I conti vampiri
La vera storia del «conte» Dracula e della sadica contessa Báthory

Un battito d’ali nella notte. Un baluginare, lento e furtivo, di occhi rossi incassati in un volto pallido e scarno come un teschio. Due mani dalle dita adunche, ricurve come artigli, che si avvicinano alla vittima prescelta, alla ragazza supina sul letto, gli occhi sgranati e il respiro mozzo nell’attesa del bacio dell’amore, del bacio della morte. Labbra secche che si stirano sulle gengive, rivelando canini affilati come punte di pugnali…

Questi sono i vampiri… o, meglio, questa è l’immagine che abbiamo dei vampiri da quando, nel 1897, lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblicò a Londra il suo romanzo più famoso, Dracula. Nell’Inghilterra vittoriana, la fusione fra i violenti e sanguinari attacchi dei vampiri e l’appassionato anelito ad esperienze sensuali in misteriosi incontri notturni, non potevano non aver presa sul pubblico: ed infatti, il romanzo ebbe un successo immediato che è ben lungi dal tramontare – film, adattamenti teatrali, fumetti, canzoni, balletti, persino giocattoli e prodotti alimentari hanno diffuso nel mondo l’immagine, la conoscenza e – vorremmo dire – anche il «culto» del conte vampiro e dei suoi simili.

Bram Stoker ha affermato che l’idea del romanzo gli era venuta da un incubo provocato da un’indigestione di granchi. Ma, aneddoto culinario a parte, la credenza nell’esistenza di quelle terrificanti creature che sono i vampiri è sempre stata molto diffusa: essi sono già menzionati nella letteratura egizia e greca. Poiché l’estrema debolezza dei moribondi è causata dal mancato afflusso sanguigno, la gente semplice deve averne dedotto che bere sangue apporti forza, e addirittura che il sangue di un vivo possa riportare in vita un morto. A partire dal XVIII secolo, il vampirismo incominciò ad interessare gli Occidentali perché si inseriva nel dibattito più ampio riguardante i segni esteriori della morte, la morte apparente, la morte imperfetta, le questioni inerenti alla sepoltura all’esterno delle città e la necessità del certificato medico di decesso. Negli Stati Uniti dell’Ottocento, le vittime del colera – una malattia che prosciuga il corpo dai liquidi – venivano credute vittime di vampiri, e sepolte con gli accorgimenti che impedissero loro di diventare a loro volta dei vampiri. Mentre verso la metà degli anni Ottanta del secolo scorso, resoconti medici relativi ad una malattia estremamente rara, la porfiria (ribattezzata dalla stampa il «morbo di Dracula») risvegliarono l’interesse per il vampirismo: una delle varie forme della malattia, nota come porfiria congenita eritropoietica, che insorge nell’infanzia, produce una sintomatologia simile al vampirismo – denti aguzzi, eccessiva pelosità, estrema sensibilità alla luce e bisogno di sangue.

Per scrivere Dracula, Bram Stoker ha attinto alle credenze del folklore rumeno (simili credenze esistono tuttora in Romania, così come sono esistite nei Balcani e nella Grecia insulare, in Ungheria e in Slovacchia, in Boemia, in Moravia, in Ucraina e in Russia). Secondo la Chiesa Ortodossa Orientale, la religione dominante in Romania, chi muore maledetto o scomunicato diventa un morto vivente, o moroi, finché non ottiene l’assoluzione da parte del sacerdote. La superstizione locale li associa a creature denominate strigoi, demoniaci uccelli notturni, affamati di carne e sangue umani. La tradizione popolare attribuisce ai vampiri la causa di epidemie e pestilenze.

Secondo le leggende rumene, alcune persone (bambini illegittimi o non battezzati, streghe e il settimo figlio di un settimo figlio) sono destinate a diventare vampiri. Questi possono prendere le sembianze di animali, per lo più trasformandosi in lupi o pipistrelli. In certi villaggi, chi non mangia aglio è sospettato di essere un vampiro: infatti la miglior difesa dagli assalti notturni di questi succhiatori di sangue sarebbe quella di strofinare con l’aglio porte e finestre.

Stoker fece approfondite ricerche presso il British Museum, avvalendosi anche delle informazioni dello studioso ungherese Arminius Vambery. Ma fu anche influenzato dai misteriosi omicidi compiuti da «Jack lo Squartatore» e dagli undici racconti indù sull’argomento tradotti dal suo amico Richard Burton, esploratore e letterato.

