I Samurai
Una casta guerriera divenuta simbolo di un popolo dopo la sua soppressione

Un samurai

Il samurai Miyamoto Musashi

Il Samurai era un militare del Giappone Feudale, appartenente ad una delle due caste aristocratiche giapponesi, ossia alla casta dei guerrieri. I Samurai venivano anche indicati col termine «bushi», che voleva dire «unione di segni rappresentante la conoscenza». Quindi il Samurai era una sorta di illuminato. Oggi il termine viene usato per indicare la nobiltà guerriera. Il Samurai che non era più al servizio di un signore o «daimyo», perché deceduto o perché lo aveva allontanato, veniva detto «ronin», ossia «libero da vincoli», ma come termine dispregiativo. La classe dei Samurai era una classe colta che praticava sia le arti marziali che le arti zen. Durante l’era Tokugawa (1603-1868) i Samurai persero gradualmente la loro funzione militare e divennero «ronin», talvolta dediti al saccheggio. Verso il termine del periodo Edo[1], ossia prima della rivoluzione Meiji, erano divenuti essenzialmente burocrati a servizio dei «daimyo» o dello «Shogun»[2]. La spada serviva solo per i cerimoniali, allo scopo di sottolineare la loro appartenenza come casta. Solo col rinnovamento Meiji nel tardo XIX secolo furono aboliti come casta e sostituiti da un esercito di leva. Oggi è rimasto il «bushido» come codice d’onore, retaggio Samurai, simile ad una sorta di Summa di principi morali e di comportamento come nelle società occidentali il ruolo svolto dai principi etico-religiosi. Se scorriamo la storia giapponese ci accorgiamo che, seguendo la teoria confuciana in cui essi si riconoscevano, la società era divisa in quattro classi: i governanti filosofi o i governanti-guerrieri, nel caso del Giappone; i contadini, che erano i produttori primari di ricchezza; gli artigiani, che erano i produttori secondari; e i mercanti, la cui funzione era considerata praticamente parassitaria, ed erano quindi posti al fondo della scala sociale. Questa forte inclinazione verso il mondo agrario si adattava bene al modo di pensare della classe dei guerrieri, che, essendo nata come aristocrazia terriera, era più interessata alla produzione agricola ed alle imposte sulla terra che al commercio. Mentre fu fatto ben poco per far rispettare la divisione fra le tre classi inferiori, la separazione tra esse e la classe dei governanti-guerrieri era molto netta. La classe superiore era relativamente numerosa, consisteva infatti di circa il 7% della popolazione totale, ed era quindi di gran lunga più grande di quella di qualsiasi Paese Feudale Europeo. Essa è nota in Giappone con il nome generico di «bushi», «famiglie militari», ma in Occidente viene di solito usato il termine più specifico di Samurai, che significa «dipendenti». A questa classe superiore in teoria era vietato sposarsi con membri di classi inferiori. Con l’eccezione dei membri di alto rango legati alla Corte Feudale, non avevano quasi contatti con il resto della popolazione, perché erano riuniti in gran parte a Edo o nei castelli «daimyo». Si distinguevano dai membri delle classi inferiori per il diritto ad avere un cognome, per il vestito speciale e per le due spade che gli uomini portavano sempre con sé come segno distintivo della loro posizione.[3]

Dalla metà del XVII secolo al XIX secolo il Giappone godette di un ordine generale. Il periodo Tokugawa, dalla dinastia regnante, non fu un periodo di stagnazione per il Giappone, come comunemente si crede, ma di pace e di ordine con relativa crescita economica e sviluppo demografico. Forse nulla può dare un’idea di questa tranquillità politica attentamente salvaguardata meglio di un episodio che fu l’unico fatto politico che scosse emotivamente il Paese nel corso di questi duecento anni, e che divenne poi il tema favorito della letteratura e del teatro del Giappone moderno. Esso è noto come l’episodio dei «Quarantasette ronin» ed ebbe luogo tra il 1701 e il 1703. Accadde che un «daimyo» minore venisse così atrocemente insultato da un altro funzionario della Corte Shogunale da perdere il lume della ragione, per cui in un impeto di rabbia tirò fuori la spada e lo ferì. Ma tirar fuori la spada entro le mura di Edo era un crimine che veniva punito con la morte, e infatti le autorità shogun ordinarono al poveretto di suicidarsi e il suo dominio venne confiscato. I suoi dipendenti vennero così a perdere la loro posizione di Samurai con tutte le prerogative che il titolo comportava, e divennero «ronin», cioè dei Samurai senza padrone e senza più il posto che occupavano di norma nella società. Quarantasette di questi «ronin» giurarono di vendicare la morte del loro padrone, ma rendendosi conto che il Governo li stava sorvegliando perché si aspettava da loro proprio questa mossa, decisero come prima cosa di allontanare da sé ogni sospetto. Attesero il momento giusto per due anni, durante i quali il loro capo si dette a una vita sregolata per far capire che ormai da lui non avrebbe avuto nulla da temere. E a un certo punto, in una notte d’inverno piena di neve, i quarantasette si riunirono a Edo, irruppero nella casa del nemico del loro defunto padrone e tagliarono la testa a lui e a diversi dei suoi Samurai. Un atto del genere costituiva naturalmente una beffa nei confronti del «bakufu»,[4] ma questa lealtà verso il loro signore fece di essi degli eroi nazionali. Dopo molto discutere il Governo concesse loro finalmente di espiare il loro delitto con l’onorevole morte del «seppuku».[5]

