La Santa Inquisizione in Italia
Un sistema di coercizione e repressione su cui sono fiorite, nel corso dei secoli, falsità e menzogne

Sulla Santa Inquisizione si è scritto molto, forse anche troppo, e spesso a sproposito; la si è incolpata d’essere la principale responsabile della decadenza della cultura italiana nel Seicento, e le sue vittime più illustri (Giordano Bruno giustiziato a Roma, Tommaso Campanella carcerato per circa un quarto di secolo, Galileo Galilei costretto ad abiurare) sono stati celebrati come «martiri» del libero pensiero; in parte è vero, ma poi si è arrivati alle accuse più inverosimili, come quella di aver assassinato decine di milioni di persone (cosa che avrebbe significato spopolare l’intera Europa), e poco ci è mancato che non la si sia accusata del genocidio degli Ebrei nei lager nazisti o della distruzione delle Torri Gemelle a New York. Inoltre, alcuni processi che in passato venivano ascritti all’operato dell’Inquisizione (ad esempio, i processi della cosiddetta caccia alle streghe) furono in realtà celebrati da tribunali nati a seguito della Riforma di Lutero. Questa sorta di «leggenda nera» sull’Inquisizione ha avuto terreno fertile nel contesto protestante dal XVI secolo, poi illuminista settecentesco, e in quello liberale ed anticlericale ottocentesco, fino ai giorni nostri, ed è basata per la maggior parte su documenti (ma sarebbe più opportuno parlare di «leggende») redatti nei Paesi protestanti, dove si faceva di tutto per screditare la Chiesa Cattolica. Ma a chi studia le fonti con spirito critico e senza preconcetti, inserendo la Santa Inquisizione nel contesto socio-culturale dell’epoca, appare un’immagine ben diversa da quella tradizionale di un’istituzione sanguinaria e fanatica tesa a soffocare ogni minimo segno di dissenso per mezzo della tortura e del rogo.

Alcuni storici, come ricorda Ercolina Milanesi nel suo articolo Inquisizione, pongono l’inizio dell’Inquisizione «già nel Concilio presieduto a Verona nel 1184 da Papa Lucio III e dall’Imperatore Federico Barbarossa, con la costituzione Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem e fu perfezionata da Innocenzo III e dai successivi Papi Onorio III e Gregorio IX, con l’occorrenza di reprimere il movimento cataro, diffuso nella Francia Meridionale e nell’Italia Settentrionale, e di controllare i diversi e attivi movimenti spirituali e pauperistici.

Nel 1252, con la bolla Ad extirpanda, Innocenzo IV autorizzò l’uso della tortura e Giovanni XXII estese i poteri dell’Inquisizione nella lotta contro la cosiddetta stregoneria. Tale Inquisizione Medievale si distingue dall’Inquisizione Spagnola, istituita da Sisto IV nel 1478 su richiesta dei Sovrani Ferdinando e Isabella, che fu estesa nelle colonie dell’America Centro-Meridionale e nel Vice-Regno di Sicilia, e dall’Inquisizione Portoghese, istituita nel 1536 da Paolo III su richiesta del Re Giovanni III, che si estese al Brasile, alle Isole di Capo Verde e a Goa, in India».

Il Sant’Uffizio dell’Inquisizione Romana («Congregazione della sacra, romana ed universale Inquisizione del Santo Offizio»), fu istituito dal Papa Paolo III il 21 luglio 1542 con la bolla Licet ab initio; suo compito era la difesa dell’ortodossia e la lotta contro l’errore (se necessario anche con l’uso della forza), ma aveva sotto la sua giurisdizione tutto il mondo cattolico solo in teoria. Non aveva poteri in Spagna e nella maggior parte dei domini spagnoli, dove – abbiamo visto – vi era un organismo separato sotto il pieno controllo della Corona, mentre in Francia i suoi poteri erano limitati e in parte condivisi dal massimo tribunale laico, il Parlamento. Negli Stati Italiani la situazione era quanto mai variegata: la Sicilia e la Sardegna cadevano sotto la giurisdizione dell’Inquisizione Spagnola; nel Regno di Napoli, dove ripetuti tentativi di introdurre l’Inquisizione Spagnola erano falliti di fronte all’opposizione popolare, la responsabilità della repressione degli eretici apparteneva tradizionalmente ai Vescovi, e solo casi particolari potevano essere giudicati, su richiesta di Roma, da un rappresentante del Sant’Uffizio; nella piccola Repubblica di Lucca il compito di perseguire l’eresia era prerogativa del Vescovo, che doveva però essere assistito da un magistrato laico; infine, a Venezia e a Genova operavano giudici dell’Inquisizione Romana, che dovevano però operare fianco a fianco con magistrati laici nominati dal governo.

