L’Italia nella seconda metà del Cinquecento
Mentre il malgoverno spagnolo spegne la vitalità in gran parte della Penisola, i Savoia iniziano una politica non priva di ombre, ma destinata in futuro a dare i suoi frutti

«...Se non ascolterete la mia voce, mi consolerà almeno l’idea di aver parlato per una così nobile causa, e penserò che un giorno si dirà che un Italiano, un vecchio che ha un piede nella tomba, aveva l’anima piena di questo glorioso proposito»: a pronunciare queste parole è l’ottantenne Papa Paolo VI, che nel 1556 si rivolge ai Principi Italiani. Il «glorioso proposito» a cui accenna l’anziano Pontefice è quello di cacciare gli Spagnoli dall’Italia – nel 1530, Carlo V di Spagna è stato incoronato Re d’Italia. Ma le cose saranno destinate ad andare secondo le fosche previsioni di Paolo VI: i Principi Italiani, occupati soltanto a difendere gli interessi dei loro piccoli Stati, si guardano bene dal muoversi; così la Spagna, dopo aver sconfitto la Francia – anch’essa rivolta verso la Penisola – nel 1557, può estendere il proprio dominio su gran parte delle terre italiane, e controllarne più o meno direttamente altre. In pratica, gli unici Stati Italiani a rimanere completamente indipendenti sono la Repubblica di Venezia e il Ducato di Savoia. La dominazione spagnola in Italia durerà oltre un secolo e mezzo (dal 1559 al 1714) e sarà ricordata come uno dei periodi più tristi della nostra storia.

L'Italia nel secondo Cinquecento

Divenuta padrona dell’Italia, la Spagna finge di voler concedere una certa autonomia agli Stati su cui impone il proprio volere: sia a Napoli che a Milano lascia le magistrature esistenti, cioè il Senato nella città meneghina e il Parlamento in quella partenopea. Il Senato Milanese è composto da 15 senatori: 3 Spagnoli e 12 Milanesi (selezionati, questi ultimi, tra quei nobili disposti a giurare fedeltà al Governo Spagnolo); anche a Napoli, i baroni e gli ecclesiastici che compongono il Parlamento sono accuratamente scelti tra coloro che simpatizzano per la Spagna – in questo modo, tanto a Milano quanto a Napoli il Governo Spagnolo può decidere secondo la propria volontà. Un altro provvedimento per dare agli Italiani l’illusione di godere di un’autonomia amministrativa è l’istituzione del «Supremo Consiglio d’Italia», composto da 4 magistrati italiani (un Milanese, due Napoletani, un Siciliano); da questo Consiglio, che ha sede a Madrid, dipendono tutti i territori italiani soggetti alla Spagna, che in realtà non terrà mai in considerazione alcuna richiesta dei membri del Consiglio d’Italia.

I possedimenti spagnoli in Italia non sono governati allo stesso modo: mentre Milano è retta da un Governatore, Napoli e le isole vengono affidate a 3 Viceré. Tanto l’uno quanto gli altri godono di poteri assoluti, tengono in minimo conto le magistrature italiane (Senato e Parlamento) e si avvalgono, per sbrigare le varie mansioni, dell’opera di una folla di funzionari, quasi tutti nobili e cavalieri spagnoli; gli editti, ossia i provvedimenti da loro emanati, sono chiamati «gride», e sono ormai noti a tutti per la descrizione – amaramente ironica – che ne ha fatto Alessandro Manzoni nei Promessi sposi.

Il Governo Spagnolo è passato alla storia come quello che ha più caricato di tasse le popolazioni. Uno storico dell’epoca ha scritto che «l’Italia non fu considerata parte dell’Impero (Spagnolo), ma terra di conquista da sfruttare». Una delle principali cause di questo esasperato fiscalismo è il dover mantenere un esercito sempre in armi, senza contare la flotta e un numero esorbitante di funzionari. Solo nello Stato di Milano, nel 1624 Gian Paolo Mazza afferma che si pagano «ogni giorno 12.000 scudi, quali in un anno ascenderebbero all’esorbitante somma di scudi 4 milioni, e 400.000. Essendo il perticato di tutto lo Stato delle qualità coltive, cioè prati, risaie, campi, horti et siti, dedotti i Beni della Chiesa, pertiche 8.686.304, vengono a toccare lire 3 Imperiali per ogni pertica ogni anno et pure questi terreni danno appena sottosopra l’anno soldi 50 per pertica». Aggravano la situazione i mezzi inadeguati per la riscossione delle imposte: nel 1661 solo il 28% della somma versata dai contribuenti per le tasse entra effettivamente nelle casse dello Stato e nel 1689 in Spagna addirittura solo il 21%! E a pagare le tasse sono soltanto alcune categorie, perché il clero e i nobili ne sono esenti.

Visto il privilegio di cui gode la nobiltà, molti ricchi cittadini italiani cercano di divenire nobili. Entrare a far parte della nobiltà non è affatto difficile: per gli immensi bisogni della Spagna, si spremono soldi da ogni parte, si vendono le cariche, gli impieghi, tutto è messo all’asta, i titoli nobiliari vengono ceduti a chi abbia abbastanza denaro per acquistarli.

