Boris Godunov
Uno Zar ancor oggi «discusso», tra assolutismo e tentativi di riforma

Il 7 dicembre 2022, all’apertura della nuova stagione musicale, La Scala di Milano – il più importante teatro lirico del mondo – mette in scena il Boris Godunov, capolavoro del compositore russo Modest Petrovič Musorgskij (1839-1881). Una scelta «coraggiosa» secondo qualcuno, data la situazione politica odierna con la Russia, ma che testimonia invece che l’arte non si possa «ingabbiare» e sia libera da condizionamenti politici.

La rappresentazione è coronata dal successo. Uno dei punti di forza è rappresentato – oltre che dai cantanti e dall’orchestra, ovviamente! – da una sceneggiatura convincente: si nota una commistione tra elementi della Russia di fine Cinquecento (l’epoca in cui sono ambientate le vicende), elementi che richiamano l’Unione Sovietica ed elementi dei nostri giorni (la disinformazione, la censura delle notizie, la riscrittura a uso politico delle vicende del passato...), quasi a sottolineare il filo che porta dai primi Zar a oggi, una soluzione di continuità che vuole suggerire come il presente della Russia (ma potremmo dire, quello di ogni Nazione) sia indissolubilmente legato e condizionato a ciò che è avvenuto prima. Una considerazione che troppo spesso dimentichiamo!

Tema centrale dell’opera è la tirannide (in particolare quella russa), tema quanto mai attuale oggi. Ma chi era, in concreto, Boris Godunov?

Boris Fedorovič Godunov vide la luce verso il 1551. Discendeva dal capo tartaro Četa, che si era trasferito in Russia nel 1359, e passò la sua giovinezza alla Corte dello Zar Ivan il Temibile (conosciuto in Occidente come il Terribile), personaggio che non ha certo bisogno di presentazioni. Boris riuscì a conquistarne il favore fino a sposare, a 24 anni, Marija Grigor’evna Skuratova-Bel’skaja, figlia del favorito dello Zar. Morto Ivan nel 1584 (secondo una credenza popolare, avvelenato o strangolato proprio da Boris per aver cercato di violentarne la sorella Irina) e salito al trono l’inetto Fedor Ivanovič, Boris divenne una delle personalità più alte dello Stato.

La Russia era una Nazione particolare: lo Zar era il capo supremo, ma il suo potere era sempre insidiato dalla duma dei boiari, nobili discendenti da antichi principi beneficiari di un appannaggio, membri di famiglie illustri quanto quella dello Zar e che mal sopportavano di farsi governare. Sotto di loro c’erano funzionari, mercanti, operai, contadini, questi ultimi non servi ma gravati da imposte, un popolo povero e assoggettato, spremuto dallo Stato da un lato, dalla Chiesa Ortodossa dall’altro.

Trovandosi sotto un capo considerato mentalmente debole, incapace di governare e tutto dedito alla religione, i boiari si scontrarono in una lotta accanita per prendere il potere effettivo; da questa lotta uscì vincitore Boris, che si trovò a essere il vero capo dello Stato: un uomo scaltro, intelligente e ricco, probabilmente migliore del ritratto che su di lui venne fatto in seguito.

Agli occhi dei viaggiatori occidentali, la Russia era una terra semi-barbara: la religione ortodossa, che avrebbe potuto fungere da «collante», si riduceva in realtà a una fede assoggettata al rito, a una stretta osservanza delle cerimonie ma senza una convinzione profonda – lo stesso uomo poteva inchinarsi devotamente davanti a ogni icona e derubare il viandante a cui aveva offerto alloggio per la notte; le pratiche superstiziose erano diffuse ovunque, la vigilia di Pentecoste si ballava nei cimiteri e il Giovedì Santo si bruciava paglia per evocare gli spiriti. Uomini e donne delle classi abbienti erano panciuti e sformati dal grasso, dato che il cibo era vario e pesante, insaporito da aglio, cipolla e olio di canapuccia: tanta carne, piatti ripieni, pasticci, dolci, miele e zuccheri, uova; in contrario, l’esercizio fisico era assente e le botteghe venivano chiuse all’ora della digestione. In tutte le classi sociali era diffusa l’ubriachezza: l’uomo era colui che, per definizione, poteva bere come una spugna.

Gli uomini portavano la barba: era simbolo di potenza e posizione privilegiata, di legame a Dio che si immaginava barbuto. La donna era invece vista come un emissario del demonio: si copriva il viso con belletto bianco o rosso perché la vista della nudità della pelle era considerata un incitamento al peccato, e veniva confinata nel terem, un gineceo le cui finestre erano chiuse con vesciche di bue e davano comunque tutte su un cortile interno, solo il marito poteva entrare; i compiti della moglie erano curare il marito, pregare e interpretare i sogni, poi dedicarsi ai lavori domestici fino allo spossamento – erano proibite persino le chiacchiere tra le vicine di casa, e l’unico momento di riposo erano le feste, quando la moglie veniva «esibita» (non trovo un termine più adatto) dal marito agli ospiti. Sembra di leggere la condizione della donna in alcuni degli Stati Islamici più integralisti!