Quello di Dracula è un vero e proprio mito fondatore, che fa vibrare le nostre corde più profonde: la vita dopo la morte, il fascino del sangue come veicolo di vita, l’ossessione del male e della violenza, l’aldilà che irrompe nella nostra vita, il non-morto che perseguita gli animi fin da quando gli uomini hanno costruito le prime sepolture e hanno ideato cerimonie complesse per garantire all’anima dei defunti un viaggio senza incidenti e senza ritorno verso l’altra riva… Ma il romanzo acquista ulteriore forza perché, per tratteggiare la figura del «suo» vampiro, Bram Stoker si è ispirato ad uno, o forse a due personaggi storici realmente esistiti: Vlad III Dracula, detto Tepes («l’Impalatore») ed Erzsébet Báthory.


Vlad III Dracula, un eroe sanguinario

Per noi, Dracula è il simbolo dell’orrore, del male, il fondo a cui può giungere l’umana depravazione, che emana quel fascino misterioso e ambiguo che fa dire al giovane Harker (uno dei protagonisti del romanzo di Stoker): «Che sorta d’uomo, o che sorta di creatura in sembianza d’uomo è mai questa?». Invece, per le regioni europee dell’Est, Russia, Romania e Balcani, il Dracula originario fu percepito come «un grande Sovrano che ispirava la groza, il timore reverenziale, alla pari di Ivan Groznyi, Ivan il Terribile, lo Zar del XVI secolo» (così lo descrive Cazacu nel suo saggio Dracula. La vera storia di Vlad III l’Impalatore, Milano, Mondadori 2006, pagina 205, che rimane a tutt’oggi il miglior libro sul personaggio); in Romania, poi, Dracula non è solo eroe nazionale, ma quasi un Santo – nel 1976 Nicolae Ceausescu celebrò il cinquecentesimo anniversario della morte di Vlad III e in quel frangente parecchie pubblicazioni lo presentarono come un grande riformatore, un comandante coraggioso come ce n’erano stati pochi nel passato rumeno, un principe severo ma giusto, e considerando come calunnie ed esagerazioni dei nemici del popolo rumeno le atrocità – vere o presunte – che gli venivano attribuite.

Vlad III Dracula nacque in una data compresa fra il 1429-1430 e il 1436 molto verosimilmente a Schässburg, l’odierna Sighişoara, una città tedesca in Transilvania (una regione della Romania); si possono ancora ammirare le grigie mura di cinta su cui si snoda – a mo’ di corona – l’edera rossa, le torri di guardia slanciate ed infiorate di euforbie, le viuzze strette e sinuose, le dimore variopinte del XV e XVI secolo. La presunta casa natale di Dracula, una costruzione massiccia e priva di grazia, con i muri dipinti d’un giallo fumoso, esiste ancora nella città vecchia (o città alta), come attesta una targa affissa nel 1976.

Casa di Vlad

Casa di Vlad III Dracula (quella gialla) a Sighişoara (Romania); fotografia di Paolo Gelosa, 2012

Appartenente al lignaggio dei principi regnanti di Valacchia (un territorio montagnoso adiacente alla Transilvania), i Basarab, Vlad visse in un’epoca di guerre tra l’Impero Turco e i domini cattolici della Corona Ungherese; non fu mai conte, come lascerebbe supporre il romanzo di Stoker, bensì voivoda (cioè principe o duca) della Valacchia. Tradizionalmente, si cita come sua dimora il castello di Bran, anche se gli storici nutrono seri dubbi che vi abbia mai risieduto; altri indicano una fortificazione detta castello di Poenari, dove il principe effettivamente soggiornò, ma che in realtà era soltanto un avamposto militare strategico.

L’unico ritratto che ci rimane di Vlad si trova nel castello d’Ambras (Tirolo Austriaco): il principe porta in testa, sopra i lunghi capelli ricci, un copricapo di velluto rosso adorno di otto file di perle. Sulla fronte, una stella d’oro a otto punte con incastonato un enorme rubino rettangolare, sostiene un pennacchio nella cui parte inferiore risaltano cinque grosse perle. Le sopracciglia sono arcuate e sovrastano due grandi occhi grigio-verdi, dallo sguardo fisso. Un naso lungo e leggermente aquilino, con le narici preminenti, sconfina sui lunghi e grossi mustacchi castani, che prendono quasi tutta la larghezza del volto. Il labbro inferiore, rosso e sporgente, come quello degli Asburgo, delimita il mento affetto da un leggero prognatismo (questa combinazione di naso aquilino e labbra rosse un tempo veniva chiamata «un becco da pappagallo su due ciliege»). Indossa una camicia rosso-arancione, una tunica color porpora, con dei grossi bottoni rotondi, ornati di pietre preziose. Un manto di zibellino con alamari anch’essi purpurei completa la tenuta.

