Ludovico il Moro e l’età aurea della Grande Milano
Ludovico il Moro portò il Ducato di Milano all’apice del suo potere e del suo splendore culturale; e lo trascinò alla rovina

Ludovico il Moro (o Mauro, il suo secondo nome) è un personaggio ambiguo, nel panorama della Storia: per Milano, anzi, per l’Italia intera fu una benedizione e una maledizione. Una benedizione, perché portò il Ducato all’apice del suo splendore economico, politico e culturale; e una maledizione, perché aprì le porte d’Italia allo straniero (anche se forse la responsabilità principale sarebbe da ascrivere ad Isabella d’Aragona) mostrando quant’era facile la conquista di un Paese ricco e diviso in tanti Stati che si guardavano in cagnesco ed erano sempre disposti a danneggiarsi l’un l’altro.

Quarto figlio di Francesco Sforza, capostipite della gloriosa famiglia di Signori di Milano, e di Bianca Maria Visconti, Ludovico Maria Sforza «da puto era detto il Moro per essere alquanto nigro, per il che faceva depingere in le insegne teste de Moro con un ligamento al fronte; e in onor suo li populi cridavano Moro Moro, quando giva per città e loci del Stato». Questa, per «voce» di un cronista di cinque secoli fa, è la spiegazione del curioso nomignolo di Ludovico. Sembra invece oggi più probabile che fosse chiamato così perché diede un forte incremento alla coltivazione del gelso, che in Lombardia ha, appunto, il nome di «moro»; oltre a ciò, mise in voga a Milano il color della mora e fornì il tema e il motivo di alcune delle decorazioni di Leonardo da Vinci nelle sale del Castello Sforzesco.

Questo interessante personaggio nacque probabilmente il 27 luglio 1452 nel castello di Vigevano, a trentasei chilometri da Milano. Fisicamente era piuttosto brutto, sebbene fosse robusto e di statura superiore alla media; aveva una carnagione marcatamente olivastra, occhi e capelli neri, lineamenti aspri e irregolari: il naso era lungo e bitorzoluto, il mento prominente, le labbra sottili e tese, la grinta volitiva e imperiosa. Ma nel profilo attribuito al Boltraffio, e nei busti di Lione e del Louvre, si notano una fisionomia dalla calma possanza, un’intelligenza sensibile e una distinzione quasi soave. S’era subito compiaciuto del nomignolo di Moro che gli era stato imposto e per renderlo più pertinente aveva adottato fogge e simboli moreschi e riempito la Corte di schiavi negri.

Ludovico il Moro

Giovanni Antonio Boltraffio, Ritratto di Ludovico il Moro, raccolta privata, Milano (Italia)

Il giovane Ludovico trascorse i primi sedici anni presso i genitori, alla sfarzosa Corte Sforzesca, e fu educato dalla madre, Bianca Maria Visconti, e dall’umanista Filelfo, forse il miglior precettore dell’epoca. Crebbe dotato di una solida cultura e di buone maniere, anche se alle attività intellettuali preferiva gli sport, dalla caccia alla pesca, al tiro con l’arco, all’equitazione. Sollecitava e temeva gli oroscopi di maghi e astrologi, amava le donne e la buona tavola, ma detestava gli eccessi.

Nel 1466 Francesco Sforza morì e il Ducato di Milano passò al figlio maggiore Galeazzo Maria. Costui instaurò una tirannia crudele, per cui, dieci anni dopo, fu assassinato sulla scalinata della chiesa di Santo Stefano. Salì al potere l’unico suo figlio, Gian Galeazzo, che aveva solo sette anni e perciò era tenuto sotto la guida di un abilissimo ministro, Cicco Simonetta, della madre, la Duchessa Bona di Savoia, e di un consiglio di reggenza del quale faceva parte lo stesso zio Ludovico.