Seppuku

Kunikazu Utagawa, Seppuku, periodo Edo (1850-1860)

Durante il secolo XVII ci fu un rapido sviluppo economico. La popolazione crebbe più o meno di pari passo, raddoppiandosi quasi alla fine del secolo e raggiungendo circa i 30 milioni, cifra molto superiore a quella di qualsiasi Paese Europeo dell’epoca. Ciò grazie soprattutto ai mercanti cittadini che presero l’iniziativa di espandere le attività commerciali. Gli alti tassi di alfabetismo, per non parlare dello sviluppo economico, indicano chiaramente che la società nel suo complesso era molto diversa da come era stata durante il Medioevo. Il cambiamento maggiore lo subirono i Samurai, che si trasformarono da guerrieri rurali e proprietari terrieri, in pacifici residenti dei centri urbani. Eccetto pochi dipendenti di alto rango, che avevano ancora proprietà feudali, la maggior parte dei Samurai era raccolta nella capitale dei «daimyo», infatti sorgevano delle città, che sarebbero poi diventate le città di media grandezza e le capitali prefettizie di oggi. I Samurai, che costituivano il 7% del totale della popolazione, formavano da soli una consistente popolazione urbana, che era raddoppiata grazie ad un numero simile di mercanti e altri cittadini comuni, che si raccoglievano nelle capitali e vi svolgevano i servizi necessari. Il Giappone, nonostante avesse un Governo di stampo feudale, divenne così un Paese altamente urbanizzato per quell’epoca, in quanto dal 10 al 15% della popolazione totale viveva nelle grosse città e nelle cittadine di media grandezza.

Un cambiamento ancora maggiore per i Samurai fu la trasformazione del loro ruolo di guerrieri feudali di professione a burocrati civili salariati e piccoli funzionari. Essi continuarono a tenere in gran conto le loro due spade e la tradizione guerriera, facendo della loro abilità nel maneggiare la spada e della concezione di fedeltà feudale una vera e propria mania, ma in pratica si guadagnavano da vivere maneggiando il pennello piuttosto che la spada. Dopo il 1638 non ebbero più occasione di esercitare le proprie abilità guerriere in battaglia, perché i fucili, che si diffusero dalla fine del secolo XVI, le resero inutili. Trovarono, invece, che l’educazione e l’arte dell’amministrazione civile potevano essere assai più utili del valore militare. Anche se molti di loro rimasero delle semplici guardie o fecero parte di una specie di forza di polizia di riserva, con il secolo XVIII era raro trovare un Samurai illetterato, e i domini più grandi fondarono delle scuole per i loro Samurai di studi avanzati dei testi confuciani scritti in cinese classico. La posizione della classe dei Samurai durante il periodo Tokugawa[6] cambiò profondamente anche in un altro aspetto. All’inizio del periodo la ricchezza della Nazione proveniva essenzialmente dall’agricoltura ed era in larga misura ripartita attraverso un oneroso sistema di tasse che i contadini pagavano allo «Shogun» e ai «daimyo», che a loro volta pagavano i loro Samurai. Con la crescita di un’economia commerciale la classe dei Samurai, che faceva affidamento sull’agricoltura, ricevette una proporzione minore delle ricchezze del Paese. E poiché gli standards dei consumi si stavano alzando e la vita cittadina diventava sempre più cara, sia i domini che i Samurai si trovarono profondamente indebitati verso i mercanti prestatori. Questo indebitamento della classe più elevata nei confronti della classe che in teoria era al fondo della scala sociale era irritante, ma la situazione non fu mai rettificata. La soluzione più ovvia – un sistema adeguato di tassazione sul commercio – non fu mai adottata. Furono tentati diversi altri sistemi, ma mai con grande successo. I domini crearono dei monopoli per spillare profitti da certi tipi di produzioni particolarmente lucrative, e il Governo Centrale impose delle tasse sulle associazioni monopolistiche di mercanti. Venivano emesse ripetutamente leggi suntuarie e i salari dei Samurai furono ridotti per aiutare le finanze dei domini. A volte i debiti furono cancellati e si fecero degli sforzi per fermare o capovolgere l’orologio del cambiamento economico.