Vlad Tepes

Il ritratto di Vlad Tepes nel castello d'Ambras, XV secolo

Gran combattente, Vlad nel 1431 entrò a far parte dell’Ordine del Dragone (Societas draconistarum), il cui scopo era combattere sia l’eresia hussita che la minaccia turca. Il simbolo era un drago morto e capovolto su se stesso, che i cavalieri portavano al collo a mo’ di pendaglio mentre sull’armatura indossavano un mantello rosso con una mantelletta verde, a raffigurare la pelle del mostro e il suo ventre insanguinato: per la sua appartenenza all’Ordine, Vlad III assunse il soprannome di «Dracul» o «Draculea», appellativo che stava a indicare semplicemente un membro dell’Ordine del Drago. Ma il vocabolo romeno «dracul» significa anche «il diavolo» (mentre «Draculea» sta letteralmente per «il figlio del diavolo»), e già in vita Vlad aveva fama di uomo feroce e sanguinario: infatti i Valacchi avevano l’usanza di dare quel soprannome a tutte le persone che si distinguevano per il loro coraggio, le loro gesta crudeli o la loro abilità.

La Valacchia del XV secolo era un Paese prospero, ricco di uomini e bestiame, materie prime come il sale e il legno, prodotti come i cereali e il vino; la selvaggina abbondava nelle immense foreste che si estendevano dal Danubio alla Transilvania e sulle strade era tutto un traffico di tessuti e di spezie.

Nella difficile situazione politica che costringeva i principi rumeni a barcamenarsi in un difficile equilibrio tra i Turchi a Sud e gli Ungheresi a Nord (di cui erano vassalli), il piccolo Vlad finì ostaggio col fratellino Radu del Sultano e fu educato all’arte della guerra e ai dettami della religione musulmana. Poté anche conoscere usi e costumi dei Turchi, arrivando a padroneggiare la lingua turca e ad adottarne persino l’abbigliamento: sarà l’unico principe occidentale del tempo a vestire il caffetano anziché gli abiti in voga presso le Corti Europee. Dopo la morte del padre, Vlad II, alla fine del 1448 il diciottenne Vlad varcò il Danubio alla guida di un esercito datogli dal Sultano. Impadronitosi del trono della Valacchia, due mesi dopo fuggiva in un monastero, mettendosi sotto la protezione del potente Giovanni Hunyadi, che lo portò con sé a Buda. Vlad si distinse in svariate incursioni contro i Turchi e rappresaglie tra i principi cristiani; durante l’assedio di Smederevo, nel 1454, fece a pezzi l’armata ottomana. Il suo coraggio gli valse come ricompensa la restituzione dei feudi transilvanici che erano stati di suo padre: le cittadelle di Almas e Făgăraş, sulle falde dei Carpazi Meridionali, tra la nativa Sighişoara e l’importante centro commerciale di Braşov. E da qui si preparò a riconquistare il trono.

La situazione non era facile. I Turchi avevano preso Costantinopoli e il loro alito soffiava forte lungo le irte gole dei Carpazi; i nobili si comportavano in maniera ambigua e i mercanti sassoni (che un secolo e mezzo prima avevano fondato città fiorenti e potentissime grazie alla fitta rete di commerci che avevano saputo instaurare lungo il Danubio, dalla Germania all’Impero Bizantino) avevano subìto dure rappresaglie.

Vlad fu incoronato principe nell’agosto 1456: aveva ventisei o ventisette anni, e si presentò davanti al popolo con un’aria cupa e determinata. Per quaranta giorni, migliaia di nobili di provincia, di abitanti dei borghi e di contadini vennero da ogni parte del Paese a baciare la mano del principe e a giurargli fedeltà. Attraverso questo giuramento che prestavano tenendo le mani sulla croce e sul Vangelo, i boiardi, il clero e i popolani si sentivano molto legati al loro principe: il tradimento comportava pene spirituali e pene corporali molto severe.