La vita quotidiana dei cittadini benestanti era minuziosamente regolata in ogni suo aspetto dal Domostroj (Governo della casa), un manuale diviso in 65 capitoli, diffusissimo e seguitissimo. In esso si insegnava che il capofamiglia equivaleva nel nucleo famigliare allo Zar nell’Impero: il padre aveva l’obbligo di castigare i figli, ma senza collera («Se ami tuo figlio, picchialo spesso; alla fine, lui sarà la tua gioia»), e anche la donna andava spesso «corretta» perché rimanesse malleabile (si descriveva come doveva essere denudata e poi frustata, infine consolata con parole affettuose per non compromettere i rapporti coniugali!). Il manuale insegnava anche come cucinare i vari piatti, preparare i liquori, lavare la biancheria, uccidere i maiali e metterne la carne sotto sale. Se un domestico era inviato a fare una commissione, arrivato alla casa dell’ospite doveva – nell’ordine – pulirsi i piedi, soffiarsi il naso con le dita, raschiarsi la gola, sputare per schiarirsi la voce e scandire: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello spirito Santo», poi aspettare che dall’interno rispondessero: «Amen». Nell’opera vi erano costanti riferimenti alla Bibbia: Dio – si sosteneva – amava la pulizia, la ricchezza, il lavoro, il risparmio («Quando si fa cuocere il pane, si lavano pure gli indumenti, in modo che la stufa venga accesa una volta sola e non vi sia spreco di legna»), ma soprattutto la giustizia sommaria, la sottomissione del servo al padrone, della moglie al marito, del figlio al padre. Questo era lo specchio della società russa, e forse spiega la noncuranza che molti Russi soprattutto delle classi abbienti sembrano avere oggi per il rispetto della vita (altrui).

Una volta avuto nelle proprie mani il potere effettivo dello Stato, Boris provvide a organizzare importanti riforme, che avrebbero avuto peso sulla storia futura della Russia: riordinò l’amministrazione e istituì il Patriarcato di Mosca staccandosi definitivamente da Costantinopoli; il Patriarca è tuttora di primaria importanza in campo religioso e anche politico, come dimostra il suo incondizionato appoggio all’attuale guerra di Putin contro l’Ucraina. Nelle questioni fondiarie, Boris si appoggiò ai medi proprietari contro i grandi latifondisti (la piccola nobiltà provinciale formava il nerbo dell’esercito russo); fece inoltre le prime misure dalle quali si sarebbe sviluppata la servitù della gleba, emanando infine un decreto col quale si impediva ai contadini di cambiare residenza e abbandonare il padrone di cui erano servi (in Europa, la servitù della gleba era finita da un pezzo e sopravviveva solo nei territori occupati dai Turchi e in alcune regioni dell’Europa Settentrionale).

Con le Nazioni estere cercò di mantenere rapporti pacifici e di evitare le guerre. Solo nel 1590 s’impegnò in un conflitto con la Svezia, riconquistando le terre perdute da Ivan il Terribile; per due volte dovette opporsi alle incursioni dei Tartari di Crimea; avanzò in Siberia e fondò Tobolsk.

Nel 1591 morì il principe ereditario Dimitrij, ferendosi incidentalmente con un coltello durante una crisi epilettica. Quando morì anche lo Zar, il governo fu assunto dal Patriarca Jov, che era una creatura di Boris. Il Patriarca, forse su ordine dello stesso Boris, convocò uno «Zemskij Sobor», cioè un’assemblea composta dai rappresentanti della Chiesa Ortodossa, dei boiari, delle alte cariche dello Stato, degli agricoltori, dei commercianti e degli artigiani, che votò l’elezione al trono di Boris il 17 febbraio 1598. Questi rifiutò dapprima la corona di Zar, ma la seconda volta la accettò, mandando subito in esilio alcuni dei nobili più ostili a lui, un provvedimento – per quei tempi – piuttosto mite. Aveva circa 47 anni.

