Centralismo e potere periferico in Italia
Un esempio illuminante. A Lucca il mancato Concilio poi svoltosi a Trento

Perché nel nostro Paese il potere periferico di fatto, nonostante un ordinamento centralistico istituito con l’Unità Nazionale, ha sempre avuto la meglio? Un esempio illuminante in tal senso è la mia città, Lucca. Qui possiamo davvero toccare con mano le radici di questa realtà politica italiana.

Trento non era la città preposta sin dall’inizio a diventare la sede del Concilio. In realtà la città di Lucca fu acclamata sia dall’Imperatore Carlo V che da Papa Paolo III Farnese come la città ideale per tale evento. A Lucca però, dopo aver accolto con il massimo degli onori e delle solennità sia l’Imperatore (Carlo V) che il Papa (Paolo III Farnese), che qui si erano dati convegno nel settembre 1541 per decidere dove ubicare l’importante Concilio, la Repubblica nei suoi più stretti membri sia ecclesiastici che senatoriali, a sentire che il Papa era venuto nella determinazione di preferire Lucca, anziché Trento, come sede del Concilio, riuscì abilmente, accampando pretesti di ogni genere, a declinare tale preferenza.

Scrive in proposito lo storico Palmiro Filippo Bini: «Intuitive le ragioni di questo cauto diniego: evitare non solo le insidie che avrebbe comportato l’afflusso in città di tanta e varia gente estranea, ma anche il pericolo che si ingigantisse oltre misura il sospetto di un’eccessiva tolleranza usata da parte delle autorità verso il movimento spirituale e riformistico che si stava sempre più diffondendo in città e che interessava soprattutto esponenti del patriziato e del ceto mercantile lucchese».[1]

«E in effetti le idee della Riforma luterana» prosegue il Bini «avevano trovato in Lucca un ambiente quanto mai disposto ad accoglierle, anche perché come già si è accennato, dopo la morte del Vescovo Felino Sandei nel 1503, la diocesi era rimasta allo sbando, essendosi succeduti fino al 1546 tutti Vescovi delle famiglie Della Rovere e Riario Sforza, che non avevano mai preso la residenza stabile a Lucca e si erano quindi totalmente disinteressati di esercitare il loro ministero. Sono anni, quelli dopo il 1530, di intense relazioni col mondo anglosassone attraverso i mercanti (ad esempio Agostino Balbani di ritorno dalle Fiandre, e Niccolò Arnolfini)».

Vermigli preferì fuggire da Lucca l’anno dopo, per riparare prima a Strasburgo, dove esercitò un’attività prevalentemente dottrinale, come professore, e poi a Oxford, dove collaborò alla riforma della liturgia e del diritto ecclesiastico. Gli ultimi anni il Vermigli li trascorse a Zurigo. Qui morì nel 1562.

La Repubblica, di fronte alle minacce d’intervento dell’Inquisizione, assunse in un primo tempo un atteggiamento molto cauto e prudente, quasi dilatorio, nell’affrontare i problemi che la diffusione delle idee riformistiche suscitò, anche perché l’adesione interessava particolarmente la classe mercantile, nobili e non, che era al potere e coinvolgeva quindi interessi patrimoniali rilevanti per l’economia dello Stato.

In un primo tempo cercherà di difendersi rivendicando con suppliche e azioni diplomatiche la cattolicità e la devozione di Lucca alla sede apostolica, ma poi dovrà ricorrere all’allontanamento di alcuni personaggi che più davano nell’occhio e all’approvazione di una Riformazione (1545).

Nel 1557 Paolo IV Carafa parlò dello «scandalo lucchese» dovuto a questa adesione in massa dei membri delle principali famiglie cittadine.

La fuga soprattutto verso Ginevra di molti di loro fu dunque inevitabile. Lucca però riuscì ugualmente ad arginare le difficoltà sia attraverso le rimesse che i fuoriusciti fecero avere alla città, sia evitando con un’abilità diplomatica assolutamente grandiosa che il tribunale della Santa Inquisizione e i Padri Gesuiti mettessero piede in città.

Al loro posto fu istituito nel 1574 un Ordine «ex novo», i Chierici Regolari della Madre di Dio, che di fatto sostituirono i Padri Gesuiti sia nella diffusione della cultura in città, sia permettendo che un tribunale della Santa Inquisizione ivi non si formasse.