A quel tempo era convinzione diffusa – sia nei Paesi Cattolici che in quelli protestanti – che, oltre a cura pastorale, proselitismo ed educazione servisse una dose di disciplina e coercizione per reprimere le idee e le pratiche ritenute incompatibili con la Vera Fede[1]. È quanto osserva Carlo Borromeo, l’austero Arcivescovo di Milano, in una lettera indirizzata ad uno dei suoi più stretti collaboratori, datata 1580: «Se il Cardinale potesse fare l’ufficio suo […] con dolcezza solamente et amore, sarebbe cosa a lui molto dolce […], ma è necessario adoperar molte volte la verga».

Se si eccettuano alcune voci isolate nel Cinquecento e nel Seicento, l’idea condivisa dalla Chiesa e dalle autorità laiche in tutta Europa era che il dissenso religioso, in quanto affronto alla Vera Fede e ostacolo alla salvezza, e l’immoralità (dissolutezza e commercio con il diavolo) dovevano venire eliminati dallo Stato o dalla Chiesa, o più comunemente da entrambi, in quanto rappresentavano una minaccia sia per l’uno che per l’altra. A farne le spese furono luterani e anabattisti nell’Italia Cattolica, anabattisti e Cattolici nella Germania luterana, arminiani e Cattolici nell’Olanda calvinista, dissidenti (in primo luogo Cattolici) e quaccheri nella Gran Bretagna anglicana, Ebrei e musulmani in Spagna. In più, nell’età confessionale si era constatato, di fronte agli orrori delle guerre di religione, che gli errori dottrinali minavano l’unità della Nazione e la pace sociale: Adam Stewart, un presbiterano, era convinto che la tolleranza religiosa fosse «pericolosa per lo Stato, perché può generare fazioni e divisioni fra tutte le persone, quali che siano i legami che intercorrono tra esse», e queste divisioni «dissolvono tutti i legami naturali, civili e familiari delle società». I regnanti consideravano la religione «come il primo bene dei popoli e come eziandio il più forte baluardo della pubblica sicurezza», collaborando con i poteri ecclesiastici alla repressione delle eresie, «sempre infeste all’altare insieme ed al trono». La guerra contro gli eretici era moralmente giustificata, dato che l’eresia veniva presentata come un cancro, e una fonte di discordia, di conflitto e di guerra. Secondo le autorità ecclesiastiche, l’eresia e l’empietà andavano perseguite come offese contro la Vera Fede; per i governi della prima età moderna, la loro soppressione era ritenuta necessaria per la conservazione della tranquillità sociale: lo Stato era talmente propenso a combattere e a sradicare la dissidenza religiosa, che si assunse l’impegno di farlo ogni qual volta le autorità religiose si dimostravano meno che zelanti nel combattere l’errore o troppo clementi nel punire chi vi fosse caduto. All’inizio del Cinquecento, il governo di Milano aveva vivamente criticato la negligenza del clero nel fermare le infiltrazioni di idee luterane; nel corso del secolo, fu il governo veneziano a prendere l’iniziativa di processare gli anabattisti; invece, fu il Papa Innocenzo XI che sul finire del Seicento deplorò esplicitamente l’uso della forza da parte di Luigi XIV contro gli ugonotti «pubblicando – come riferiva da Roma l’ambasciatore veneto – non fosse proprio far missione di Apostoli armati e che questo metodo non fosse il migliore, giacché Cristo non se ne era servito per convertire il mondo».

Come precisa ancora Ercolina nell’articolo sopra citato, «a Roma, dal Cinquecento, l’Inquisizione aveva per prefetto lo stesso Papa che nominava gli inquisitori generali, un gruppo di Cardinali appartenenti alla Congregazione della Sacra Inquisizione, e gli inquisitori particolari, consultori della Congregazione; nelle diverse diocesi dello Stato Pontificio erano presenti altri inquisitori. Nella Spagna e nel Portogallo venivano nominati dal Re gli inquisitori generali, confermati dal Papa.

