Otranto: la strage degli ottocento martiri
Riflessioni attuali a proposito di corsi e ricorsi della storia

Il 28 luglio 1480, spinta da una forte tempesta di vento, la grande flotta di Maometto II costituita da 150 navi con 18.000 soldati[1] e posta agli ordini di un comandante sanguinario, Ahmed Pascià, comparve al largo di Otranto, che fu cinta d’assedio dopo uno sbarco senza opposizioni. In effetti, la guarnigione spagnola presente in città si era data alla fuga al solo comparire dei galeoni ottomani, promettendo rinforzi che non avrebbero potuto sopraggiungere in tempo utile: fu così che la difesa, guidata da Francesco Zurlo e da Giovanni Antonio Delli Falconi, venne sostenuta dai pescatori e dai contadini locali, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione maschile, mentre quella totale, comprensiva di donne, vecchi e bambini, ammontava a non più di 6.000 persone.

All’epoca, la potenza ottomana sembrava imbattibile ed incuteva terrore per le sue celebri efferatezze. Sarebbe occorso molto tempo prima del forte riscatto di Lepanto (1571) o della grande vittoria che il principe Eugenio di Savoia avrebbe riportato a danno dei Turchi nella celebre campagna del 1687.

Ad Otranto, non essendo riusciti ad ottenere la resa nonostante l’ampia superiorità di uomini e mezzi, i Turchi ordinarono il bombardamento della città, che cadde in mano nemica soltanto il successivo 11 agosto dopo una valorosa resistenza di due settimane rimasta negli annali d’Italia quale esempio di vero eroismo, suffragato dal giuramento collettivo di fedeltà ai valori cristiani, che era stato solennemente formulato in Cattedrale.

I maschi di oltre 15 anni in grado di combattere vennero uccisi mentre i minori, al pari delle donne, furono ridotti in schiavitù, con quale orrendo destino è facile immaginare. Particolarmente cruento fu il sacrificio degli 813 Martiri decapitati «in odium fidei» sul colle della Minerva, a gruppi di 50, ed alla presenza forzata dei congiunti, dopo il rifiuto – davvero plebiscitario – di conversione all’Islam. Quale ulteriore oltraggio postumo, le loro Spoglie vennero lasciate insepolte per parecchi mesi, alla mercé di animali ed eventi naturali.

Il Vescovo Stefano Agricoli venne fatto a pezzi a colpi di scimitarra, il responsabile della guarnigione Francesco Largo fu segato da vivo, ed il sarto Antonio Pezzella fu il primo ad essere decapitato: il loro Martirio[2], assieme a quello delle altre Vittime, è stato riconosciuto dal Santo Padre Benedetto XVI nel Decreto del 6 luglio 2007, dopo quello di beatificazione che era stato emesso dalla Sede Pontificia nel corso del XVIII secolo, ad opera di Papa Clemente XIV, mentre la santità dei Martiri di Otranto è stata proclamata da Papa Francesco in Piazza San Pietro nella solenne cerimonia del 12 maggio 2013.

Cappella con le ossa dei martiri

La Basilica Cattedrale, la cappella con le ossa dei martiri, Otranto (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2004

Le cronache abbondano di particolari tremendi: non contenti del sangue cristiano versato nella terribile strage, i Turchi impalarono un loro soldato che non aveva condiviso le singolari crudeltà e la stessa copertura religiosa dell’eccidio, e trasformarono le chiese in stalle per i loro cavalli. Del resto, le loro efferatezze non erano una novità: se non altro, si sapeva bene quanto era accaduto dopo la caduta di Costantinopoli, il cui ricordo non lasciava alternative ad una pur disperata resistenza alla luce dei valori cristiani. Nel caso di Otranto, peraltro, la nemesi non fu troppo tardiva: un anno dopo la strage, gli Ottomani dovettero arrendersi alle truppe di Alfonso d’Aragona (8 settembre 1481). Ed oggi gli Ottocento Martiri sono i Santi Protettori della città salentina.

Ad oltre mezzo millennio dal «sacco» di Otranto, troppo spesso dimenticato, le riflessioni che emergono dalla sua tragica storia hanno assunto motivi di rinnovata attualità, alla luce dell’intransigenza manifestata in modo pervicace dalle correnti fondamentaliste dell’Islam, e peggio ancora, dalle simpatie di cui fruiscono in qualche frangia delle culture occidentali, come attesta il triste fenomeno dei «foreign fighters» nelle file dell’ISIS.