La Riforma Martiniana del 1556 proposta dal Gonfaloniere Martino Bernardini aveva messo al riparo la città da ogni possibile interferenza. Tale riforma metteva in chiaro che a gestire il potere in città dovevano essere solo lucchesi d.o.c., appartenenti a quelle famiglie che già avevano gestito il potere.

Autoreferente, questa riforma escluse non solo gli stranieri, ma anche il contado nella gestione del potere. Sia all’interno del Senato che del Consiglio Maggiore.

Ciò indubbiamente dava solenni garanzie al Papa come all’Imperatore di turno sulla non ingerenza e non interferenza da parte di chicchessia nelle questioni cittadine di qualsivoglia specie.

Il fai da te di Lucca durerà fino al 1847, data in cui si dissolse la millenaria indipendenza.

E dopo questa data?

Un sacerdote lucchese cattolico liberale, Padre Gioacchino Prosperi, con un sermone scritto, letto e pubblicato nel 1849 presso la tipografia della Curia Lucchese, bene illustra la situazione della città che si manterrà nei fatti inalterata. Lo proclamò nella sua chiesa di Sant’Anna fuori le Mura, a un passo dalla cinta muraria lucchese ma che allora era aperta campagna, con tanto di lupi che si aggiravano nei paraggi, ospite qui l’illustre Sovrano del Granducato di Toscana (di cui ormai anche Lucca faceva parte) Leopoldo II di Asburgo Lorena, che era sbarcato da Gaeta, dove si era rifugiato per i fatti del 1848, a Viareggio con la sua illustre famiglia, e che per l’occasione passò da Lucca prima di recarsi a Firenze.

La Curia non riservò al Sovrano anche in quella circostanza grande enfasi visto che non lo ospitò in una delle splendide chiese cittadine ma in aperta campagna in un luogo davvero ameno. E lasciò che questo sacerdote, un cattolico liberale acceso e un po’ «sui generis» lo bacchettasse bene bene, mettendo in chiaro quali erano i reali compiti che aspettavano a Firenze il Sovrano.

Vale a dire che Dio, secondo quella che era la visione cattolico liberale, lo aveva voluto in quell’importante incarico per farsi carico degli interessi di tutti, Lucca in testa, in modo equo e ragionevole. Che la derivazione divina del suo potere non lo esulava dal ritenersi assoluto, dunque sciolto da ogni vincolo col popolo che anzi doveva venir protetto e tutelato. Prosperi in quel frangente a suo nome ma di fatto a nome della Curia, dato che pubblicò ufficialmente quel sermone, si faceva garante delle richieste della collettività nell’interesse di tutti, Sovrano e augusta famiglia inclusa.

Non vogliamo pensare che ciò dovesse apparire agli occhi del Sovrano come una velata minaccia, ma certamente volle essere un modo per mettere bene in chiaro le cose.

Lucca, anche se dovette fare i conti con la nuova realtà regionale, che di lì a breve con l’Unità si sarebbe trasformata in realtà nazionale, non perse mai di vista la sua peculiarità di città che per mille anni aveva gestito in proprio il potere, sia politico che religioso.

È senz’altro un bell’esempio di sovranità limitata, se così la si può intendere, del potere nel nostro Paese da parte delle autorità centrali. Di fatto, se così mi posso esprimere, di un mancato centralismo.

Possiamo sicuramente obiettare che il cattolicesimo liberale uscì sconfitto dalle vicende quarantottesche e e poi unitarie. Però, come ricorda lo storico Pier Giorgio Camaiani,[2] e qui mi sento di dargli ragione, Lucca rimase sempre città bianca nella «rossa» Toscana. Una ragione ci sarà e le ragioni partono sempre da lontano. Forse addirittura dal mancato Concilio, poi tenutosi a Trento.


Note

1 Palmiro Filippo Bini, Sei miglia e contado, Maria Pacini Fazzi editore.

2 Pier Giorgio Camaiani, Lucca, città bianca.

(ottobre 2019)

Tag: Elena Pierotti, Lucca, Trento, Carlo V, Papa Paolo III Farnese, Leopoldo II di Asburgo Lorena, Gaeta, Viareggio, Concilio di Trento, centralismo in Italia, potere periferico in Italia.