In questi stessi anni iniziò a diffondersi la sua sinistra fama come principe sanguinario e violento, soprattutto per colpa del libro intitolato Storia del voivoda Dracula, pubblicato nel 1463 a Vienna dallo stampatore e libraio Ulrich Han, che conobbe un successo immediato e straordinario. Ad impressionare il pubblico era un brutale metodo di esecuzione che Vlad aveva imparato dai Turchi: l’impalatura, supplizio che gli valse il soprannome di Ţepeş («impalatore», in rumeno). L’impalatura poteva avvenire in due modi: il primo consisteva nell’uso di un’asta appuntita, di legno o di ferro, che trafiggeva il condannato all’altezza dell’addome per poi issarlo in alto; la morte era immediata o sopraggiungeva nel volgere di poche ore. Più lunga l’agonia causata dal secondo metodo, che prevedeva l’uso di un’asta arrotondata all’estremità e cosparsa di grasso, che veniva inserita nel retto della vittima che poi veniva issata in posizione eretta; il peso del corpo faceva penetrare l’asta all’interno senza però ledere organi vitali, cosicché la morte per sete sopraggiungeva anche dopo due o tre giorni, con gli occhi del suppliziato divorati dai corvi ma tutte le facoltà ancora intatte. Lo stesso Vlad adattò il supplizio alle più specifiche «richieste», creando metodi diversi per impalare i ladri, i guerrieri nemici, gli ambasciatori del Sultano, i traditori e via dicendo: i ricchi e i pascià turchi, per esempio, venivano impalati stendendoli più in alto degli altri o facendo ricoprire l’asta d’argento o d’oro; per i mercanti fece incidere delle tacche sull’asta, al fine di aumentare il tempo dell’agonia, mentre le donne macchiatesi di tradimento nei confronti del marito venivano impalate davanti alla loro casa. Abbiamo poi uno zigano bollito in un calderone che la sua tribù aveva dovuto mangiarsi; una concubina del principe, incinta, sventrata affinché egli potesse vedere dove si trovava il frutto del proprio seme; un banchetto durante il quale Dracula aveva fatto servire ai nobili i gamberi nutriti con il cervello dei loro parenti e amici; e ancora, madri costrette a mangiare i loro figli arrostiti, mariti obbligati a fare lo stesso con i seni tagliati delle mogli…

Gli aneddoti si sprecano: il principe si divertiva a scuoiare, bollire vive, bruciare e mutilare le sue vittime come in preda ad una mai sazia fame di orrore. Quando le vittime urlavano sotto tortura, Dracula esclamava: «Udite che piacevole passatempo, che diletto!»; e a chi gli chiedeva perché si accanisse così tanto rispondeva, citando San Pietro, che i Sovrani sono designati da Dio per punire i malfattori e premiare i buoni. Nel 1459, nel giorno di San Bartolomeo, a Braşov (una città della Transilvania) Vlad fece invitare a palazzo alcuni mercanti che avevano mostrato odio e disprezzo nei confronti della sua persona; li fece saziare di cibo e, quindi, fece sventrare il primo e obbligò il secondo a mangiare ciò che il collega, ormai senza vita, aveva nello stomaco; l’ultimo mercante venne fatto bollire e la sua carne fu data in pasto ai cani (in quell’occasione, 30.000 persone furono impalate). L’anno dopo a Sibiu stessa sorte per altre 10.000, i cui corpi furono cosparsi di miele per attirarvi gli insetti e rendere più atroce il supplizio. Nel 1461 ai tre ambasciatori del Sultano che in sua presenza non si tolsero i turbanti perché rappresentavano il simbolo della loro religione, ordinò che si inchiodassero loro i copricapo sul cranio.

Lo stesso Vlad amava assistere all’agonia dei suppliziati, tanto da prendere l’abitudine di banchettare in mezzo alle forche su cui erano gli impalati. Una xilografia del XV secolo lo rappresenta a tavola, circondato dalle sue vittime: il principe viene rappresentato come un anziano, con barba e capelli lunghi ed un lungo copricapo, l’espressione mite e saggia. In contrasto a questo, in un angolo un uomo dallo sguardo duro è impegnato a fare a pezzi a colpi di scure e a cuocere teste e membra umane, e sul fondo si eleva una vera e propria selva di pali acuminati sui quali sono infissi uomini e donne seminudi, alcuni agonizzanti, altri già irrigiditi nel gelo della morte.

Dracula era soltanto un sadico arrogante, o le sue crudeltà erano mirate a fini politici? Probabilmente entrambe le cose. Se era effettivamente spietato, bisogna però tener conto del contesto in cui visse: allora la ferocia era un ammonimento per tutti, nemici in primis (nel cui sangue il principe si deliziava ad immergere la mano). La stessa pratica dell’impalatura (di probabile origine assira, ma usata da vari popoli, come i Romani, i Crociati nel XIII secolo…) fu usata come spauracchio per gli avversari, che indietreggiavano di fronte alle «foreste» di corpi impalati che lasciava dietro di sé. Del resto, Vlad era anche considerato un devoto cristiano (ortodosso), persecutore di Cattolici e costruttore di chiese.