A ben vedere, le ricorrenti manifestazioni del terrorismo islamico a danno degli «infedeli» (che hanno finito per coinvolgere nella morte anche parecchi musulmani come accadde nella strage delle Torri Gemelle perpetrata nel 2001) non hanno molto da invidiare a quella di Ahmed Pascià: caso mai, è vero il contrario, ma soltanto a causa dei mezzi tecnici oggettivamente inferiori a quelli odierni, di cui gli invasori potevano disporre nel 1480. In effetti, Otranto fu teatro di un genocidio, al pari di quello auspicato dal fondamentalismo del nuovo millennio, che non fa mistero del suo disegno avveniristico di forzata islamizzazione mondiale, lontano anni luce da taluni conati ecumenici delle Chiese Occidentali.

Per fare un esempio vicino alla storia italiana del Novecento, esiste una sorta di DNA che unisce il sacrificio degli Idruntini, perpetrato dagli Ottomani di Ahmed, a quello degli Italiani di Venezia Giulia e Dalmazia nel decennio 1943-1954. Analoga ferocia nelle uccisioni indiscriminate, analoga pervicacia nell’odio per la fede cristiana, analoga volontà di perseguire la pulizia etnica; con la differenza non marginale che nel Novecento era passato quasi mezzo millennio dai fatti di Otranto: un periodo plurisecolare contrassegnato, almeno sulla carta, da conclamati progressi etici e giuridici.

Ciò, senza dire che le stragi nelle zone del confine orientale italiano non furono consumate nel nome di Allah, ma nel segno dell’ateismo di Stato e del collettivismo forzoso. Basti ricordare le centinaia di sacerdoti e suore uccisi in Istria, a cominciare da Don Francesco Bonifacio, il giovane curato di Villa Gardossi caduto in odore di santità[3]. Quanto alla nemesi, nel caso di specie è stata più lenta, ma alla fine il regime comunista nei Paesi dell’Europa Orientale, Jugoslavia compresa, è caduto in modo clamoroso.

La tristissima «banalità del male» di cui ha parlato Hannah Arendt nella sua grande opera dedicata all’Olocausto è sempre in agguato, con motivazioni che continuano ad ignorare sia il diritto positivo, sia – a più forte ragione – quello naturale. In ogni caso, è sempre tempo di ispirarsi alla teoria dei corsi e ricorsi storici del Vico ricordando che «le vie dell’iniquità non possono essere eterne», onde esorcizzare la tentazione satanica che si trova alle radici del male ed onorare le Vittime innocenti di ogni genocidio grande o piccolo: un oltraggio all’ordine civile solennemente ma troppo spesso inutilmente proclamato nelle Dichiarazioni dei diritti e nelle Costituzioni moderne.


Note

1 Si tratta di una stima prudenziale mutuata dalla bibliografia prevalente, in misura prevalente di espressione locale. In effetti, secondo alcune fonti i galeoni ottomani sarebbero stati almeno 200, con un numero di uomini proporzionalmente superiore a quello indicato. Al contrario, i difensori in armi, peraltro privi di artiglieria e di altri mezzi militari pesanti, furono soltanto qualche centinaio. In una suggestiva rievocazione del «sacco» di Otranto nella forma di romanzo storico, l’opera più nota è quella di Maria Corti, L’ora di tutti, Feltrinelli, Milano 1962 (anche nell’edizione tascabile di Bompiani, Milano 2001). Sull’argomento esistono, inoltre, sceneggiature a fini teatrali e cinematografici come quelle di Rita Durante (Il sacco di Otranto), Giuseppe Trecca (I Martiri di Otranto: il più fulgido episodio della storia italiana) e Carmelo Bene (Nostra Signora dei Turchi, opera premiata alla 33° Mostra di Venezia).

2 Oggi le ossa di buona parte dei Martiri sono custodite in sette contenitori lignei collocati nell’abside della Cattedrale di Otranto dove sono oggetto di venerazione da parte della cittadinanza e dei fedeli del comprensorio; altre reliquie vennero traslate a Napoli per essere inumate nella chiesa di Santa Caterina, ed altre ancora riposano in diverse città italiane, a dimostrazione di una «pietas» nei confronti delle Vittime e del loro eroismo cristiano assai diffusa nei secoli scorsi. Per quanto riguarda il numero delle Vittime, è da ricordare che secondo alcune fonti si sarebbe ragguagliato ad oltre 10.000, senza contare altre 5.000 persone ridotte in schiavitù, ma le cifre in questione devono ritenersi sovrastimate, avuto riguardo a quelle della popolazione, salvo possibili errori nel conteggio degli abitanti.

3 Una storia dettagliata e documentata delle persecuzioni a danno dei religiosi nelle zone del confine orientale italiano è ora disponibile in: Pietro Zovatto, Preti perseguitati in Istria (1945-1956), Luglio Editore, Trieste 2017, 336 pagine.

(maggio 2018)

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