Gian Galeazzo era un bambino malaticcio e abulico; Ludovico, al contrario, era intelligentissimo, ambizioso, si sentiva capace di grandi cose. Perciò il Simonetta ebbe quasi subito la vita difficile. Dopo molti raggiri, cadde in disgrazia; fu accusato di colpe quasi tutte inesistenti, condannato a morte e decapitato. Era il 1480.

Ora Ludovico aveva via libera, tanto più che Gian Galeazzo aveva un comportamento timido e riservato, timoroso delle responsabilità del comando e incapace di governare. Era malato (anche immaginario) e passava la sua vita fra i medici e i divertimenti. Lo zio, astutissimo, gli lasciava volentieri l’apparenza e la pompa del comando, mentre muoveva senza troppo clamore le leve dello Stato, riceveva gli ambasciatori e dirigeva la politica. Si dimostrava un uomo affabile, generoso e alla mano, dolce e cortese, sensibile a tutte le bellezze e a tutte le arti, il diplomatico più astuto del suo tempo, un personaggio anche scettico e superstizioso ma che aveva a cuore il buon funzionamento dello Stato e della sua economia, e i Milanesi riconobbero in lui il Signore ideale. Pochi principi del Rinascimento lo eguagliarono nella magnanimità e nella munificenza. Diede impulso all’agricoltura, incrementò l’allevamento del bestiame (ventottomila capi fra buoi, mucche, bufali, pecore e capre; nelle stalle spaziose erano ricoverati i destrieri e le cavalle che davano le razze migliori d’Europa), fece scavare canali d’irrigazione, favorì la coltivazione del riso, della vite e del gelso (legato alla produzione di tessuti di seta); le malghe diedero burro e formaggio di una qualità eccellente come non se ne era mai vista prima; inoltre incoraggiò l’industria di trasformazione, specialmente quella casearia, e incentivò quella serica, che era la principale risorsa del Ducato, dava lavoro a ventimila operai e i suoi prodotti avevano conquistato i mercati italiani e internazionali. Intorno alla sua villa estiva di Vigevano, Ludovico diede sviluppo ad una grande fattoria sperimentale e ad un allevamento di bestiame. Milano conobbe un periodo di grande prosperità e diventò più bella: furono costruiti nuovi palazzi, tracciati nuovi viali, allargate le strade principali per offrire ai cittadini più aria e più luce, i viali che conducevano al Castello vennero fiancheggiati di palazzi e di giardini per l’aristocrazia, il Duomo – che prendeva allora la sua forma definitiva – sorse come un secondo centro della vita pulsante della città, una fungaia di nuove botteghe spuntò; fabbri ferrai, orafi, intarsiatori, smaltatori, vasai, mosaicisti, artigiani del vetro colorato, profumieri, ricamatrici, tessitori di arazzi, fabbricanti di strumenti musicali adornavano personaggi della Corte e palazzi ed esportavano a sufficienza per permettersi d’importare oggetti raffinati dall’Oriente. Felici operazioni militari e politiche (tra cui la «guerra di Ferrara», che mise fine all’espansionismo veneziano in Lombardia) accrebbero grandemente il suo prestigio e la sua fama: sotto di lui era quasi tutta la Lombardia, fino all’Adda, Novara e Alessandria in Piemonte, e a Sud i suoi domini giungevano fino a Parma e Piacenza; nel 1487 anche Genova passò sotto il Ducato.

Tutto sarebbe andato magnificamente per Ludovico, che già si vedeva sul trono di Milano, se Gian Galeazzo nel 1489 non avesse sposato Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso II Re di Napoli.

Questo matrimonio aveva lo scopo di creare un’intesa fra i due Stati; ma per Ludovico fu un guaio in quanto l’ambiziosa sposina, appena arrivata a Milano, si rese conto della situazione.

Ella informò il padre di come stavano le cose: questo fatto provocò l’inizio della progressiva ostilità fra i due Stati.