La guerra contro i Turchi, nel frattempo, proseguiva. Nella primavera del 1462, il Sultano Maometto II radunava un esercito composto da un numero compreso tra i 60.000 e gli 80.000 uomini; Vlad rispose convocando alle armi tutti gli uomini validi dai dodici anni d’età in su: in tutto, circa 30.000 uomini. Il 4 giugno l’esercito turco riusciva a passare, pur con gravi perdite, il Danubio. Ma una volta raggiunta l’opposta riva, lo spettacolo che Maometto II si trovò di fronte fu desolante: una pianura sterminata di terra bruciata, senza possibilità di rifornirsi, e sotto il sole cocente, al punto che secondo un testimone le armature potevano servire a cuocere il kebab – il principe rumeno aveva usato la tattica della «terra bruciata». La notte tra il 17 e il 18 giugno, Vlad piombò di sorpresa sul campo avversario con 8.000 uomini. Nei giorni precedenti, travestito da mercante turco, era riuscito ad avvicinare l’accampamento e a localizzare le tende dove riposavano il Sultano e il suo Visir; purtroppo, nel caos generato dalla battaglia, sbagliò tenda e fallì l’obiettivo. Costretto alla fuga, riuscì a riparare con buona parte dei suoi tra le foreste. L’esercito ottomano poteva avanzare verso Târgovişte, ma quando vi giunse, Maometto II e i suoi trovarono solo i resti dell’ambasciata trucidata il febbraio precedente: i cadaveri, impalati, erano stati lasciati a marcire sul posto.

Nel novembre dello stesso anno giunsero nelle mani di Mattia Corvino, Re d’Ungheria, tre lettere firmate da Vlad: contenevano parole compromettenti e la chiara intenzione di venire a patti coi Turchi. Erano dei falsi fabbricati ad arte, ma il Sovrano le credé autentiche e fece arrestare Vlad nel castello di Visegard, mentre sul suo trono – spalleggiato dai Turchi – finiva nientemeno che Radu il Bello, fratello di Vlad e amante del Sultano Maometto II.

Durante la prigionia Vlad, dotato di un fascino sinistro, fece amicizia con i suoi guardiani, che lo rifornirono di topi ed altri piccoli animali perché si divertisse a impalarli in cella. Fu liberato nel 1475, dopo tredici anni, sotto la spinta di una nuova crociata voluta dal neo Pontefice Sisto IV. La sua abilità militare si dimostrò subito all’altezza del compito: in pochissimo tempo, Vlad conquistò Srebrenica, Kuslat e Zvornik facendo a pezzi con le sue mani i corpi dei Turchi catturati. Purtroppo due mesi dopo queste folgoranti vittorie, Vlad fu sconfitto in battaglia dai Turchi: a quanto riporta il legato del Duca di Milano a Venezia Leonardo Botta, fu «tagliato a pezzi» insieme a 4.000 uomini. Ma su come effettivamente morì, le fonti sono discordanti. Per lo storico austriaco Jakob Unrest e per quello polacco Jan Długosz, contemporanei agli avvenimenti, il principe fu vittima di tradimento: un Turco, fatto entrare nell’accampamento da un uomo vicino al voivoda, lo prese alle spalle e gli tagliò la testa con un colpo di spada; morto Vlad, i suoi uomini si persero d’animo e furono sconfitti dagli avversari. L’ambasciatore russo in Valacchia Fedor Kuricyn, invece, fornisce un’altra versione dei fatti: «I Turchi attaccarono il suo Paese e cominciarono a conquistarlo. Dracula li attaccò e li mise in fuga. Il suo esercito li uccideva senza pietà, e con gioia Dracula salì su una collina per vedere meglio i suoi che massacravano i Turchi. Si allontanò così dal suo esercito e dai suoi uomini. Prendendolo per un Turco, uno di essi lo colpì con una lancia. E lui, vedendosi attaccato dai suoi, uccise subito con la spada cinque di coloro che volevano ammazzarlo. Ma fu trafitto da molte lance, e fu così che venne ucciso». Com’era costume, la testa di Vlad fu scorticata: la pelle del volto e lo scalpo, imbalsamati e riempiti di cotone, conservati nel miele, furono portati a Maometto II come trofeo di guerra.

Il suo corpo fu sepolto in una tomba senza nome. Secondo la tradizione, i resti riposano presso il convento di Snagov, su un’isola in mezzo al lago, trentacinque chilometri a Nord di Bucarest. All’interno del monastero, proprio di fronte all’iconostasi che nelle chiese ortodosse separa la navata dal presbiterio, c’è una pietra tombale con l’iscrizione del tutto abrasa dal tempo e dai passi. Chiudeva un sepolcro nascosto a tre metri di profondità, sotto una tomba piena di ossa di ratti, in una cripta ancora intatta sotto l’asse centrale della navata. La bara, sigillata e rivestita di un tessuto color porpora, scoperta durante alcuni scavi all’inizio degli anni Trenta, conteneva il corpo di un uomo vestito con un abito di velluto porpora e verde, chiuso con grossi bottoni di filo d’argento dorato e stretto in vita da una cintura di placche d’argento a losanga. Da una manica pendeva un anello femminile, mentre un diadema d’oro con un turchese incastonato si trovava vicino alle mani. Il volto era nascosto da un drappo di seta. Era la tomba del principe Vlad? Furono in molti a pensarlo. Purtroppo, a contatto con l’aria la salma svanì prima che gli studiosi potessero fotografarla. Di quanto rinvenuto nella tomba oggi restano, al Museo di Bucarest, solo i bottoni e qualche frammento di tessuto; il resto è scomparso e finito chissà dove.

