Il lato oscuro del Rinascimento
Non fu solo arte, ma anche veleno, tradimenti e pugnalate

Gli anni che vanno dalla seconda metà del Quattrocento a tutto il Cinquecento costituiscono l’«età d’oro» del Rinascimento artistico italiano: i pittori sono intenti alle loro tele, o ad affrescare chiese o pareti di palazzi patrizi; gli architetti creano facciate stupende, rifanno piazze, innalzano monumenti; gli scultori scalpellano il marmo traendone fuori statue che paion vive. Prima che l’Italia venga invasa dagli eserciti stranieri, dà il massimo della sua genialità, segna il punto più alto della sua storia. Non c’è museo al mondo che non raccolga opere del nostro Rinascimento: ne sono pieni il Louvre a Parigi, il Prado a Madrid, l’Ermitage a Leningrado, la National Gallery a Londra. Roma, Firenze e Milano sono, nell’ordine, i centri che si accaparrano la maggior parte degli artisti, ma si può affermare che quasi ogni città italiana ha avuto i suoi pittori e scultori che vi hanno lavorato, e molti mecenati che li hanno ricompensati.

Ma pensare al Rinascimento solo come all’epoca radiosa della cultura, del genio, dei grandi artisti, dei pittori e delle splendide Corti, sarebbe errato. Essa è anche un’epoca dura, cupa, buia, crudele, selvaggia e disumana, un’epoca di tradimenti ed assassini. È contemporaneamente un’epoca di grande splendore e di profonda oscurità.

Molti Signori eccellono, più che per il mecenatismo e per le opere di pace, per le imprese guerresche che compiono, per la tirannia del dominio che impongono sulla loro città, per le crudeltà che commettono. Sono i Carraresi, Signori di Padova; i Malatesta, Signori di Rimini; i Riario, di Forlì; i Borgia, che a costoro contendono il dominio della Romagna; i Baglioni e gli Oddi, famiglie rivali a Perugia. Tutti costoro destano ancor oggi il nostro stupore per la loro diabolica abilità nell’ordire congiure, tradimenti, assassini ed ogni altra efferatezza.

Il desiderio di potere, la brama di ricchezze, le follie ambiziose rendono principi e governanti senza scrupoli. Essi usano tutti i mezzi per disfarsi dei nemici: tranelli, agguati, avvelenamenti. La vita dei Signori diviene incerta, insicura, pericolosa: ciascuno sospetta del vicino, dell’amico, anche del fratello... non si ha pietà per nessuno.

I castelli dei Signori sono un vero prodigio di tecnica, pieni come sono di trabocchetti: pavimenti che sprofondano improvvisamente, facendo precipitare il malcapitato in bui sotterranei o sulla punta di spade e alabarde; corridoi segreti, pareti con porte e armadi celati dietro un innocente quadro, lampadari che un gesto del Signore fa cadere sull’incauto aggressore.

Nell’ombra lavorano i sicari, i terribili uomini che per una borsa di danaro sonante eliminano silenziosamente con la «sica», il corto pugnale che portano al fianco, o col veleno qualche scomodo testimonio o chi osa opporsi alla volontà od ai capricci del Signore.

Fare il conto delle pugnalate è impresa difficile, ci vorrebbe un intero libro. Nel Ducato di Milano, Giovanni Maria Visconti muore assassinato, e la stessa fine fa Galeazzo Maria Sforza. Ludovico il Moro fa uccidere il consigliere della cognata, Cicco Simonetta, che ha già tentato, a sua volta, di uccidere il Moro. Bona di Savoia, cognata del Moro, abita nel grande Castello di Milano; ma s’è fatta costruire una torre ben munita, e ci s’è ritirata per paura che il cognato, che abita poco distante da lei, le faccia la pelle.

A Firenze, Giuliano de’ Medici muore pugnalato in chiesa. A Napoli, la Regina Giovanna, che ha fatto uccidere più d’un amico, manda a morte anche il marito, Andrea d’Ungheria... ma Giovanna finirà i suoi giorni per mano di Carlo Durazzo.

Anche le alleanze fra Stati sono incerte: si passa al nemico appena comincia a vincere, e si combatte l’amico d’una volta.

Eserciti regolari non ne esistono: poiché il Signore combatte per la sua gloria e la sua ambizione, non può richiedere l’aiuto dei cittadini che non glielo darebbero e che, del resto, non sono più abituati alle armi. Le fanterie comunali, costituite da cittadini volontari che si stringevano attorno al Carroccio o ad un altro simbolo del Comune, con il moltiplicarsi delle guerre hanno ceduto il posto alle compagnie di ventura costituite da «professionisti della guerra»: sono bande armate che vengono «affittate» oggi da uno Stato e domani dall’altro (un po’ come la Legione Straniera odierna), e a capo delle quali vi sono condottieri abili che passano la vita sul campo di battaglia. La prima grande compagnia è quella di Guarnieri di Urslingen; in Italia capitanano compagnie di ventura Alberico da Barbiano, Braccio da Montone, Muzio Attendolo Sforza, Bartolomeo Colleoni, Francesco Bussone detto il Carmagnola.

Chi vuol fare la guerra non ha che da rivolgersi a queste «compagnie», che sono composte di soldati provenienti da ogni parte d’Europa: non combattono per una patria, ma per chi li paga meglio, e passano con indifferenza dall’una all’altra parte.

Le «compagnie», è ovvio, presentano molti rischi: i mercenari non danno affidamento, disertano spesso, per farli combattere non c’è che da promettere un ricco bottino. Dovunque passano, i soldati di ventura portano distruzione e rovina: appena si conquista una città, si va di casa in casa, si saccheggia, si rapina, si uccide. Alessandro Manzoni ne offre una colorita descrizione nel XXX capitolo dei Promessi sposi: «Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d’ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosina». Il mercenario è in genere feroce: non combatte per un ideale, cerca solo di far soldi e di rischiare la vita il meno possibile.

(giugno 2015)

Tag: Simone Valtorta, Italia, Rinascimento, Rinascita, Quattrocento, Cinquecento, arte, veleno, tradimenti, pugnalate, Louvre, Prado, Ermitage, National Gallery, Roma, Firenze, Milano, Signori del Rinascimento, sicari, lato oscuro del Rinascimento, Rinascimento crudele, compagnie di ventura, Alessandro Manzoni, Promessi sposi, mercenari.