Ludovico non si sgomentò: nel 1491 sposò Beatrice d’Este, la più giovane principessa della Corte di Ferrara, non particolarmente bella ma piena di spensieratezza, vivacità e brio. Il ricevimento di nozze in suo onore si svolse nelle sontuose sale del Castello Sforzesco, finalmente terminato, e fu uno degli avvenimenti mondani più clamorosi del secolo, con interventi di principi, ambasciatori, prelati, poeti, letterati. Gian Galeazzo fu relegato a Pavia, mentre Ludovico e la moglie inauguravano una Corte che divenne la più splendida non solo d’Italia, ma di tutta Europa. Beatrice, quattordicenne, era cresciuta a Napoli e ne aveva assimilato lo spirito allegro e festaiolo: amava immensamente i divertimenti, le vesti sgargianti, i balli e il gioco, e nei saloni del Castello le feste e i trattenimenti si susseguivano senza interruzione, con la partecipazione del fior fiore dell’aristocrazia e della cultura europea e con un fasto che sbalordiva i Milanesi. A Beatrice piaceva sentirsi al centro dell’Universo; la pompa e lo sfarzo, di cui si circondò a Milano, sono stati così descritti dal cronista Bernardino Corio nella sua vivace Historia di Milano: «La Corte dei nostri principi era splendidissima, piena di nuove mode, abiti e piaceri. Nondimeno in quel tempo erano tanto coltivate le virtù che s’era desta tanta emulazione tra Minerva e Venere che ciascheduna di esse cercava di ornare quanto più poteva la propria scuola. A quella di Cupido da ogni lato accorrevano bellissimi giovani; i padri vi concedevano le figlie, i mariti le mogli, i fratelli le sorelle, ed in tal modo senza verun riguardo molti concorrevano all’amoroso ballo che da qualunque si udiva ciò era riputata stupendissima cosa. Minerva anch’essa con tutte le proprie forze cercava di ornare la sua gentile accademia per il che chiamò a propri stipendi Ludovico Sforza, principe glorioso ed illustrissimo, il quale sino quasi dall’estreme parti d’Europa avea condotti eccellentissimi uomini. Quivi eravi scuola di greco, quivi risplendevano la poesia e la prosa latina, quivi eran le muse nel rimeggiare, quivi i maestri nello scolpire, quivi i più famosi nella pittura erano accorsi da lontani Paesi; quivi eranvi soavi e dolcissime armonie d’ogni genere di canti e di suoni che sembravano fossero mandati dal cielo all’eccellente Corte». Il grande Leonardo, giunto a Milano nel 1482 (o 1483), era, diremmo noi, il «regista» di queste feste; ma nello stesso tempo dipingeva il Cenacolo, progettava il monumento equestre a Francesco Sforza, padre di Ludovico, e studiava il regolamento del corso dei Navigli con le ingegnose chiuse, che servirono più tardi da modello persino nella costruzione del canale di Panama.

Castelli, ville, abbazie ci ricordano tuttora quel periodo storico; Milano si arricchì di splendide opere d’arte come il chiostro di Sant’Ambrogio, la cupola di Santa Maria delle Grazie, il Lazzaretto. Il Castello Sforzesco raggiunse il suo massimo splendore con la maestosa torre centrale, l’intrico interminabile delle sue stanze lussuose, i soffitti dipinti da Leonardo, i pavimenti a intarsi, i vetri istoriati delle finestre, i cuscini ricamati, i tappeti persiani, le statue di Cristoforo Solari e di Cristoforo Romano, gli arazzi con le storie di Troia e di Roma, e quasi dappertutto i resti gloriosi di Grecia, di Roma e d’Italia; in questa atmosfera di splendore i dotti si mescolavano ai guerrieri, i poeti ai filosofi, gli artisti ai condottieri, e tutti costoro a delle donne la cui grazia naturale era aumentata dalla massima raffinatezza nell’uso dei cosmetici, dei gioielli e delle vesti; gli uomini – anche se soldati – erano pettinati con gran cura e riccamente vestiti, le orchestre suonavano con vari strumenti musicali e le sale si riempivano di canti e di balli in maschera. Il Moro capiva in pieno il valore dell’arte, della letteratura, delle scienze, perché era un uomo intelligentissimo, un vero mecenate.