L’autorità dell’Inquisizione, in materia di fede, si estendeva “sopra qualunque persona di qualunque grado, condizione e dignità, ossia Vescovi, magistrati, comunità, né vi ha privilegio personale o locale che esenti dalla di lei giurisdizione”».

Inizialmente, la preoccupazione principale dell’Inquisizione e dello Stato in Italia era prevenire l’infiltrazione nella Penisola di idee protestanti. Dopo il 1580, invece, l’Inquisizione rivolse la sua attenzione principalmente contro idee filosofiche o scientifiche ritenute contrarie alla dottrina cattolica (come l’averroismo, il panteismo, l’atomismo e la teoria eliocentrica), contro forme di misticismo come il quietismo e la «finzione di santità» che scavalcavano il sistema sacramentale della Chiesa, contro varie forme d’immoralità (dalla bestemmia al caso di preti che si servivano della confessione a scopo di seduzione), e soprattutto contro la superstizione, la magia e la stregoneria.

Con l’espressione «arti magiche», si andava dalla negromanzia a vari generi di «superstizione», da alcune forme di astrologia alla stregoneria diabolica. Persino superstizioni praticamente innocue, come l’uso di candele benedette a presunto scopo terapeutico, vennero condannate dall’Inquisizione come forme di magia che, trasformando oggetti religiosi in talismani o amuleti, potevano addirittura sostituirsi alla Vera Fede. Ma naturalmente la maggiore attenzione veniva riservata per le pratiche di magia nera, cioè l’invocazione del diavolo per ottenere un illecito vantaggio personale o per causare danni fisici a persone, animali o raccolti. Le streghe erano persone sospettate di aver stipulato un patto con il diavolo e di aver ottenuto per questo poteri malefici occulti: in quanto seguaci ed agenti di Satana, queste persone erano considerate nemiche della vera religione e della società, e quindi erano trattate alla stregua degli eretici – il patto col diavolo era visto come una sorta di Cristianesimo rovesciato.

Del resto, la caccia alle streghe non fu né una peculiarità dell’Inquisizione Romana, né un fenomeno unicamente cattolico, ma un fenomeno europeo che invase sia i Paesi Cattolici che i Paesi protestanti, e che raggiunse punte massime di ferocia nei decenni 1590-1600, 1630-1640 e 1660-1670. Colpevole di forse 100.000 esecuzioni in tutta Europa nel corso di circa due secoli, la caccia alle streghe fu particolarmente cruenta in Germania, Svizzera, Scozia, Linguadoca, Lorena, Polonia e Svezia, mentre la Spagna e l’Italia, epicentri dell’Inquisizione, conobbero sorprendentemente poche esecuzioni, a parte le zone di confine lungo i Pirenei e le Alpi. In particolare l’Italia fu risparmiata dagli orrori della grande caccia alle streghe: solo di rado l’Inquisizione Romana inflisse la pena di morte a persone condannate per stregoneria, mentre nel cantone svizzero del Vaud il 90% dei processi di stregoneria si concluse con la condanna a morte, e in Scozia tra il 1560 e il 1700, sulle 2.300 streghe processate ben 1.350 finirono sul rogo.

Gli inquisitori italiani, che venivano dall’antica scuola del diritto romano, non erano dei fanatici furiosi, ma dei giudici coscienziosi i quali valutavano le denunce che arrivavano al tribunale con un meticoloso rispetto per le procedure giudiziarie e in particolare per quelle riguardanti la validità delle prove a carico. Trattando con le streghe, si premuravano di stabilire se davvero fosse stato compiuto un «maleficium», e spesso archiviavano accuse che consideravano insussistenti; non prendevano in considerazione accuse lanciate da nemici personali dell’imputato; prima di prestar fede a un’accusa di stregoneria, si sforzavano di determinare se il danno che si attribuiva all’opera di una strega avrebbe potuto essere spiegato da un medico sulla base di qualche causa naturale; e non ricorrevano all’uso di domande insinuanti o tendenziose nel corso del processo. Un buon numero di casi veniva semplicemente archiviato; ma anche quando veniva pronunciato un verdetto di colpevolezza, i rei non recidivi se la cavavano normalmente con una lieve condanna detentiva.

