Il Duca artigliere
Alfonso I e le colubrine che diedero gloria militare a Ferrara

Alla morte del padre, Ercole I d’Este, avvenuta nel 1505, Alfonso fu proclamato Duca di Ferrara, Modena e Reggio con il nome di Alfonso I. Secondo la gente non era troppo adatto per coprire l’importante ruolo che gli era stato affidato, giacché non era molto orientato alle lettere e alla musica, tanto che già dai primi tempi il suo appellativo era di «Principe artigiano». Comunque non deluse mai, restando all’altezza del compito che gli era stato affidato. Da ricordare la guerra contro la Repubblica di Venezia, che si concluse con un’azione clamorosa nella battaglia di Polesella.

Che cos’era successo? Era il 1509 e Venezia stava completando il recupero di tutti i territori che il Ducato Estense aveva occupato in occasione della campagna della Lega di Cambrai: si trattava di Montagnana, Este e del Polesine di Rovigo. Non solo, ma Venezia, che male sopportava sia le mire espansionistiche degli Estensi sia la concorrenza della loro salina di Comacchio alle proprie saline della laguna e di quella veramente grande di Cervia, stabilì che bisognava punirli. E questi, in tale circostanza, si trovarono a difendere i loro confini da soli.

La flotta della Serenissima, sotto il comando di Angelo Trevisan, era costituita da 17 galee, natanti che navigavano a remi e a vela, e da tantissime altre imbarcazioni di vario tipo, ed era appoggiata da cavalleria leggera appostata sulla riva veneta del Po. La flotta risalì il fiume, producendo disastri e facendo razzie lungo il percorso, ma giunta a Pontelagoscuro, l’artiglieria estense non le consentì di continuare l’avanzata, per cui si ritirò, ancorandosi fra Guarda Veneta e Polesella. Nelle vicinanze dell’isola Giaron, i Veneziani elevarono difese su entrambe le sponde del Po. I Ferraresi tentarono di bloccare almeno quella di destra, ma non solo non ci riuscirono, subirono anche elevate perdite umane. Pertanto, le operazioni militari andavano decisamente male, ma a quel punto subentrò l’astuzia degli Estensi: il Duca Alfonso I e il fratello Cardinale Ippolito, conoscevano perfettamente il loro fiume e, sicuri che ci sarebbe stata una piena e in quale data, riuscirono a girare la ruota della fortuna a loro favore. Così, il 21 dicembre, il giorno precedente la prevista piena, Ippolito, al comando della sua truppa, attaccò la difesa destra e costrinse il nemico a ritirarsi, quindi rinforzò l’argine. La notte fra il 21 e il 22, i Ferraresi sistemarono in silenzio le loro bocche da fuoco e, quando le navi veneziane, seguendo il sollevamento dovuto dalla massa d’acqua, si trovarono all’altezza giusta, fu aperto il fuoco con risultati veramente devastanti, con l’affondamento di molte unità, mentre le restanti furono catturate. I Veneziani, presi di sorpresa, non riuscirono in alcun modo a porre riparo alla mala parata e quelli che si salvarono dal fuoco e dall’acqua ma non riuscirono a raggiungere la sponda sinistra, furono catturati e fucilati. In definitiva, più che di una battaglia, si trattò di una carneficina bella e buona. A stento, il comandante Trevisan riuscì a riportare la pelle a Venezia, dove fu processato «per cattiva condotta e negligenza». La moglie di Alfonso I, Lucrezia Borgia, la Corte Estense e tutto il popolo accolsero festanti i vincitori. Le cronache dell’epoca riportano che furono catturate ben 15 galee, molte imbarcazioni di vario tipo e 60 bandiere.

Ciò che maggiormente colpì le opinioni dell’Europa fu il vedere come un esercito terrestre avesse sconfitto una flotta navale. Da qui ad Alfonso «artigliere», «metallurgista», cioè grande conoscitore dei metalli, abilissimo «fonditore di cannoni» di grande valore, il passo fu breve. Da sottolineare pure che i proiettili erano stati modificati, diventando «granate», ossia ordigni contenenti esplosivo, quindi con potere devastante, mentre era stato pure individuato un ottimo sistema per produrre la polvere da sparo. Se si aggiunge, infine, che le mura di Ferrara, dopo il loro consolidamento e ampliamento, furono ritenute le più sicure e moderne dell’intera Europa, penso si sia giunti al massimo. Insomma, artigliere, metallurgista, fonditore, costruttore di mura inattaccabili, tutti appellativi guadagnati sui campi di battaglia.