Ma ancor oggi, una leggenda popolare vuole che il Sovrano guerriero ritorni, ogni volta che il suo popolo sia in grave pericolo…


Erzsébet Báthory, la contessa-vampiro

Se la vita di Vlad fu un «bagno di sangue» in senso figurato, quella di Erzsébet Báthory lo fu nel senso letterale dell’espressione: la contessa torturò e dissanguò centinaia di ragazze (forse 650, cifra che farebbe di lei la più efferata e prolifica serial killer della storia!), convinta che bagnarsi nel loro sangue le garantisse un’«eterna» giovinezza. Come nel caso del principe rumeno, però, dal Settecento in poi cronisti, scrittori e diversi studiosi – proprio quando in Ungheria si diffondevano i racconti sui vampiri – si accanirono sulla «contessa Dracula» (come fu ribattezzata in Inghilterra) con una tale «solerzia» che oggi non è facile discernere ciò che è vero dalle numerose leggende ed esagerazioni.

Nata nel 1560 a Nyírbátor, un villaggio nel Nord-Est dell’attuale Ungheria, ma allevata nella proprietà di famiglia di Ecsed in Transilvania, Erzsébet ricevette un’ottima educazione: ad undici anni leggeva la Bibbia e la storia dell’Ungheria in latino, ungherese, greco e tedesco, sapeva cavalcare ed aveva appreso a governare la casa, a dare ordini alla servitù, a comportarsi adeguatamente in società.

Era estremamente avvenente, con la pelle bianchissima, i capelli scuri e folti, i grandi occhi neri dallo sguardo altero, la bocca carnosa e sensuale; ma era anche una donna silenziosa, dallo sguardo distratto, che a volte parlava con arroganza ed insolenza, e in diverse occasioni si mostrava cinica.

Si sposò a soli quindici anni, l’8 maggio 1575, col conte Ferencz Nádasdy, rampollo di una famiglia ricchissima anche se meno nobile della sua. Le damigelle d’onore impiegarono diverse ore a sistemare lo sfarzoso abito nuziale addosso a Erzsébet che, ritta davanti agli specchi, volgeva intorno lo sguardo superbo e corrucciato; sotto il vestito erano stati cuciti dei talismani: per essere amata, per essere feconda, per piacere, per piacere sempre e perché la sua bellezza rimanesse immutata nel tempo.

La festa per il matrimonio durò più di un mese: ogni giorno si susseguivano cacce, banchetti sontuosi e fastose danze al suono di orchestre gitane. Poi gli sposi si trasferirono al castello dei Nádasdy a Čachtice, un paese slovacco formato da piccole case bianche con balconi di legno, circondate da viti che producevano un vino rosso simile al Bordeaux e da campi di grano, là dove i bassopiani del Danubio incontravano la catena dei Piccoli Carpazi; il castello era un vero e proprio maniero in pietra dai sotterranei labirintici, una costruzione triste e tetra arroccata in cima ad una collina, alla quale si accedeva attraverso un impervio sentiero che si snodava fra le rocce fino ad una folta foresta abitata da linci, lupi, volpi e martore.

Ferencz era spesso via per combattere contro i Turchi, e la contessa passava intere mattinate nella sua camera con le damigelle intorno, indaffarate a truccarla e acconciarla: vestiva abiti candidi e ornava i neri capelli con cascate di perle e diamanti. Sognava prodotti per perfezionare il suo incarnato latteo e copriva il suo splendido corpo con creme ed unguenti; nell’anticamera aveva fatto costruire un piccolo laboratorio per distillare erbe e bruciare piante, e le più esperte delle sue domestiche vi trascorrevano l’intera giornata per ottenere i cosmetici da lei ordinati.

Erzsébet ebbe quattro figli, ma non sentì mai verso di loro un autentico istinto materno. Soffriva di acutissimi mal di testa che le procuravano crisi convulsive, scatti d’ira e attacchi di epilessia che scomparivano, sostituiti da uno stato di trance molto vicino all’estasi mistica, quando torturava giovani cameriere indifese. Presto, questa pratica divenne quotidiana: i servi della contessa andavano anche in paesi lontani a cercare ragazze per la padrona, tutte belle, per lo più bionde, giovanissime e vergini, allettandole con la promessa di un buon posto di lavoro o con la prospettiva di una vita comoda e lussuosa in compagnia di una ricca contessa che non voleva passare il lungo inverno in solitudine.

