conclusioni, il livello entro il 2100 salirà di 82 centimetri (mi piace: 82, né più né meno, che precisione assoluta). Pertanto, la mia predizione che il Nord dell’Adriatico diventi un mare chiuso, a meno che sconvolgimenti tettonici non rimettano tutto in discussione, diventa una bufala. Supposto che io non sarò ancora qui quando si verificherà la catastrofe che ho preconizzato, lascio ai posteri la revisione del mio scritto.

(aprile 2020)

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