Poi, sull’onda del successo, fu ripresa Comacchio che, durante quanto raccontato, i Veneziani, dopo averla presa, considerato che per loro le situazioni erano tutt’altro che delle più favorevoli e temendo il peggio, l’avevano abbandonata.

A quel punto, i Veneziani furono fermati nelle loro mire espansionistiche e il Ducato Estense riebbe tutti i territori che gli erano stati assegnati nel 1484 in occasione del trattato di Bagnolo, che fu la conclusione della Guerra di Ferrara e del Sale, fra il Ducato, la Repubblica di Venezia e alleati vari da una parte e dall’altra.

Poi, gli eventi cambiarono, a dimostrazione che nulla si mantiene fisso e stabile sotto il sole e, con la Lega di Cambrai, Ferraresi e Veneziani si trovarono sulla stesa sponda, divennero alleati e le galee residue furono restituite.

Quando fra le persone non corre buon sangue, tuttavia, non c’è nulla da fare: riprendono le ripicche, emergono i rimbrotti e tutto quanto ne è collegato va in malora. Pur essendo stata la leggendaria battaglia di Polesella decisiva per la conclusione della guerra, Ferrara e il Papato giunsero ai ferri corti e sia Alfonso I sia il Cardinale Ippolito furono scomunicati. Quando nel 1513 il Papa morì, si sperò che con il suo successore Leone X i rapporti migliorassero, ma non fu così: il contrasto rimase insanabile, tanto che Leone X confermò la scomunica. Insomma, se ci fosse stato il dubbio che Alfonso I vedesse il Papato come il diavolo vede l’acqua santa, questo sarebbe stato dissipato dalla ulteriore scomunica che anche Clemente VII volle infliggergli: un vero e proprio primato, non c’è che dire. Tuttavia il Duca, in mezzo a tante traversie e avversità, riuscì abilmente a barcamenarsi, mantenendo saldamente il potere, e a lasciare uno Stato in buone condizioni al figlio Ercole.

A questo punto sembra interessante esaminare a fondo le armi da fuoco che resero il Ducato di Ferrara pressoché imbattibile sui campi di battaglia.

La prima grande arma uscita dalle fonderie estensi, sotto la guida del Duca Alfonso I, fu la colubrina (il nome ricorda la forma allungata del serpente, «coluber-colubris») denominata ironicamente «Giulia», arma da fuoco veramente pesante, caratterizzata da una lunghezza molto accentuata nei confronti del calibro, garantendo una gittata maggiore del proiettile. Fu costruita con la fusione dei pezzi di bronzo derivati dalla distruzione della statua di Papa Giulio II, nella posa di benedicente, che, issata il 1° febbraio 1508 sopra la Porta Magna della facciata della Basilica di San Petronio a Bologna, per quattro anni fece bella mostra di sé. Lo scopo del Papa era quello di far ricordare ai Bolognesi tutti i giorni che chi comandava lì era lo Stato Pontificio e nessun altro. La statua fu completata in due anni e immediatamente fu sistemata nella posizione prevista. La sua distruzione è stata un vero peccato, anche e soprattutto perché l’autore fu nientepopodimeno che Michelangelo Buonarroti al quale era stata commissionata dal Papa nel 1506 in occasione della presenza di entrambi nella città felsinea. Inoltre, quella scultura aveva un significato particolare per il grande artista: in effetti, sarebbe stata l’unica sua opera ottenuta per fusione da affidare alla posterità. Sicuramente, ci si può chiedere il perché un’opera tanto importante fosse stata così poco misericordiosamente trattata. Ebbene, la risposta è semplice: nulla è più variabile delle vicende umane e i tempi cambiano, cambiano gli umori, cambiano le tendenze politiche, gli accordi, per cui tutto quello che si riteneva di una validità e di un’inossidabilità al di fuori di ogni discussione fino a oggi, domani si dimostra fallace e inaffidabile. Insomma, per il cambiamento delle situazioni politiche, che videro il ritorno nella città «delle due torri» della famiglia Bentivoglio, tutt’altro che favorevole al Papato, la statua non fu più ritenuta nel posto giusto, per cui ne fu decisa la distruzione e l’11 dicembre 1511 fu eseguita.