L’Inquisizione Romana ebbe una funzione importante nel frenare la persecuzione delle streghe (una funzione moderatrice non sempre apprezzata dalle autorità laiche: come notava Paolo Sarpi, «intorno alle streghe malefiche, l’eccellentissimo Maggior Consiglio ordinò che fussero punite dal magistrato, perché le pene ecclesiastiche non sono sufficiente castigo di così gran sceleratezza»). Nell’Italia della prima età moderna, in particolare nelle regioni alpine, la paura e l’odio popolare per le streghe si tradussero a volte in isterismo di massa, e spinsero le folle a chiedere una giustizia rapida ed esemplare, tanto che il Sant’Uffizio dovette spesso ricordare ai suoi rappresentanti periferici il loro dovere di proteggere le persone accusate o condannate per stregoneria dalle folle che intendevano linciarle; ma le masse popolari italiane non furono mai in preda a un fanatismo incontrollabile come avvenne in altre parti d’Europa: non risulta che in Italia fossero frequenti o largamente diffuse esplosioni di collera popolare contro le streghe, e l’ossessione e la paura delle streghe non furono una componente importante della mentalità popolare.

Un motivo di questo è il fatto che la magia «buona» o «bianca» (anch’essa obiettivo dell’Inquisizione, ma meno preoccupante), diffusa in Italia, in quanto diretta ad utilizzare forze occulte per ottenere un risultato buono – come curare una malattia o ritrovare un oggetto perduto – incarnava la presenza di una natura benevola, seppure misteriosa, e poteva fornire quindi un senso di fiducia, capace di neutralizzare o di mitigare la paura delle influenze diaboliche.

Un altro motivo era costituito dal culto dei Santi (una delle caratteristiche peculiari della religione popolare italiana nell’età della Controriforma), con annessa proliferazione di santuari, reliquie ed immagini miracolose: un mondo popolato di Santi Patroni ed oggetti sacri era percepito non come un luogo in cui l’individuo e la comunità erano soli di fronte alla sofferenza ed alle calamità, ma come un luogo fondamentalmente benigno, in cui le insidie del demonio potevano essere evitate e i sortilegi delle streghe neutralizzati con l’aiuto dei custodi celesti; e poiché i Santi venerati ed implorati erano, dopo tutto, essi stessi esseri umani che avevano vinto il diavolo, i devoti potevano sentirsi sicuri che anch’essi avrebbero potuto fare lo stesso.

L’Inquisizione dimostrava la stessa attenzione e lo stesso rispetto per le procedure e per i criteri di prova rigorosi anche quando si occupava di altri reati che cadevano sotto la sua giurisdizione, quali l’eresia, l’immoralità di ecclesiastici, la «finzione di santità». In tutti i casi applicava garanzie atte a proteggere i diritti degli imputati (garanzie spesso ben superiori a quelle vigenti nei tribunali laici): molte di queste garanzie sono eguali o addirittura superiori a quelle in vigore nei più moderni tribunali occidentali. L’Inquisizione, per esempio, non prendeva in considerazione ai fini processuali denunce anonime o testimonianze non giurate; prescriveva ai suoi funzionari di usare la massima cautela prima di eseguire un arresto, perché «la sola captura, e la voce di essere carcerato all’Inquisitione apporta grandissimo detrimento»; concedeva all’imputato il diritto di chiedere il cambiamento della sede del processo laddove vi fosse motivo di sospettare che l’inquisitore locale fosse prevenuto nei suoi confronti; riconosceva il diritto dell’imputato ad essere assistito da un avvocato e forniva difensori d’ufficio ai poveri; nel corso di tutto il processo ogni parola detta dall’imputato e dall’accusatore era meticolosamente registrata per assicurare che non venissero poste domande tendenziose; l’accusato aveva il diritto di leggere le deposizioni (anche se non di conoscere l’identità) dei testimoni d’accusa e di confutarle per iscritto; nel pronunciare il verdetto il tribunale teneva conto (cosa che i tribunali laici facevano solo di rado) di circostanze attenuanti come il livello d’istruzione dell’imputato, il suo stato emotivo o mentale, la sua età. Infine, l’Inquisizione, attenendosi alle regole dettate da Pio IV nel 1562, assolveva di norma gli eretici che non fossero recidivi e mostrassero segni di autentico pentimento per gli errori commessi. Per queste ragioni si è detto del Sant’Uffizio che fu in certi casi un pioniere della riforma giudiziaria.