Continuò la sua politica interna ed estera governando con notevole saggezza ed equilibrio: strinse relazioni pacifiche con gli altri Stati e proseguì nella conquista della Siberia, dove fondò la città di Tomsk. Nella politica finanziaria difese il libero commercio, concedendo privilegi agli Inglesi (già favoriti da Ivan il Terribile, che aveva vagheggiato un improbabile – per non dire impossibile – matrimonio con una nobildonna britannica) e alle città anseatiche; cercò di venire incontro ai bisogni del popolo, colpito negli anni 1601-1603 da continue e gravi carestie, con conseguenti stragi e saccheggi. Conscio della necessità per la Russia di avvicinarsi all’Occidente, mandò dei giovani a studiare all’estero; nessuno di loro fece ritorno, probabilmente perché avevano visto la diversità di vita tra l’Europa e la Russia, ma la via per trasformare una Nazione arretrata in uno Stato culturalmente europeo, almeno per le classi agiate, era stata aperta.

I nobili, per recuperare almeno una parte del potere che si vedevano sottrarre, dapprima diffusero la falsa voce che il principe Dimitrij non fosse morto accidentalmente ma fosse stato assassinato per ordine dello stesso Boris (accusa che fu dimostrata del tutto infondata solo in pieno XX secolo!), in seguito appoggiarono un avventuriero la cui identità è rimasta ignota e che si presentò come lo stesso Dimitrij, miracolosamente sfuggito agli sgherri di Boris grazie all’uccisione di un altro bambino scambiato per lui.

Grazie all’appoggio del Re Sigismondo III di Polonia, con un piccolo esercito il falso Dimitrij penetrò in Russia dove tutti lo accolsero in modo trionfale. Nel 1605 fece il suo ingresso a Mosca, dove poco prima era morto lo Zar Boris per cause sconosciute ma quasi certamente naturali. Il figlio di Boris venne trucidato nei suoi appartamenti poche settimane dopo, insieme alla madre, e il falso Dimitrij salì al trono.

Per molto tempo gli storici videro in Boris Godunov unicamente un malvagio, tanto che solo nel secolo scorso se ne è tentata la riabilitazione; nella poesia popolare russa, l’epoca e la vita dello Zar ebbero lunga eco, e la creazione artistica più famosa intorno a lui è il dramma Boris Godunov di Puškin, dal quale fu tratta l’opera di Musorgskij citata all’inizio di questo articolo.

La morte di Boris non portò la pace: da allora iniziò un periodo chiamato dei «torbidi» o anche «prima rivoluzione russa» perché caratterizzato da gravi conflitti di carattere sociale. I nobili decisero di sbarazzarsi del falso Dimitrij, che si stava rivelando un uomo troppo intelligente e abile per loro, organizzando una congiura e uccidendolo (1606); elessero Zar il principe Vasilij Šujskij, imparentato con l’antica casa regnante. La piccola nobiltà campagnola e le masse contadine gli si ribellarono, condotte prima da un certo Bolòtnikov poi, dopo la morte di questi, da un secondo falso Dimitrij, appoggiato anche dai Polacchi e dalla vedova del primo falso Dimitrij che dichiarò di riconoscere nel nuovo pretendente il proprio marito.

Lo Zar Šuiskij chiese aiuto alla Svezia, in risposta i Polacchi marciarono su Mosca, la occuparono, deposero Šuiskij ed elessero Zar Vladislao, figlio di Sigismondo III.

La guerra civile continuò, provocando il caos: gli Svedesi invadevano la zona di Novgorod, Sigismondo III intrigava per divenire lui stesso il nuovo Zar di Russia e intanto si impadroniva di Smolensk, bande di briganti infestavano ovunque il territorio e non diversamente agivano i Cosacchi, i Polacchi, i Tartari.

La piccola nobiltà riuscì a creare un esercito che, sotto la guida del principe Požàrskij, soffocò la rivolta delle bande contadine, raggiunse un’intesa coi Cosacchi e costrinse la guarnigione polacca di Mosca a capitolare. Fu allora deciso di scegliere uno Zar che fosse russo e non troppo compromesso nella guerra civile: la scelta cadde sul sedicenne Michail Fedorovič Romànov, imparentato con l’antica casa regnante e sostenitore dei diritti delle masse derelitte.

Era il 1613; la famiglia Romànov sarebbe stata al potere per oltre tre secoli, fino alla Rivoluzione Russa del 1917.

(febbraio 2023)

Tag: Simone Valtorta, Boris Godunov, Zar, Modest Petrovič Musorgskij, Russia, Cinquecento, tirannide, Boris Fedorovič Godunov, Ivan il Terribile, Marija Grigor’evna Skuratova-Bel’skaja, Fedor Ivanovič, boiari, Domostroj, Patriarcato di Mosca, guerra contro l’Ucraina, servitù della gleba, principe Dimitrij, Zemskij Sobor, Sigismondo III di Polonia, Puškin, periodo dei torbidi, prima rivoluzione russa, Vasilij Šujskij, principe Požàrskij, Michail Fedorovič Romànov, Rivoluzione Russa del 1917.