Un Doge decapitato: Marin Faliero
La Repubblica di Venezia fra istituzioni liberali e complotti di palazzo

Nel periodo a cavallo fra il XIII e il XIV secolo Venezia era la capitale giuridica ed economica di un Impero di vaste proporzioni. Le sue navi solcavano le acque di tutto il Mediterraneo, i suoi mercanti si erano spinti fino all’Estremo Oriente, nell’Europa Centrale e nel Nord Africa.

Venezia, che ogni giorno vedeva crescere la sua potenza, rappresentava un centro dinamico in cui confluivano spezie, tessuti, schiavi, zucchero, grano, oro ed ogni altro genere di ricchezza.

I suoi capisaldi nel mare, come la Dalmazia, Cipro e il Dodecaneso, resistevano ad ogni pressione politica e militare, mentre solo Genova osava sfidare la sua innumerevole e ben guarnita flotta.

Sotto il profilo governativo, Venezia era da sempre una Repubblica i cui Dogi venivano eletti dal popolo tramite sistemi complicati e macchinosi, fino a quando nel 1289 salì al soglio dogale Pietro Gradenigo, il quale istituì una serie di nuovi regolamenti, riassunti col nome di «Serrata del Maggior Consiglio»: di fatto Venezia venne trasformata in un’oligarchia, al cui consiglio vi potevano accedere solo i membri delle principali famiglie di patrizi o notabili, con un incarico, quello di consigliere, che durava tutta la vita. Il Doge veniva così scelto fra le famiglie più in vista della città ed era quindi il prodotto di una serie di lotte interne volte a garantire il rafforzamento politico ed economico di pochi.

L’intento era quello di evitare la trasformazione della Repubblica in una dittatura o in un principato, specie dopo la terribile sconfitta subita a Curzola (1298) ad opera dei Genovesi, fonte di dissapori del popolo verso il Governo.

In questo contesto un giovane dall’aspetto esile, alto di statura e dal carattere riflessivo, entrava gradualmente a far parte della vita politica della città lagunare. Era figlio di una ricca e potente famiglia, quella dei Faliero, che aveva avviato già da generazioni commerci un po’ ovunque. I suoi genitori erano Jacopo e Tommasina Contarini, appartenente ad un’altra nobile e potente famiglia, ma la sua educazione fu affidata, a causa del cattivo stato di salute del padre, allo zio Marino, di cui egli stesso portava il nome.

Era nato nel 1274 ed era cresciuto sotto i burberi insegnamenti dello zio, un intrigante ed abile affarista. Conobbe anche i ricchissimi fratelli Polo e Marco gli diede in dono diversi oggetti curiosi portati dai suoi viaggi nel Katai.

A quattordici anni venne imbarcato per Cipro, dove visitò i possedimenti della famiglia in quelle terre e dove imparò l’arte di amministrare i beni della famiglia.

Una volta tornato iniziò ad accompagnare lo zio Marin alle sedute del Maggior Consiglio, del quale anche lui entrò a far parte nel 1303.

Subito si trovò immerso in un mondo di macchinazioni politiche, invidie, risentimenti e lotte per conquistare privilegi. Marin Faliero sapeva destreggiarsi bene negli equilibri del potere, acquisendo continuamente cariche amministrative, ma perdendo la sua integrità morale: con il Doge Soranzo ed altri colleghi del consiglio dei Dieci organizzò l’assassinio del poeta e letterato Niccolò Querini, considerato, a ragione, di essere sostenitore del diritto di rappresentanza della plebe.

Di pari passo con la carriera politica, crescevano le sue ricchezze, acquistava proprietà, organizzava spedizioni marittime e faceva commerci lucrosi. Nel 1355 si sposò per la seconda volta con Aluica Gradenigo (in precedenza aveva sposato la schiava Alegranca, la quale morì dando alla luce la figlia Lucia) e, unendo i suoi averi a quelli dell’ereditiera Gradenigo, accrebbe ulteriormente il suo tesoro personale.

Ormai cinquantenne fu inviato ad amministrare per conto della Repubblica la Marca Trevigiana, per lui un noioso esilio dorato e, una volta rientrato nella capitale, venne mandato ad Avignone per chiedere a Papa Clemente VI la cessazione della scomunica emanata contro i Veneziani. La bolla di scomunica significava infatti l’isolamento economico e politico di un intero Stato: una vera calamità per Venezia.

