Giulio e Ferrante d’Este
Nel passato, le famiglie che avevano un certo pregio, si elevavano sopra tutte le altre per forme di cortesia, di amicizia, di mecenatismo, ma quando erano colpite da incomprensioni, offese, tentativi di aggressione o addirittura di eliminazione, diventavano terribilmente vendicative e i risultati erano spesso cruenti o indubbiamente molto dolorosi. Però, in merito a questo, si può asserire con certezza che, per certe questioni, quanto dichiarato non ha tempo, anzi ha una validità universale e sempre attuale

La storia che sto per raccontare si riferisce a un fatto accaduto nei primi anni del ’500, e il tutto avvenne a causa di dissapori fra fratelli, proprio così, fratelli, anche se può sembrare impossibile. Invero, capita spesso che, al di là del vincolo di parentela, prevalga il famoso detto: «I parenti me li dà Dio, gli amici me li scelgo io», oppure il più recente, che recita «parenti serpenti».

Era il periodo della famosa «Addizione Erculea», quell’impresa urbanistica che raddoppiò l’area della città, dandole l’aspetto che la fece definire la prima città moderna d’Europa. Il fatto è avvenuto a Ferrara, quando il Ducato di Ferrara, Modena e Reggio era saldamente retto da Ercole I d’Este, attivamente aiutato dalla consorte Eleonora d’Aragona, figlia del Re di Napoli, Ferdinando I.

Alla maniera di Agatha Christie, forse è opportuno presentare i personaggi, figli del Duca, andando in ordine di nascita, in modo tale che, se si perde il filo del racconto, si possa ricostruire immediatamente il tutto.

Il primogenito Alfonso (1476) era stato stabilito dal padre che sarebbe stato il suo successore. Egli era un personaggio descritto come alquanto rozzo nella condotta e con idee particolari, forse pericolose, tanto che molti furono i pareri contrari al momento della sua nomina; ma, una volta diventato Alfonso I, si dimostrò all’altezza del compito e di essere valido per governare e per portare avanti una Corte intricata come quella del suo casato, anche se si deve riconoscere che ebbe un valido aiuto da parte della consorte Lucrezia Borgia.

Ferrante (1477) era denominato al suo tempo «bellissimo garzone», tanto che ci fu qualcuno che lo comparò a un San Giorgio quando, al seguito di Carlo VIII, entrò nella città di Firenze; ma dietro la bellezza, si nascondevano in lui un animo ambizioso e una tendenza a emergere in modo peculiare.

Giulio (1478) era l’unico illegittimo, frutto della relazione che Ercole I ebbe con una certa Isabella Arduini, regolarmente coniugata, damigella di Corte della moglie Eleonora d’Aragona (anche se maldicenti misero in circolazione la notizia secondo la quale Don Giulio fosse figlio di Alfonso Strozzi, un ricco notabile ferrarese); comunque, fu regolarmente accettato alla Corte Estense, com’era abitudine del tempo, e benvoluto sia da Ercole sia da Eleonora, come fosse un figlio legittimo.

Ippolito (1479) si distinse per la carriera ecclesiastica, alla quale era stato avviato sin dall’adolescenza, giungendo fino alla carica di Cardinale; era uomo di grandissima vitalità, impulsivo, amante della mondanità, sensuale – il che non guasta con un tale temperamento –, presuntuoso, arrogante e sospettoso: non molto affidabile.

Sigismondo (1480) non ebbe motivi di discordia con nessuno dei fratelli, e visse tranquillo all’ombra di Alfonso e Ippolito. Spesso accompagnava il Duca nei suoi viaggi. È noto solo perché, quando si fece il processo ai congiurati, questo avvenne nella sua abitazione.

Inoltre, Ercole ebbe anche due figlie: Isabella (1474), che andò sposa al Marchese di Mantova Francesco II Gonzaga, e Beatrice (1475), che sposò il Duca di Milano, Ludovico il Moro: due matrimoni che furono importantissimi per la posizione strategica del Ducato nella penisola italiana. Però, queste due dame non ebbero alcun ruolo nella faccenda di cui si narra.

Come si vede, i figli erano nati uno all’anno, escluso il biennio di tranquillità per Eleonora, coincidente con la nascita di Giulio, cui lei non aveva partecipato.