Ancora oggi si discute se egli, in realtà, fu un gentiluomo o una canaglia. Probabilmente, fu l’uno e l’altro. Fu il classico «uomo» del Rinascimento, pieno di difetti e di pregi: faceva assassinare Cicco Simonetta e poi andava devotamente ad ascoltare la Messa; organizzava tradimenti e si commuoveva davanti agli orfani; anche dopo le nozze continuò ad intrattenere le vecchie relazioni amorose, in particolare quella con l’avvenente Cecilia Gallerani (la famosa Dama con l’ermellino ritratta da Leonardo da Vinci), che aveva alloggiato a Corte con tutti gli onori. Accolse lo straniero in Italia e nello stesso tempo fondò l’Università di Pavia, fece costruire dal Bramante Santa Maria delle Grazie, fece terminare la Certosa di Pavia, incoraggiò le arti, le scienze, l’agricoltura, la tecnica.

Tutta l’arte e la cultura del Rinascimento ebbero una mirabile espressione sotto di lui. Dei Lombardi il Papa Alessandro VI diceva che «erano il quinto elemento del mondo» e ancor oggi a Londra la via Lombard Street ricorda l’influenza che i banchieri lombardi avevano nella finanza di tutta Europa.

Nel 1494 la situazione precipitò. Alfonso d’Aragona, pressato dalla figlia Isabella, accentuò la sua ostilità contro Ludovico. Il Papa e i Medici sostenevano gli Aragona contro l’invadente e troppo fortunato Signore Milanese. Ludovico si sentì minacciato e decise perciò di ricorrere ad una mossa disperata. Già da tempo era alleato con la Francia il cui Re, Carlo VIII, aveva qualche diritto sul trono di Napoli ed era desideroso di metterci le mani sopra. Ludovico non chiamò il Re in Italia, come lo accusò la storiografia rinascimentale e successiva; acconsentì (come fece anche il Duca di Savoia) e che egli e il suo esercito passassero indisturbati attraverso l’Italia Nord-Occidentale. Così nel settembre del 1494 Carlo VIII scese in Italia attraverso il passo del Monginevro con un esercito che era il migliore d’Europa come uomini, mezzi e disciplina: 18.000 cavalieri e 22.000 fanti. Questa fu la prima invasione straniera in Italia.

Carlo fu accolto trionfalmente a Torino e ad Asti, e a Pavia si incontrò con l’ormai morente Gian Galeazzo. Il 21 ottobre, a venticinque anni, l’infelice giovane morì e Ludovico (che fu sospettato di averlo avvelenato, anche se probabilmente a torto) «s’è facto Ducha a bacchetta», come disse un cronista.

Intanto Carlo VIII, dopo avere passato Firenze e Roma, il 22 febbraio del 1495 entrava a Napoli tra le acclamazioni della popolazione e senza incontrare alcuna resistenza. Ma non vi rimase nemmeno tre mesi perché il volubile Ludovico aveva cambiato idea; si era accorto, un po’ tardi se vogliamo, che tirarsi in casa uno straniero tanto agguerrito e «famelico» era un gravissimo errore, e per riparare al malfatto si adoperava per formare con Venezia, la Spagna, il Papa Alessandro VI e l’Imperatore Massimiliano una lega per scacciare i Francesi.

Carlo VIII, che sperava di andare a Costantinopoli per scacciarvi i Turchi e diventare il padrone del Mediterraneo, vide il suo bel sogno andare in cocci. Per non farsi intrappolare risalì la Penisola; a Fornovo sul Taro, il 6 luglio 1495, si scontrò con l’esercito della lega, superiore di numero ma poco affiatato e male armato, riuscì a fatica a farsi largo e se ne tornò in Francia con la coda tra le gambe, mentre a Napoli riprendevano il potere gli Aragona.