Il Duca Alfonso I d’Este, sempre alla ricerca di materiali per le sue creature militari, felicitandosi per lo scempio fatto, acquistò i rottami, il cui peso era di circa 17.000 libbre, pari a circa 5.800 chilogrammi, di cui solamente 9.000 (com’era scritto sulla culatta) furono usate per la costruzione di Giulia, mentre il resto servì per la preparazione di altre armi. Perché Alfonso I era contento della distruzione della statua del Papa? Ritorniamo indietro nel tempo. Fu a causa di Giulio II, che si comportò come un voltagabbana. A causa del chiaro segnale delle tendenze espansionistiche di Venezia, che mirava a dominare l’intera Penisola, nacque un’irritante, diffusa preoccupazione, tanto che nel 1508 si formò un’alleanza fra il Re di Francia Luigi XII, il Re di Aragona Ferdinando il Cattolico, l’Imperatore Massimiliano d’Asburgo, il Ducato di Ferrara e lo Stato Pontificio, che andò sotto il nome di «Lega di Cambrai», cittadina al confine fra Francia e Belgio, contro la Serenissima Repubblica di Venezia. Alfonso I partecipò alle operazioni militari con il proposito di riconquistare quei territori del Polesine perduti dal padre Ercole I nel 1483. Fra l’altro, partecipò al tentativo di conquistare la città di Padova, praticando con la sua artiglieria una breccia nelle sue mura; ma ciò non riuscì a causa di un tradimento. L’Imperatore Massimiliano fu soddisfatto egualmente del tentativo e per ringraziarlo lo nominò Signore di Este e Montagnana. Comunque, le operazioni militari condotte tra il 1509 e il 1510 da lui e dal fratello Cardinale Ippolito, ottimo stratega, di grande valore sia militare sia ecclesiastico, furono decisive per il risultato della guerra. Il tutto si concluse il 14 maggio 1509 con la battaglia di Agnadello, località lombarda, nella quale lo scontro fra le truppe francesi e quelle veneziane finì con la sonante sconfitta delle ultime.

Ma poi Giulio II, riavute le terre romagnole che gli erano state strappate in precedenza, si sentì soddisfatto e tranquillamente si alleò con Veneziani e Spagnoli per combattere contro i Francesi. Naturalmente, questa decisione lasciò allibiti il Duca e il fratello Cardinale accendendone le ire; la reazione papale fu la scomunica per entrambi. Ecco perché più sopra è stato citato il Papa come un voltagabbana: finché gli ha fatto comodo, ha partecipato al blocco dell’espansionismo veneziano poi, raggiunto il suo scopo, ha cambiato le carte in tavola. L’Ariosto, al servizio della Corte Estense, nel suo poema volle ricordare l’animosità di Giulio II verso gli Estensi, dichiarandosi indeciso se definirla «madre» o «matrigna». Le cose poi precipitarono, in occasione della battaglia di Ravenna che avvenne il giorno di Pasqua del 1512. L’Ariosto ricordò il feroce fatto di sangue di cui protagonista fu proprio il suo mecenate, inserendolo nel suo poema; e qui lo si riporta per sommi capi. Si trovavano di fronte Estensi e Francesi da una parte e Pontifici e Spagnoli dall’altra. A seguito di un’abile mossa attuata dall’artiglieria estense, che sparava a zero, gli avversari per non essere falciati, furono costretti ad appiattirsi al suolo, mettendosi nelle peggiori condizioni di difesa possibili, perché diedero modo ai cavalieri ducali, guidati da Alfonso I, di buttarsi su di loro praticamente indifesi, imponendo ai loro destrieri di calpestare, scalciare, saltare senza esitazioni, schiacciando, straziando, dilaniando le membra di quei disgraziati. Si racconta che il Duca stesso cavalcasse «due grandi, spiritosi destrieri» addestrati a compiere tale scempio. La carneficina, che passò alla storia con il nome di «La Pasqua di Sangue», fu enorme e fu apprezzata dagli alleati, mentre qualcuno rimase dispiaciuto che insieme con la cronaca dell’avvenimento non fosse immortalata pure l’immagine di quei cavalli.

Sicuramente, il bronzo usato per la colubrina dovette subire un aggiustamento perché, mentre la presenza da 13 a 26 parti di stagno per ogni 100 di rame può essere appropriata per una statua, nei pezzi da artiglieria il rame deve essere presente in quantità superiore, a causa delle enormi sollecitazioni cui il fusto è sottoposto. Comunque, ne uscì un’arma veramente grande e impressionante, tanto da far esclamare a un cronista dell’epoca, Fileno Dalle Tatuatte, che il Duca artigliere «ne fece una grande bombarda che poi drizzò nel castello de riscontro la porta di esso, che io non ho mai veduto la più lunga e grossa di quella».