I figli maschi spesso andavano insieme a gozzovigliare, a fare monellerie, ad affrontare donnine facili, a parlare in maniera indecente e scurrile; ma non era raro il caso in cui litigassero, anche pesantemente, fra di loro.

Finché Ercole I visse, non solo riuscì a contenere entro ragionevoli limiti le dispute, i contrasti, i dissapori, che erano all’ordine del giorno, a causa dei diversi caratteri e del comportamento dei figli, ma anche a smorzare le liti che nascevano fra i servitori e gli armigeri, che facevano parte della loro Corte personale. Chi era vicino alla famiglia, era veramente preoccupato, nel senso che, quando Ercole fosse mancato, sicuramente Alfonso non sarebbe stato in grado di tenere in mano la situazione. A tale proposito, un ambasciatore mantovano, Bernardino Prosperi, lasciò questo triste commento: «Fu una cosa che attrista molto gli uomini da bene, e che fa fare tristo iudicio quando manchasse questo vecchio». A onor del vero, Alfonso seppe prendere in mano le redini del malmesso Ducato, prendendo importanti provvedimenti e decisioni di carattere amministrativo e finanziario, rafforzando i rapporti in atto con le più facoltose e potenti famiglie cittadine, fra cui i Trotti e i Costabili, tenne a freno i componenti delle famiglie di Modena e Reggio, rissosi e meritevoli di scarsa fiducia, fra cui i Boschetti, i Pico, i Pio. E, fatto veramente molto importante, si diede da fare per far sì che i fratelli andassero d’accordo fra di loro. Elargì a Giulio e Ferrante i mezzi per portare avanti la loro esistenza gaia e spensierata, che era loro congeniale, mentre lasciò Ippolito libero di muoversi a suo piacimento, tenendo nella giusta luce il fatto che era Cardinale.

Un contrasto veramente pesante, che ebbe delle conseguenze abbastanza gravi, avvenne verso la fine del 1504, quando Ippolito voleva per la sua cappella il musicista Don Rainaldo da Sassuolo, che era al servizio di Giulio; ma naturalmente questi rispose picche. Così Ippolito, approfittando di una visita al padre sofferente, portò il musicista con sé, per rinchiuderlo nella Rocca del Gesso di proprietà del Conte di Scandiano, Giovanni Boiardo. Quando, nel maggio del 1505, Giulio venne a sapere dove si trovasse il suo musicista, insieme con Ferrante e un manipolo di uomini armati, non solo andò a liberarlo, ma lo sostituì nella prigionia, naturalmente in segno di provocazione, con il castellano. La seccatura dovette affrontarla Alfonso, già Alfonso I, perché il padre era morto nel gennaio dello stesso anno. Ippolito, che fra l’altro era consigliere politico di Alfonso, si arrabbiò, protestando vivamente per l’accaduto, perché probabilmente riteneva che il musicista fosse, non si sa a quale titolo, proprietà privata. Così, i due furono puniti con l’esilio: Giulio andò a Brescello, mentre Ferrante fu inviato a Modena. Solamente l’intervento da parte di Lucrezia Borgia, moglie di Alfonso, e dei coniugi Francesco Gonzaga e Isabella d’Este, Marchesi di Mantova, fecero rabbonire il Duca, che ufficialmente li perdonò. E questo fu il primo scontro.

Una seconda volta, ebbero modo di litigare, sempre Giulio e Ippolito, per una donna: entrambi corteggiavano una cugina di Lucrezia, Angela Borgia, che ne era dama di compagnia. Si racconta che fosse una donna molto bella, ma di carattere capriccioso e bizzarro, e che avesse fatto attirare su di sé gli interessi di tanti gentiluomini di Corte, fra cui primeggiavano i due fratelli. Stando al comportamento della ragazza, pare che avesse una predilezione per Giulio, mentre Ippolito si dava da fare, sfruttando la sua raffinatezza e le sue doti per conquistare le belle donne, e l’insuccesso gli dava notevolmente fastidio. Quando Angela, a un certo momento, infastidita dall’insistenza da parte del Cardinale, pare che in pubblico gli abbia spiattellato in faccia il suo pensiero con le parole: «Val più gli occhi di Don Giulio di quanti Cardinali s’accatta», Ippolito, offeso nel suo amor proprio, andò su tutte le furie e, dentro di sé, giurò vendetta. Infatti, un giorno, verso la fine del 1505, mentre Giulio attorno a mezzogiorno stava tornando a cavallo tutto solo in città dopo essere stato alla Delizia di Belriguardo in visita alla cognata e, forse, anche ad Angela, fu assalito dai servi di Ippolito che, schiumante di rabbia, ordinò loro di pestarlo duramente. Giulio, preso alla sprovvista, non ebbe modo di difendersi e uscì dalla batosta sfigurato in volto e mezzo accecato, tanto che dovette sempre portare una benda sull’occhio destro. Curato dal medico di Corte, fu ricoverato nel castello.