Se da una parte i Samurai erano in declino, dall’altra i mercanti prosperavano. I «chonin», cioè i «cittadini», come erano chiamati, dovevano naturalmente mostrare assoluto rispetto ai Samurai e tollerare le regole piuttosto severe del Governo, ma vedevano aumentare costantemente le loro ricchezze, riuscivano a svolgere i loro affari interni nelle diverse unità, simili a villaggi, in cui erano divise le sezioni commerciali urbane, e crearono una vigorosa cultura nelle grandi città. Naturalmente tra le diverse categorie di cittadini c’erano grandi differenze di ricchezza, ma i più abbienti divennero molto colti. I ceti superiori, che generalmente lavoravano a contatto con il Governo come agenti commerciali, venivano spesso insigniti del titolo di semi-Samurai, potevano avere il nome di famiglia e qualche volta potevano perfino portare la spada. Nonostante la preponderanza numerica dei contadini e la supremazia politica della classe dei Samurai, furono i mercanti urbani a essere in vari modi i rappresentanti della cultura dei Tokugawa.

Il periodo Tokugawa fu denso di cambiamenti, seppure lenti; cambiamenti che prepararono il terreno alla fondazione economica, sociale e intellettuale del moderno Giappone. I Giapponesi ebbero la possibilità di lavorare sul proprio bagaglio culturale e di affinarlo, anche attraverso influssi culturali provenienti dalla Cina e, in grado minore, dall’Occidente. Nonostante il loro relativo isolamento dal resto del mondo e la stabilità del loro sistema politico feudale, l’economia e la società non rimasero immobili, ma mostrarono i segni di una continua crescita e di un costante fermento. Il «bafuku» e gran parte dei domini avevano seri problemi finanziari; le nette linee di separazione tra le classi andavano facendosi più indistinte, poiché i Samurai impoveriti sposavano ragazze provenienti da famiglie benestanti di mercanti per rimettere in sesto le loro finanze e i mercanti più ambiziosi e perfino i contadini riuscivano a trovare il modo di conquistare il titolo di Samurai. I Samurai intelligenti di più basse condizioni esprimevano esplicitamente il loro malcontento nei confronti di un sistema in cui gli incarichi governativi erano in larga misura determinati dalla nascita e c’erano poche possibilità di ottenerli per merito. A un livello superiore intellettualmente, idee sovversive nei confronti del regime Tokugawa e perfino del sistema feudale nel suo complesso si erano fatte strada attraverso gli studi storici e gli influssi culturali provenienti dall’estero ed erano covate da pensatori coraggiosi.

Allo scopo di convincere il Governo Giapponese ad aprire i porti alle navi straniere, Americani, Inglesi e Russi inviarono in Giappone nella prima metà dell’Ottocento ripetute spedizioni, e gli Olandesi fecero pressioni presso i Tokugawa affinché accogliessero tali richieste. Ma Edo rimase ferma nella sua vecchia politica. Il Governo Americano decise allora di costringere i Giapponesi con la forza. Nel luglio del 1853 una grossa squadra navale agli ordini del Commodoro Matthew Perry entrava in quella che oggi è la baia di Tokyo. Dopo aver consegnato ai Giapponesi una lettera del Presidente degli Stati Uniti in cui veniva chiesta l’instaurazione di rapporti commerciali, Perry si ritirò a svernare a Okinawa, dicendo loro che ai primi dell’anno seguente sarebbe tornato a prendere la risposta.