Le fonderie estensi raggiunsero livelli tanto elevati da poter competere ad armi pari con le migliori di quell’epoca. Le colubrine furono le armi da fuoco peculiari del Ducato di Ferrara, inizialmente senza concorrenti.

E Giulia fu un vero e proprio successo, tanto che altre colubrine la seguirono. Erano talmente importanti, da meritare affettuosamente un nome: così, ecco «Gran Diavolo», in grado di sparare proiettili da 125 libbre, e «Terremoto», che furono utilizzate proficuamente il 25 agosto 1510 nella guerra che vide di fronte Ferrara e Venezia. Un’altra fu «Spazzacampagna». L’ultima della serie fu «Regina», fatta fondere nel 1556 dal Duca Alfonso II, nipote di Alfonso I, ad Annibale Borgognoni, costruttore di pezzi di artiglieria per molti nobili del XVI secolo, ma con predilezione per gli Estensi. Quest’arma, del peso di sette tonnellate, era in grado di sparare un proiettile sui 35 chilogrammi di peso a più di quattro chilometri di distanza. Non solo: altra importante caratteristica per l’epoca, fu la possibilità di inserire nei proiettili dell’esplosivo, rendendo ancora più micidiale il loro effetto mortale e distruttivo.

Nel 1598, non essendoci successori maschi, il Papato si riprese il Ducato di Ferrara, Modena e Reggio, già feudo papale, riportandone la giurisdizione con un passaggio di potere che fu definito «Devoluzione di Ferrara» e dando l’incarico del governo al Generale Flaminio Delfini. Gli Estensi si trasferirono a Modena, che divenne capitale del loro decapitato Ducato fino al 1859.

E le artiglierie di Alfonso II che fine hanno fatto? Queste furono separate: Gran Diavolo e Terremoto rimasero a Ferrara, mentre Regina e Spazzacampagna seguirono gli Estensi nella nuova sede. Per quel che riguarda Giulia, questa seguì un altro percorso. Già Alfonso I l’aveva utilizzata per fortificare le difese della città di Reggio Emilia e da documenti risulta che, almeno fino al 1625, era ancora esistente, anche se con gli acciacchi, più che dell’età, delle conseguenze dei colpi sparati. E non era ancora superata, dal punto di vista della tecnica. Né di lei né di altri cannoni si hanno notizie, però con ogni probabilità sono stati fusi, come era capitato alle statue di bronzo di Borso d’Este, seduto sul trono, e di Niccolò III a cavallo, abbattute e fuse nel 1796 dalle truppe francesi. Le statue attuali, che fanno bella mostra di sé sopra l’arco del Palazzo Municipale, sono solamente delle copie degli originali. In Piazza Castello a Ferrara, si può ammirare una copia fedele della colubrina Regina.

(settembre 2020)

Tag: Mario Zaniboni, Ercole I d’Este, Principe artigiano, Duca artigliere, Alfonso I d’Este, Ducato di Ferrara, Repubblica di Venezia, battaglia di Polesella, Ducato Estense, Lega di Cambrai, Montagnana, Este, Polesine, salina di Comacchio, Angelo Trevisan, Pontelagoscuro, artiglieria estense, Guarda Veneta, Polesella, isola Giaron, Cardinale Ippolito, Lucrezia Borgia, granate, trattato di Bagnolo, Guerra di Ferrara e del Sale, Lega di Cambrai, Leone X, Clemente VII, colubrina, Giulio II, Basilica di San Petronio a Bologna, Stato Pontificio, Michelangelo Buonarroti, Bentivoglio, Re di Francia Luigi XII, Re di Aragona Ferdinando il Cattolico, Imperatore Massimiliano d’Asburgo, battaglia di Agnadello, Ludovico Ariosto, battaglia di Ravenna, Pasqua di Sangue, Fileno Dalle Tatuatte, Giulia, Gran Diavolo, Terremoto, Spazzacampagna, Regina, Annibale Borgognoni, Devoluzione di Ferrara, Flaminio Delfini, Borso d’Este, Niccolò III, Piazza Castello a Ferrara.