Il Duca, appreso l’accaduto e temendo contraccolpi di carattere politico e diplomatico, si affrettò a preparare del fatto una versione mitigata da inviare a tutte le Corti Italiane, alla quale però nessuno credette. Ippolito la passò liscia, perché Alfonso non voleva perdere l’appoggio del fratello Cardinale. Alla Corte di Mantova, dove era la sorella Isabella, oltre a quella versione, inviò pure la cronaca veritiera con l’invito, una volta letta, che quest’ultima fosse distrutta (cosa che i Marchesi di Mantova si guardarono bene dal fare, perché, in caso di necessità, si sarebbe trattato di una valida arma). Comunque, nel dicembre del 1505, Alfonso riuscì a rappacificare i fratelli. Per la cronaca, Angela andò per la sua strada, sposando il Signore di Sassuolo.

Ma Giulio non aveva per niente digerito le conseguenze della pesante battuta, che aveva subito e che gli aveva causato la perdita della bellezza e ingenti danni agli occhi, per cui non era deciso a lasciar perdere; ma non solo per questo, ma anche perché non aveva accettato la scelta da parte di Alfonso di non punire Ippolito. Pertanto era imbestialito per l’ingiustizia sofferta e voleva vendetta. Così, ne parlò con Ferrante che, a sua volta, avrebbe voluto detronizzare Alfonso per sostituirlo nel governo del Ducato. Così i due organizzarono una cospirazione, che aveva come scopo l’uccisione di entrambi i fratelli, coinvolgendo altri signori che erano ostili al Duca. D’altra parte, il momento era favorevole, perché erano evidenti i malumori esistenti sia alla Corte sia fra il popolo per la gestione di Alfonso e, inoltre, per l’elezione, a Roma, del Papa Giulio II, cui gli Estensi non piacevano fino in fondo. Insomma, come si dice, l’occasione era «ghiotta» per mettere in atto una congiura di palazzo. Si organizzarono e coinvolsero nella faccenda coloro che non accettavano la situazione in atto. Per citarne alcuni, si ricordano qui il Conte di San Cesario, Albertino Boschetti, il capitano di 25 balestrieri e della piazza di Modena, Gherardo de’ Ruberti e il cameriere di Ferrante, Franceschino Boccaccio da Rubiera. Nella macchinazione fu coinvolto pure il cantante Gian Cantore che, pur essendo il favorito di Alfonso, forse sperava di andare a stare meglio con Giulio, appassionato di musica.

Cominciarono con l’intenzione di uccidere il Duca, ma le cose furono raffazzonate, disorganizzate, confusionarie, tanto che per ben due volte lo attentarono armati di pugnali avvelenati, però inutilmente; probabilmente, non avevano le informazioni giuste oppure Alfonso era un uomo robusto che, fra l’altro, sotto il farsetto teneva una maglia di ferro ed era in grado di pensare a se stesso. Durante un’assenza del Duca, Ippolito sguinzagliò le sue spie, che riuscirono a raccogliere le prove del complotto in atto. Arrestati, i congiurati confessarono le loro intenzioni e chiesero perdono. Prima che Alfonso ne fosse messo a conoscenza, sia Lucrezia sia Isabella consigliarono Giulio di riparare a Mantova, sotto la protezione di Francesco II Gonzaga. Alfonso, messo a conoscenza della congiura fallita, chiese che Giulio fosse rispedito a Ferrara, ma il Marchese si rifiutò più volte; però, a seguito della minaccia che Alfonso se lo sarebbe andato a riprendere con l’uso delle armi, acconsentì alla consegna pacifica del congiurato.