Faliero si dimostrò abile nell’arte politica e seppe destreggiarsi nella diplomazia con grande capacità. Dopo Avignone fu inviato in Istria per sedare le rivolte ispirate dal Re Lodovico d’Ungheria, quindi a Genova per trattare col Doge Giovanni di Valente, poi ad amministrare la potente città di Padova, feudo della Repubblica ed ancora a Costantinopoli, delegato a trattare con l’Imperatore Giovanni Paleologo, dal quale strappò un’alleanza contro Genova sborsando ventimila ducati d’oro fiammante. Sempre attivo, non aveva pace né nel corpo né nello spirito; comparivano gli acciacchi dell’età, ma era consumato soprattutto dal continuo intrigare e dalla bramosia di ricchezze.

Venezia si trovava un giorno nella gloria ed il giorno dopo scricchiolava a causa delle ribellioni dei popoli sottomessi, della politica internazionale e di quella interna, per poi riprendersi e continuare in un altalenante e pericoloso saliscendi. Le congiure di una famiglia contro l’altra sfociavano spesso nel sangue ed aumentava vertiginosamente il risentimento delle plebe, spodestata dei suoi diritti, verso la signoria.

Faliero fu un abile tessitore, capace di inghiottire rospi e di preparare vendette. Il 7 settembre del 1354 spirò il Doge Andrea Dandolo e dopo pochi giorni il Maggior Consiglio poteva riunirsi per scegliere un nuovo Doge. Le trattazioni fra le famiglie patrizie si intensificarono al punto da dare il via a veri e propri scontri. Si sperava quindi nell’elezione di un Doge dalla personalità debole, depotenziato nelle sue funzioni e facile da controllare, una soluzione che avrebbe sì compromesso la carica dogale per il futuro, ma che avrebbe accontentato tutti i patrizi. Le cose però non andarono così.

Marin Faliero non poté partecipare alla votazione, in quanto delegato ad Avignone per colloquiare col Papa; una staffetta partì da Venezia e lo raggiunse in Provenza: era lui il nuovo Doge dei Veneziani.

La città accolse il suo ritorno in festa e per la posa del corno dogale fu organizzata una cerimonia sontuosa. I banchetti durarono diversi giorni e, nonostante la nota avarizia dei Faliero, si fece molta elemosina ai poveri.

Poco tempo dopo il Doge Marin Faliero si trovò immerso nelle incombenze e nelle responsabilità del suo nuovo ruolo. Papa Innocenzo VI voleva un incontro pacificatore fra le Nazioni, Carlo IV di Francia era atteso, il popolo era soffocato dalle mille gabelle, i Turchi minacciavano i commerci, le città dalmate erano in agitazione. Lo preoccupavano però di più i persistenti intrighi di palazzo, gli odi fra le famiglie che rischiavano di trasformarsi in vere e proprie faide.

Si convinse così della necessità di un colpo di Stato. Convinse l’ammiraglio dell’Arsenale Bertuccio Isarello a capeggiare la rivolta che stava preparando e organizzò segretamente dei capi-compagnia che avrebbero comandato e guidato la sollevazione popolare. Si raccolsero fondi ed armi, ma le spie, che a Venezia abbondavano, informarono gli apparati governativi e i vari consigli della Repubblica; la sera del 15 aprile 1355, quando avrebbe dovuto iniziare la rivolta, il Doge venne arrestato, come accadde a tutti i congiurati.

Il giorno successivo fu celebrato un processo sommario, durante il quale vennero condannati a morte centinaia di rivoltosi. In tutta Venezia non vi era un numero sufficiente di boia per un tal lavoro: ci vollero otto giorni per eseguire le sentenze, tante furono le impiccagioni, gli strangolamenti e gli annegamenti. Ben quattrocento persone vennero gettate in mare legate ad una pietra.

Il 16 aprile arrivò la volta del Doge Marin Faliero, considerato un traditore della Repubblica: gli fu tagliata la lingua (forse per non parlare) e quindi venne decapitato presso lo scalone di Palazzo Ducale.

Decapitazione di Marin Faliero

Francesco Hayez, Gli ultimi momenti del Doge Marin Faliero, 1867, Pinacoteca di Brera, Milano (Italia)

Nel 1366 il Consiglio dei Dieci decretò di ricoprire col dipinto di un manto azzurro l’effige del Doge nella sala del Maggior Consiglio e quindi di apporvi l’epigrafe:

«Hic fuit locus ser Marini Faletro
decapitati pro crimine proditionis».

Secoli dopo si ridisegnò un manto nero, con la scritta:

«Hic est locus Marini Faletri
decapitati pro criminibus».

(anno 2004)

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