È vero che l’Inquisizione, come qualsiasi altro tribunale dell’Europa continentale nella prima età moderna, ricorse in alcuni casi alla tortura giudiziaria per ottenere una piena confessione di colpevolezza o una prova di complicità: ma, secondo le norme di procedura penale generalmente accettate a quell’epoca, la tortura non era mai applicata quale mezzo ordinario e rapido per estorcere all’accusato un’ammissione di colpevolezza. Era piuttosto considerata un mezzo di accertamento della verità quando si disponesse soltanto di prove indiziarie (anziché della deposizione giurata di almeno due testimoni oculari) e l’imputato negasse tutte le accuse; solo in questi casi i tribunali medievali e quelli della prima età moderna non emettevano verdetti di condanna a meno che l’imputato non avesse confessato sotto tortura e successivamente confermato la sua confessione. Non furono molte le voci che nel XVII secolo si levarono contro questa norma.

L’Inquisizione ricorse alla tortura nei casi in cui la giurisprudenza del tempo lo richiedeva; ma, a differenza dei tribunali laici, la escludeva per le donne incinte, gli anziani, gli invalidi e i ragazzi sotto i quattordici anni; la durata della tortura era minore rispetto alla prassi dei tribunali laici e la pena inflitta era più lieve; infine, se l’imputato non confessava le sue colpe sotto tortura, veniva in genere rilasciato – e furono numerosissimi gli uomini e le donne che, sottoposti a tortura, non ammisero colpe né ritrattarono le deposizioni rese in precedenza, segno che le torture non dovevano essere così terribili. Gli stessi strumenti di tortura che si vedono oggi nei musei sono solo ricostruzioni ottocentesche di presunti strumenti di tortura medievali, molti dei quali rimasero allo stadio di semplice progetto.

Anche le pene comminate dall’Inquisizione erano relativamente clementi: esse andavano dall’obbligo di compiere qualche pratica di devozione e di penitenza all’umiliazione di una pubblica ritrattazione, agli arresti domiciliari, al carcere, al servizio sulle galere e, infine, alla pena di morte. Tuttavia, le pene realmente scontate erano più lievi di quelle che si leggono nei verbali del tribunale: il «carcere perpetuo», ad esempio, raramente ammontava a più di tre anni, ed era spesso commutato negli arresti domiciliari. La pena capitale veniva inflitta solo per i crimini più gravi, come l’apostasia, l’eresia, la stregoneria diabolica o la dissacrazione di altari, e soltanto quando l’imputato si mostrava ostinato e rifiutava di riconciliarsi con la Chiesa, o quando fosse già stato ufficialmente condannato in passato. La percentuale dei casi in cui i processi ebbero come tragico esito una condanna a morte, a giudicare dalla documentazione di cui siamo in possesso, è assai bassa: ad esempio, sulle circa 200 sentenze emesse dai tribunali provinciali italiani dell’Inquisizione negli anni 1580-1582 si comminò la pena di morte solo in 4 casi; a Venezia, dal 1547 al 1583, su 774 individui accusati di eresia, 119 furono giudicati colpevoli e di questi 12 vennero giustiziati; sul migliaio di imputati comparsi davanti al tribunale dell’Inquisizione ad Aquileia dalla metà del Cinquecento alla metà del Seicento, solo 4 vennero mandati al rogo; e in Friuli nessun processo per stregoneria si concluse con una condanna a morte. Viceversa, senza alcuna assistenza da parte dell’Inquisizione Romana, 300 protestanti furono mandati al rogo nei cinque anni di regno della Cattolica Maria Tudor; durante il regno della protestante Elisabetta, quasi 200 Cattolici ebbero lo stesso destino, ed altri 24 li seguirono (insieme ad alcuni antitrinitari) sotto Giacomo I; nella Ginevra calvinista venne giustiziato l’eretico Michele Serveto e, tra il 1540 e il 1620, 68 streghe, mentre migliaia furono quelle bruciate in tutta Europa. L’Inquisizione fu meno repressiva o crudele della maggior parte degli altri tribunali europei, ecclesiastici o laici, cui era affidata la difesa della retta dottrina e moralità.