Nel settembre del 1506, fu avviato il processo ai cinque cospiratori nell’abitazione di Sigismondo d’Este: alla conclusione, furono dichiarati tutti colpevoli di lesa maestà e di alto tradimento e condannati alla pena capitale, che fu eseguita per i tre complici il giorno 12 del mese successivo, mentre Giulio e Ferrante furono graziati, ma la pena fu commutata al carcere a vita, mentre tutti i loro beni furono confiscati; del resto, a che cosa sarebbero potuti servire?

Il cronista del tempo, Paolo Zerbinati, descrisse come avvenne l’esecuzione della pena ai tre cospiratori; la si riporta, consigliando i deboli di stomaco di passare oltre: «Sabbato 12 detto il Conte Albertino Boschetti, Gherardo de’ Ruberti e Franceschino da Rubiera complici nel tradimento contro il Duca, com’è narrato di sopra sono stati condotti tutti e tre di Castello sopra una carretta con li confortadori in piazza e sopra un tribunale grande, ove si lesse il processo, prima fu condotto Franceschino e mentre era in piedi il manegoldo li legò li occhi con un cendale negro e poi gli diede de una manara solla coppa, e caduto gli ne dette un’altra botta, et incontinenti o tirò con la testa sopra un legno, et gli tagliò con l’istessa manara la testa, e subito sopra un desco che era sopra detto tribunale lo squartò in quattro pezzi, et così fece alli altri dui, prima al Conte Albertino e poi a Gherardo, le teste loro poste sopra la Torre della Ragione in cima a tre lanze, e li quarti alle porte di San Giovanni Battista, degli Angeli et di San Benedetto. Li Giudici che hanno dato la sentenza sono Messer Giovanni del Pozzo, uno dei giudici di corte, e Messer Gherardo del Sarasino consultore della camera Ducale».

Gian Cantore ebbe un altro destino, ma per niente migliore, anzi: fu costretto a percorrere le vie cittadine alla mercé degli insulti della popolazione, sotto il tiro di sputi e colpi alle costole, poi fu messo in carcere nel Castello, per essere successivamente inserito come un uccello in una gabbia di ferro e messo appeso sulla Torre dei Leoni e qui lasciato morire per il freddo; si era nel gennaio del 1507.

Le prigioni erano due camerette, poste l’una sopra l’altra, nella Torre del Castello denominata «dei Leoni», che era – e che è tuttora – quella alla quale sono state aggiunte le altre tre a formare il Castello. Solamente 18 anni più tardi, nel 1524, i due condannati furono messi insieme in una stanza della stessa torre, dalla quale potevano ammirare, attraverso le spesse e rugginose inferriate, il passeggio dei Ferraresi lungo Via della Giovecca. Ferrante morì nel 1540, dopo 34 anni di prigionia, mentre Giulio, 53 anni dopo, nel 1559, all’età di 81 anni, fu finalmente liberato dal pronipote Alfonso II d’Este, in occasione della sua proclamazione a Duca; era un vegliardo ancora eretto nel busto e raffinato nei modi, che si guardava attorno incuriosito dai vestiti diversi da quando era giovane, perché lui continuava a vestirsi con la moda di mezzo secolo prima. Del resto, a parte la cella che era quella che era, il vitto e l’abbigliamento erano conformi a ciò che lui era stato. Ma pure i passanti lo guardavano incuriositi proprio per il fatto dell’abbigliamento. Dissero i cronisti dell’epoca: «Per quanto sembrasse un personaggio del passato, con una barba lunga e abiti confezionati per lui secondo la moda di cinquant’anni prima».

Gli Estensi tennero all’oscuro la popolazione dell’esistenza di due membri della famiglia; ciò lo si desume da quanto Paolo Merenda nel 1598 scrisse: «Et era stato prigione 53 anni, 6 mesi e 17 giorni, et chi non era vecchio o sapesse ben le cose della corte non sapeva la prigionea di questo signore. Et io per me che havevo pur 19 anni non lo sentei mai nominare come se non fosse mai stato a questo mondo e mi parse – come anco alli dui terzi di Ferrara – ch’el venisse dalla più estrema parte del mondo che sia…».

Sopravvisse altri due anni e, alla sua morte, fu tumulato vicino al padre e ad altri Estensi nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Ferrara. Ora, dal 1995, Giulio riposa nel monastero del Corpus Domini, dopo la sconsacrazione e la caduta in degrado avvenuta nell’Ottocento del tempio in cui era stato sepolto.

(luglio 2020)

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