Ludovico era convintissimo di avere trionfato, mentre invece si avvicinava sempre più il giorno della sua rovina. Oltretutto, la morte di Lorenzo il Magnifico aveva privato la Penisola dell’uomo che più era stato fautore della concordia fra i vari Stati. Nel 1498 Carlo VIII morì e salì al Trono di Francia il duca di Orléans, che divenne il Re Luigi XII. Gli Orléans erano discendenti di Valentina Visconti, perciò, come si usava allora, Luigi XII riteneva che il Ducato di Milano gli spettasse di diritto.

Egli, invocato con cecità unica dagli Stati nemici del Ducato di Milano, e soprattutto da Venezia, cominciò col nominarsi Duca di Milano; poi nel 1499 scese in Italia. Il suo esercito era molto più forte di quello di Ludovico, perciò nel settembre 1499 le sue truppe guidate da un Italiano, Gian Giacomo Trivulzio, conquistarono Milano; Ludovico, dopo molte peripezie, riuscì a raggiungere Massimiliano a Innsbruck per chiedergli aiuto. I Francesi ben presto si fecero odiare in Lombardia per la superbia e la rapacità dei soldati, e il mantenimento delle pesanti imposizioni fiscali che s’era promesso di abolire; lo stesso Trivulzio era un uomo, a detta del Guicciardini, «di natura fazioso e di animo altiero e inquieto» il quale «favoreggiava con l’autorità del magistrato, molto più che non era conveniente, quegli della sua parte» e non era alieno da atteggiamenti brutali.

Ludovico il Moro credette che la sua stella tornasse a brillare; assoldò 8.000 mercenari svizzeri e tedeschi e, con l’aiuto degli amici che conservava a Milano, riuscì a riconquistare la città (5 febbraio 1500), puntando poi su Pavia, quindi su Vigevano e infine su Novara.

I Francesi però non si diedero per sconfitti; il Re Luigi corse ai ripari facendo affluire nuove truppe e comprando i capi delle truppe mercenarie di Ludovico, che da tempo non erano state pagate. Così, quando il 10 aprile 1500 i due eserciti si scontrarono presso Novara, le truppe di Ludovico fuggirono al primo assalto, non solo, ma consegnarono lo stesso Duca al nemico.

Egli accettò la sua sorte. Triste, stanco, con i capelli tutti bianchi si avviò verso il suo destino. Era solo, ormai; l’adorata Beatrice era morta tre anni prima; non aveva più amici. Passò con capo eretto per le vie di Lione, in mezzo ad una folla che lo insultava, e fu rinchiuso nel castello di Lys-Saint-Georges nel Berry, dove passò le giornate a leggere la Bibbia, a pregare e a giocare con uno dei suoi innumerevoli nani che l’aveva seguito fin lì. Fu trasferito successivamente nel castello di Loches, nella Francia Centrale. Cercò di fuggire travestito da contadino su un carro carico di paglia, ma si perse nei boschi, fu braccato dai cani, ripreso e relegato nei sotterranei, senza libri né materiale per scrivere. Là rimase in prigionia e là morì dimenticato, nel buio e nella solitudine, il 17 maggio del 1508, all’età di cinquantasette anni.

Per alcuni, Ludovico il Moro fu un traditore, per altri un tiranno astuto e illuminato, per altri ancora un avventuriero volubile, ambizioso e senza scrupoli: fu in realtà un miscuglio di tutto questo, come tutti i despoti del suo tempo. Girolamo Tiraboschi, uno dei più grandi storici italiani dell’Ottocento, diceva che, se si tien conto dei numerosissimi dotti che piovvero alla Corte di Ludovico da ogni parte d’Italia con la sola speranza di ricevervi onori e ricompense; se si tien conto di quanti pittori e quanti architetti egli fece chiamare a Milano e quanti nobili edifici egli fece edificare; se si ricorda come volle fondare e dotare la magnifica Università di Pavia, e tante altre scuole di ogni scienza in Milano; e se oltre a tutto questo leggiamo gli splendidi encomi e le epistole dedicatorie indirizzatigli da studiosi di ogni Paese, siamo veramente portati a considerarlo il miglior principe che mai sia esistito.

(settembre 2014)

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