L’Inquisizione riuscì, in Italia (e in accordo coi poteri laici) ad eliminare la minaccia del protestantesimo: a datare dal decennio 1580-1590 i gruppi protestanti (niente più che piccole conventicole disperse) non rappresentarono più un grave problema nella Penisola, come dimostra la rapida diminuzione dei casi coinvolgenti luterani, calvinisti o anabattisti portati davanti all’Inquisizione. Ben più limitati furono i risultati ottenuti nell’eliminazione delle idee filosofiche o scientifiche ritenute pericolose per la Vera Fede; e vi è pure la mancata conversione delle comunità valdesi stanziate fin dal tardo Medioevo in alcune valli occidentali del Piemonte, e che contavano forse 15.000 persone. Fieramente indipendenti e pronti a prendere le armi in difesa della propria fede e dell’autonomia delle loro comunità, i valdesi erano stati ripetutamente sottoposti ad intense campagne d’indottrinamento da parte di predicatori cattolici nel Cinquecento; nel 1602 e nel 1618 il duca di Savoia era intervenuto per infrangere la loro indipendenza minacciando di deportare tutti coloro che avessero rifiutato di convertirsi: ottenne qualche risultato nella zona intorno a Saluzzo, ma i valdesi non si piegarono in Val Pellice. Nel 1655 e nel 1663 furono lanciate delle campagne militari su vasta scala, con scarsi risultati; nel 1685-1686 il duca Vittorio Amedeo II, su richiesta di Luigi XIV di Francia e con l’intervento di truppe francesi a fianco dell’esercito sabaudo, sferrò un’offensiva massiccia. Attaccati da due parti, di fronte a forze nemiche preponderanti per numero ed armamento, decimati dalle perdite in battaglia, dalle deportazioni e dalle fughe all’estero, nel 1686 i valdesi del Piemonte erano giunti sull’orlo della totale distruzione. Tre anni dopo, però, un contingente superstite di mille uomini guidato da Henri Arnaud riuscì a tornare in patria con la forza delle armi in quello che sarebbe stato celebrato come il «glorioso rimpatrio» e a costituire un centro di resistenza capace di respingere i violenti attacchi delle forze sabaude e francesi. Tra l’altro, i rapporti tra il duca di Savoia e il Re Sole andavano deteriorandosi perché il duca stava segretamente cercando di sganciarsi dal prepotente alleato e si preparava ad aderire alla nuova coalizione antifrancese, la lega di Augusta – cosa che fece nel 1690, dopo essersi assicurato il sostegno proprio dei valdesi e della Spagna per cacciare le forze francesi dal Piemonte. Una volta raggiunto questo obiettivo, emanò un editto che riconosceva ai valdesi il diritto di praticare indisturbati la loro fede. Cent’anni fa, i valdesi italiani ammontavano a circa 400.000 persone e costituivano il gruppo religioso non cattolico più numeroso nella Penisola.

Anche gli Ebrei subirono le poco piacevoli attenzioni delle autorità ecclesiastiche e laiche (in Italia come nel resto dell’Europa): l’obiettivo era la loro espulsione in blocco o, se fossero stati tollerati come comunità separata, il loro isolamento, perché non potessero «contaminare» o «inquinare» il resto della società con credenze e riti non ortodossi. Nell’Italia del Cinquecento questo clima di ostilità e intolleranza rappresentava qualcosa di nuovo, perché fino alla fine del Medioevo gli Ebrei avevano goduto di una libertà maggiore che in qualsiasi altro Paese Europeo, ed avevano svolto un ruolo di rilievo nella vita economica e culturale del Paese. Napoli, la Sicilia e la Sardegna, che erano sotto il dominio spagnolo, arrivarono ad espellere in massa gli Ebrei nel 1510, in linea con la politica già adottata in Spagna. Qualche anno dopo la Repubblica di Venezia, pur permettendo agli Ebrei di risiedere a titolo permanente nella città lagunare, li confinava in un quartiere chiuso e delimitato (il ghetto), dove essi dovevano abitare in case d’affitto e dal quale non potevano allontanarsi dopo il tramonto (ma è da notare che fin dal Medioevo gli Ebrei avevano circondato di mura i quartieri dove abitavano, tanto nelle città europee che mediorientali, per evitare d’essere a stretto contatto con i non Ebrei). Anche il Papato adottò il ghetto, nonostante fosse sempre stato il maggior protettore degli Ebrei in Europa Occidentale ed ancora negli anni Quaranta e Cinquanta del Cinquecento avesse fatto concessioni sempre più generose nella speranza di attrarre nel porto di Ancona gli Ebrei espulsi dai domini spagnoli; nel 1555, l’intransigente Paolo IV ordinò che fossero internati in ghetti in tutte le città dello Stato Pontificio ed impose restrizioni umilianti alle loro attività economiche; sotto il suo successore Pio IV prevalse una politica più moderata, ma misure più severe furono prese da Pio V, che ordinò l’espulsione degli Ebrei da tutte le città dello Stato Pontificio tranne Roma ed Ancona; nel secolo successivo questa politica fu mitigata, e un certo numero di città furono loro riaperte. Nel 1565 Filippo II decise di espellere gli Ebrei dallo Stato di Milano, ma le opposizioni delle autorità locali, che dipendevano largamente dai prestiti dei banchieri ebrei, riuscirono a bloccare il decreto reale per trent’anni; solo nel 1597 il decreto di espulsione venne eseguito, e circa 900 famiglie furono costrette a partire. In Toscana l’internamento nel ghetto fu imposto nel decennio 1560-1570; in Piemonte venne decretata più o meno nello stesso periodo l’espulsione totale, anche se il provvedimento non venne applicato rigidamente. Al contrario, il duca di Mantova accolse di buon grado gli Ebrei nel suo piccolo Stato, mentre i Granduchi di Toscana non solo li incoraggiarono a stabilirsi a Livorno (che stavano cercando di trasformare in un importante porto franco), ma esentarono coloro che vi si insediavano da tutte le restrizioni e i divieti che erano in vigore nelle altre città dei loro domini.