Erzsébet trovò anche una giustificazione alle torture: chiedeva alle sue fedelissime di raccontarle gli errori che le domestiche commettevano nello svolgimento delle faccende di casa e le puniva di conseguenza. Se una cameriera aveva chiacchierato mentre rammendava la biancheria, la bocca le veniva cucita dalla stessa contessa con del filo nero; se non aveva finito il lavoro di cucito, le infilava aghi sotto le unghie; se aveva stirato male i suoi abiti, le veniva passato il ferro rovente sulla pianta dei piedi o sul viso; se aveva rubato qualche spicciolo, le veniva premuta una moneta arroventata sopra la mano o veniva spalmata di miele e abbandonata nella foresta legata ad un albero, preda di bestie piccole e grandi. Legate mani e piedi, lasciate digiune, picchiate selvaggiamente, ustionate con ferri roventi: così centinaia di ragazze avevano lasciato questa terra.

Una giovane, colpevole di aver tentato la fuga ed essersi nascosta in un bosco, fu spogliata e messa all’interno di un cerchio di donne che la respingevano nel mezzo con le torce accese e di tanto in tanto le gettavano addosso secchiate d’acqua. Era inverno e l’acqua gelava molto rapidamente: la poverina in poco tempo si trasformò in una rigida stalagmite con la bocca congelata in un grido.

Se viaggiava, accompagnata dalla sua corte di adulatori (streghe, degenerati, megere, oltre alle fedeli damigelle e al sadico nano Ficzkó), Erzsébet si portava appresso una folta schiera di vergini da seviziare lungo il tragitto. Se il percorso era molto lungo, faceva arrestare il convoglio, condurre al suo cospetto una ragazza responsabile di qualche mancanza e, dopo averne enumerato ad alta voce le colpe mentre rimaneva sdraiata sui rossi cuscini di raso della sua carrozza, prendeva uno spillone e lo conficcava qua e là nelle tenere carni della ragazza che si contorceva gridando.

Il desiderio di tormentare una giovane vittima arrivava all’improvviso, di solito dopo un feroce mal di testa o una crisi convulsiva e il primo pensiero della contessa, appena giunta a destinazione, era quello di trovare un posto adatto per sistemarvi la camera delle torture. Doveva essere un luogo riparato e lontano dalle sale abitate in modo da soffocare i lamenti delle ragazze. Lei stessa durante queste sedute, mentre le sue aiutanti bruciavano il sesso delle giovani con una candela o infilzavano aghi sotto le unghie delle malcapitate, gridava frasi oscene misurando la stanza a grandi passi. Esplodeva poi in terrificanti risate che punteggiavano i suoi ordini: «Di più! Ancora di più!», e infine cadeva in trance.

Il marito sapeva delle crudeltà della moglie, ma non se ne curava. Le atrocità compiute a spese della servitù e dei coloni in Ungheria erano state in un certo senso legalizzate nel 1517, quando István Werböczy, un nobile esperto di legge, aveva scritto il cosiddetto Tripartitum. Il codice, valido fino al 1848, sanciva i privilegi di cui la nobiltà godeva già da tempo, rendendo legittimo, indirettamente, il ricorso alla forza per far valere i diritti dell’aristocrazia sui propri sottoposti. Affermando che il diritto a governare è dato ai nobili per volontà divina, il testo garantiva l’eterna sottomissione dei coloni al proprio padrone: ribellarsi voleva dire commettere peccato contro Dio. Da parte loro, gli aristocratici preservavano questo potere per sé e per i propri discendenti con il ricorso alla forza bruta: i servi potevano essere puniti (il codice non specificava come) e persino uccisi se avessero trasgredito agli ordini. In base ai capricci del nobile, poi, la severità poteva tramutarsi in sadismo.

Col passar del tempo, Ferencz – uomo avvezzo alla violenza della guerra e noto per giocare con le teste mozzate ai nemici – aveva rinunciato ai combattimenti per rinchiudersi lunghe ore in preghiera; il fervore religioso aveva sostituito l’esaltazione delle imprese belliche, l’ascetismo aveva rimpiazzato le cene luculliane e le bevute con gli amici ed era anche una valida giustificazione per tenere la moglie lontana dal suo letto: ogni contatto fisico con lei lo intimoriva e lo paralizzava. La sua salute cominciò ad abbandonarlo, finché, il 4 gennaio 1604, Ferencz Nádasdy morì: aveva solo quarantanove anni.

Fu dopo la morte del marito che Erzsébet scoprì, in modo del tutto casuale, le proprietà del sangue umano. Le damigelle la stavano acconciando, come ogni mattina. I lunghi capelli neri venivano intrecciati con fili di perle e poi fissati in modo da formare delle onde regolari; la parrucchiera, con un appuntito bastoncino di bosso, sistemava le ciocche a distanze equivalenti ai due lati della testa.