Un proverbio corre in Italia in questi anni. Dice: «Gli Spagnoli rosicchiano in Sicilia, mangiano a Napoli, divorano a Milano». La Sicilia, povera con gli Spagnoli, era povera già dai tempi degli Angiò; nei primi periodi, anzi, gli Spagnoli spenderanno migliaia di ducati per difendere le coste siciliane dalle razzie dei corsari. Il periodo delle forti tasse comincerà col Seicento; ma in Sicilia ci sarà sempre poco da spremere. È invece a Napoli che il Viceré e i suoi funzionari, corrotti, si arricchiscono in breve tempo: il conte di Miranda, si mormora, ha portato via un milione di ducati, una cifra favolosa. Milano è quella che ha sofferto più guerre, ma è anche la regione più ricca: vi si respira un’aria di maggiore industriosità ed efficienza, vi sono industrie tessili, metallurgiche e dei manufatti.

Tuttavia, la Spagna non favorirà alcuna attività industriale e commerciale nella Penisola, cosicché dopo i primi decenni inizierà un’inarrestabile decadenza. A peggiorare le condizioni in cui vivono gli Italiani sopravvengono le epidemie, dovute in buona parte alla trascuratezza in cui gli Spagnoli tengono i servizi igienici: spaventosa è la peste scoppiata a Milano nel 1630, che stermina oltre la metà dei 200.000 cittadini della città lombarda.

È naturale che un Governo tanto oppressivo susciti tra il popolo un grande malcontento: ma le rivolte, scoppiate in alcune città, vengono tutte represse nel sangue. La più violenta è quella di Napoli del 1647: essa viene capeggiata dal giovane pescivendolo partenopeo Tommaso Aniello, detto Masaniello; preso alla sprovvista, il Viceré Spagnolo inizialmente accoglie le richieste dei ribelli, forma un Governo Popolare e nomina Masaniello «Capitano generale del popolo»; ma poi, con l’aiuto della flotta iberica, doma spietatamente la rivolta e torna ad imporre la propria volontà. Anche le insurrezioni di Palermo (1647) e di Messina (1674-1678) saranno facilmente represse dagli Spagnoli. L’insuccesso di queste rivolte è dovuto soprattutto al fatto che furono isolate le une dalle altre, perché il popolo italiano non si unì mai per organizzare un fronte comune contro l’oppressore: erano sommosse volte non contro il Re di Spagna o lo straniero, ma contro i signorotti locali che tiranneggiavano la popolazione. Per vedere gli Spagnoli cacciati dalla Penisola bisognerà aspettare la lunga guerra combattuta dal 1700 al 1713 e che vedrà Francia e Spagna schierate contro Inghilterra, Austria ed Olanda: a pace conclusa (anno 1714) la Spagna dovrà rinunciare a tutti i suoi possedimenti italiani; alla sua dominazione, però, non seguirà la libertà, ma inizierà la dominazione austriaca!

Il panorama che abbiamo delineato per la seconda metà del Cinquecento nell’Italia soggetta alla Spagna non muta troppo se si punta lo sguardo su altre parti della Penisola che, pure, si dicono «libere». Genova, formalmente indipendente, si appoggia agli Spagnoli. E due Genovesi, il Doria e lo Spinola, comandano l’uno la flotta, l’altro l’esercito spagnolo nei Paesi Bassi.

Molte piccole dinastie agonizzano nei vizi, come i Gonzaga e i Della Rovere, o decadono, come gli Estensi; le Corti di Urbino e di Mantova, un tempo modello di raffinatezza, non hanno più gentildonne, ma cortigiane. Anche Venezia si perde nelle orge e nelle crapule.

Firenze è di nuovo dei Medici. Sia Alessandro, che Cosimo praticano un Governo assoluto, e cercano di riempire le casse vuote a spese dei cittadini; ma, almeno, l’amministrazione è agile ed efficiente. I nobili che hanno ritirato molti capitali dalle banche li impiegano ora per migliorare le loro tenute in campagna. Livorno è divenuto un grande porto: ma le navi che attraccano battono solo bandiera inglese e olandese.

Lo Stato della Chiesa non è in condizioni migliori: i Pontefici, avviluppati in troppe cure terrene, si dipanano tra contese con principi, interessi di nipoti, difficoltà di governo in uno Stato gravato da balzelli e pervaso da briganti che neppure le forche di Sisto V riescono a sterminare.

A cavallo della Francia, stretto tra il Paese transalpino e il dominio spagnolo, s’è andato formando uno Stato minuscolo, ma importante: quello dominato dai Savoia; uno Stato costretto a viver sempre con l’orecchio teso e le armi pronte. I Duchi controllano le vie fra Svizzera e Italia, e giocando ora con l’uno ora con l’altro dei grandi contendenti, hanno ingrandito i propri territori. Quando il Duca Emanuele Filiberto vi rientra dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559), il Paese è completamente devastato dalle guerre. Egli instaura un Governo rigidissimo ed applica tasse pesantissime, come nemmeno gli Spagnoli hanno fatto; ma anche dà un «orientamento italiano» alla sua politica facendo di Torino la nuova capitale del Ducato in sostituzione di Chambéry, e dotandola di un’Università; la lingua italiana diventa lingua ufficiale al posto del francese. L’esercito, che ha la propria roccaforte nella Cittadella di Torino costruita sotto la direzione del Sovrano, è costituito, oltre che da milizie mercenarie, anche da 20.000 fanti forniti da ogni parrocchia in base al numero dei suoi abitanti; la Marina Sabauda è una creazione del conte Andrea Provana. Per tutto questo, Emanuele Filiberto si è meritato il giusto appellativo di «Secondo Fondatore dello Stato Sabaudo».

Il suo successore Carlo Emanuele I si impegna in una politica estera piena di ambizioni, coraggiosa ma anche rovinosa, svuotando le casse dello Stato. Eppure, sarà proprio grazie ad una politica spregiudicata e non di rado ambigua che i Savoia riusciranno, nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, a riunire sotto di sé gli Stati della Penisola Italiana.

(giugno 2016)

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