Nel Seicento si determinò un mutamento degli atteggiamenti rigidi ed inflessibili del secolo precedente: alcuni Sovrani Italiani – Papi, Granduchi, Dogi – riconobbero pragmaticamente il ruolo insostituibile che gli Ebrei potevano svolgere nel commercio internazionale grazie all’esperienza acquisita nei secoli in questo campo ed ai legami con altre comunità ebraiche in Europa (particolarmente in Olanda e in Polonia) e nell’Impero Ottomano. I Granduchi Medici erano ben consci di questo quando incoraggiavano gli Ebrei a venire a Livorno, e così i Papi quando, concedendo agli Ebrei il permesso di stabilirsi in centri commerciali chiave come Ancona, Pesaro e Senigallia, riconoscevano esplicitamente la loro funzione nel commercio tra l’Italia e il Mediterraneo Orientale. In modo analogo la Repubblica di Venezia, sentendosi minacciata dalla concorrenza di Ancona, concesse ai propri Ebrei il diritto di commerciare nel Levante, un privilegio in precedenza riservato ai suoi soli patrizi e cittadini e da essi gelosamente difeso. Nel 1652 Carlo Emanuele II, duca di Savoia, nel tentativo di far la fortuna del suo unico sbocco al mare, invitò espressamente mercanti ebrei dell’Olanda e dell’Africa Settentrionale a stabilirsi a Nizza. L’effetto di questo pragmatismo mercantilistico fu la sopravvivenza e la crescita di cospicue e dinamiche comunità ebraiche che venivano inevitabilmente ad interagire con la società dei Cristiani: a Venezia la comunità ebraica raddoppiò di numero nella prima metà del Seicento; a Livorno quadruplicò; ad Ancona, Pesaro e Senigallia risiedevano comunità ebraiche numerose.

L’opera repressiva della Santa Inquisizione (e di altre istituzioni) ebbe successo nel tenere a freno superstizioni e pratiche magiche, anche se in questi campi della cultura popolare l’educazione e la persuasione, esercitate mediante catechismi, prediche, scuole o il confessionale, ebbero probabilmente una funzione tanto importante quanto la punizione di coloro che erravano. A Napoli, si passò dai 125 casi di magia e di stregoneria giudicati dal tribunale vescovile nel primo decennio del Seicento, ai 25 dell’ultimo. Per quanto riguarda l’impatto della repressione sull’immoralità, le inadempienze e l’assenteismo del clero e sulla condotta spesso scandalosa di monaci e suore, possiamo dire che gli abusi e il malcostume non scomparvero del tutto, le inframmettenze dei laici nella vita del clero attraverso varie forme di patronato rimasero numerose e il nepotismo papale raggiunse livelli elevati nella prima metà del Seicento (soprattutto durante il pontificato di Urbano VIII), tuttavia la qualità del comportamento del clero migliorò ovunque nella seconda metà del secolo, all’epoca del cosiddetto «risveglio tridentino».