Fu per una distrazione o per lieve imperizia che un’onda di capelli scivolò più su un lato che sull’altro. Gli occhi della contessa si rabbuiarono e le sue mani colpirono al viso la ragazza, con tale violenza da farle schizzar sangue dalla bocca e dal naso. Alcune gocce di sangue caddero sulle mani di Erzsébet: ed ecco, poco dopo il sangue aveva reso l’incarnato più lucido, quasi trasparente. E la contessa capì che cos’avrebbe dovuto fare per rendere eterna la sua bellezza. Da quel momento, le torture sulle giovani domestiche ebbero uno scopo: le poverine venivano dissanguate per permettere ad Erzsébet di immergersi nel loro sangue versato in una vasca – un vero e proprio bagno di sangue. Una vecchia strega, Anna detta Darvulia, le aveva assicurato che i bagni di sangue l’avrebbero resa invulnerabile e sempre incantevole; un’altra strega, Majorova, sosteneva che le ragazze dovessero essere ben nutrite e in buona salute perché il loro sangue facesse maggiore effetto, così spesso le malcapitate venivano obbligate a mangiare le carni, cucinate alla griglia, delle compagne di dolore.

Ma le cose si stavano mettendo male, per la contessa: nel 1608 l’Imperatore Rodolfo II, Arciduca d’Austria e Re di Ungheria e Boemia, cedette il Regno d’Ungheria al fratello Mattia II d’Asburgo. Il nuovo Sovrano, come prima cosa concesse ai contadini la libertà di religione, e poi volle combattere il male dovunque si annidasse. Per questo fece svolgere accurate ed approfondite indagini sulla contessa Báthory, sulla quale gli erano giunte voci terrificanti – ormai molti sapevano, o perlomeno sospettavano, ciò che accadeva nel suo tetro maniero.

Gli abitanti di Čachtice conoscevano la scala che conduceva ai sotterranei e la indicarono agli uomini mandati dal Re. Un fetido odore di morte aleggiava tutt’intorno, i muri erano ricoperti di sangue. Videro la sala delle torture e i terrificanti strumenti delle sevizie, il sangue raggrumato nella vasca da bagno, le minuscole segrete dove giovani donne terrorizzate aspettavano il proprio turno; videro infine tre ragazze raggomitolate in un angolo, una era morta e le altre due agonizzavano: le prigioniere raccontarono di non aver ricevuto cibo per giorni e giorni, e di essere state costrette a mangiare la carne delle loro compagne decedute.

Erzsébet fu arrestata mentre si accingeva a fuggire in Transilvania: la sua carrozza era già pronta, all’interno erano stipati strumenti di tortura ed un diario nel quale la contessa aveva descritto le sue vittime, annotandone il nome e le particolarità.

Il processo cominciò a Bicse il 2 gennaio 1611 e il 7 era già terminato. Probabilmente fu un processo «pilotato» (prassi comune presso la Corte Asburgica), con una sentenza già scritta contro una donna la cui colpa non era la crudeltà, largamente praticata da tutti i nobili, quanto l’aver avuto, dopo la morte del marito, un enorme potere ed enormi proprietà terriere che facevano gola a molti. I testimoni d’accusa erano piccoli nobili gelosi, feudatari felici di poter mettere una cattiva parola per la contessa e servi bistrattati; nessuno dei parenti delle vittime partecipò al processo, e alcune lettere scritte dai protagonisti del dramma con un tono da cospirazione sembrano avvalorare l’ipotesi di un complotto; d’altronde, già all’epoca dei fatti c’era chi liquidò le confessioni dei servi di Erzsébet come «orribili dicerie». Alla fine, mentre gli aguzzini di Erzsébet – che avevano confessato le loro colpe ma sotto tortura – furono condannati a morte tranne uno, la contessa (che non fu chiamata dal giudice in tribunale) venne condannata alla reclusione a vita nella sua stanza del castello di Čachtice.

Le finestre e la porta furono murate, ad eccezione di una fessura per l’aria e di una feritoia per il passaggio del cibo e dell’acqua. La camera era fredda e buia tutto l’anno e presto si riempì di pipistrelli.

Tre anni e mezzo dopo, il 20 agosto 1614, Erzsébet chiamò le guardie che le portavano il cibo, implorando: «Guardante le mie mani, quanto sono fredde».

«Non è niente, signora» le risposero. Ma la mattina seguente la contessa giaceva morta sul suo letto, vestita di bianco, con fili di perle annodati tra i capelli e ricoperta di gioielli. Aveva cinquantaquattro anni: secondo alcuni si lasciò consumare dalla fame, ma per altri ad ucciderla fu la sete di sangue umano.

(febbraio 2014)

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