Sul versante della censura dei libri, il primo passo era stato compiuto nel 1549 con la pubblicazione del primo di una lunga serie di indici dei libri proibiti; poi, nel 1571, venne istituita la Congregazione dell’Indice come organismo della Curia Romana il cui compito specifico era quello di individuare, in collaborazione con l’Inquisizione, i libri ritenuti pericolosi per la fede e di esaminare i manoscritti degli autori cattolici per valutarne l’ortodossia prima della pubblicazione.

La censura è stata accusata di aver tagliato fuori la cultura italiana da quella del resto d’Europa, imponendole un gretto conformismo, e di aver avuto un impatto negativo sulla creatività e sulla libera ricerca. Ma non bisogna dimenticare che la censura era avallata e applicata tanto dalla Chiesa quanto dallo Stato, e non solo in Italia ma in tutta Europa, sia nei Paesi Cattolici che in quelli protestanti; persino Paolo Sarpi, tanto propenso a criticare il Papato e la sua intromissione nella vita degli Stati, non esitò a sostenere la legittimità ed anzi la necessità della censura: «La materia de’ libri – scrisse – par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati». Inoltre, la censura in Italia non fu una cortina di ferro capace di isolare del tutto la cultura della Penisola dai venti di novità che soffiavano a Nord delle Alpi: in una lettera indirizzata agli inquisitori provinciali del 1614, il Cardinale Bellarmino espresse la sua grande preoccupazione per la persistente e diffusa circolazione in tutta Europa di «libri infetti e perniziosi» e chiamò gli inquisitori a raddoppiare la vigilanza per «ovviare almeno che simil peste de’ libri non infetti queste parti d’Italia». Infatti, i libri eretici s’infiltravano in Italia spesso nascosti in pacchi di merci provenienti dai Paesi protestanti o come edizioni nelle quali la copertina originale era stata sostituita con un’altra su cui comparivano un titolo falso (e in apparenza innocuo) e un falso luogo di pubblicazione. Fu grazie ad un commercio librario clandestino, ma nutrito, che gli scritti dei «libertini», zeppi di invettive anticlericali, circolarono largamente in Italia.

Una quarantina d’anni fa Jean Delumeau, in L’Italie de Botticelli à Bonaparte (Colin, Paris 1974, pagine 275-276), affermava che l’Italia del Seicento era «uno dei Paesi più liberi d’Europa»: in Italia vennero bruciati sul rogo meno eretici e streghe che altrove, gli artisti non si sentirono vincolati nella loro interpretazione di soggetti pagani, il Paese nel suo insieme continuò ad ospitare numerosi libertini ed atei; la cultura italiana non cadde in un rigido e cieco conformismo, ma continuò a dar prova di originalità e di creatività. Il futuro religioso del Paese non fu deciso per mezzo della coercizione e della repressione, ma dalla paziente opera di educazione e di persuasione che era elemento essenziale della Riforma Cattolica: i suoi frutti furono il persistente fervore delle masse popolari, la fedeltà al Cattolicesimo di gran parte dell’élite culturale (anche di coloro che dovettero soffrire per colpa della Chiesa), la diffusione tra i laici di forme di religiosità più personali e più intime, l’impressionante rete di istituti di carità gestiti per la maggior parte da laici. Tutte cose che non si sarebbero certo potute ottenere con metodi coercitivi.

Nell’Ottocento gli Stati Europei soppressero i tribunali dell’Inquisizione, con l’unica eccezione dello Stato Pontificio: nel 1908, regnante Pio X, la Santa Inquisizione assunse il nome di «Sacra Congregazione del Santo Offizio», finché con il Concilio Vaticano II, durante il pontificato di Paolo VI, in un clima profondamente mutato dopo il papato di Giovanni XXIII, assunse nel 1965 il nome di «Congregazione per la dottrina della fede», che tuttora conserva.


Nota

1 «Per rispondere al dilagare di fenomeni ereticali e all’emorragia di fedeli, la Chiesa Cattolica rispose in due modi: appoggiandosi ai movimenti che pur richiamando a un più autentico Cristianesimo non si staccavano da Roma, e cioè domenicani e francescani; istituendo uno speciale tribunale ecclesiastico che avesse il compito di individuare gli eretici e di ricondurli alla “vera” fede: l’Inquisizione» (Ercolina Milanesi, Inquisizione).

(agosto 2013)

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