Quando nel febbraio del 1854 Perry comparve di nuovo nella baia di Tokyo per sentire la risposta, le autorità di Edo[7] si trovarono davvero di fronte a un grosso dilemma. L’Imperatore e la stragrande maggioranza del Paese erano per una politica che Edo si sentiva del tutto incapace di portare avanti. E sotto la minaccia dei cannoni americani esso non ebbe altra scelta che firmare con gli Stati Uniti un trattato in base al quale venivano aperti alle navi americane due porti e veniva autorizzato con gli USA un certo volume di scambi sia pure rigorosamente regolati. Una volta che la porta fu aperta, sia pure di uno spiraglio, non fu più possibile chiuderla. La Nazione era scossa per l’umiliazione che Edo aveva subito. Dei Samurai irruenti si dichiararono «ronin», cioè «Samurai senza padrone» e attaccarono gli Occidentali. In molti Samurai si radunarono intorno alla Corte dell’Imperatore, a Kyoto, vedendo nell’Imperatore un simbolo che avrebbe potuto unire l’opposizione alla politica dei Tokugawa e crearono disordini al grido del doppio slogan di «onore all’Imperatore» e «fuori i barbari». Ma questa rivolta a breve cessò. In alcuni domini, i Samurai più estremisti presero il controllo delle amministrazioni locali e cercarono di usare il potere dei loro domini per influenzare la politica nazionale. Dapprima cercarono di formulare vari progetti per favorire un avvicinamento della Corte Imperiale e del «bakufu», sperando in una maggiore unità nazionale, ma poi cominciarono a dimostrarsi apertamente in opposizione alla dinastia regnante Tokugawa. Il «bakufu» cercò disperatamente, ma tardi, di rafforzarsi, inviando missioni all’estero, introducendo nuove armi dall’Occidente e cercando di riformare la sua posizione amministrativa ed economica. Le forze estremiste che si crearono nel 1863 furono cacciate da Kyoto in quella che fu la prima vera battaglia in Giappone in più di due secoli, e l’anno dopo il «bakufu» ebbe ancora la forza di mandare un esercito ad imporre a Chochu[8] di sottomettersi temporaneamente alla sua politica. Ma una successiva seconda spedizione fallì miseramente. Il «bakufu» dei Tokugawa, che solo due decenni prima sembrava così solido, era diventato così debole per l’età e così disperatamente anacronistico sia amministrativamente che ideologicamente durante due secoli di lente trasformazioni, che bastarono pochi oppositori a farlo crollare improvvisamente e in modo definitivo. Non fu facile creare una nuova amministrazione efficiente sulle rovine dello screditato «bakufu», che era fallito. In teoria il movimento di Restaurazione che si chiamò Meiji, ossia «governo illuminato», cercò di restaurare l’antico Governo Imperiale, ma in pratica non accadde nulla di tutto questo. Mostrando il più profondo rispetto per l’Imperatore, il gruppo di giovani Samurai e di nobili di Corte che erano al potere in pratica si mise a governare collegialmente, come era diventato costume in Giappone, e prese a modello dell’innovazione non l’antico Giappone ma l’Occidente contemporaneo. Secondo lo stile giapponese, gli incarichi principali del nuovo Governo furono affidati all’alta nobiltà di Corte e ai «daimyo» dei domini che avevano cooperato nel rovesciamento dei Tokugawa, ma queste furono solo persone di facciata. Sotto di loro c’erano i veri capi – i Samurai e i nobili di Corte più giovani, coloro che sostanzialmente avevano diretto la rivoluzione. La figura principale tra di essi, fino alla morte avvenuta nel 1883, fu il nobile di Corte Iwakura Tomomi, che, a 43 anni, era il più vecchio del gruppo. Gli altri erano soprattutto giovani Samurai, tra cui i più importanti furono Kido Takayoshi del Choshu, Okubo Toshimiche e Saigo Takamori del Satsuma. La maggior parte di questi uomini aveva incarichi di cancelliere e di viceministro nei nuovi Ministeri che furono creati, ricadendo nella vecchia tecnica giapponese della direzione collegiale e del consenso, qualsiasi fosse la struttura formale di Governo. I nuovi capi, giovani Samurai, cominciarono a persuadere i «daimyo» a ridare simbolicamente i loro domini all’Imperatore, il 5 marzo 1869, e poi a riceverli indietro come terre di cui sarebbero stati considerati governatori, con uno stipendio che corrispondeva a un decimo delle loro entrate di una volta. Il nuovo sistema venne accettato con la forza. Abolire i domini che erano stati per lo più salde unità politiche fu un’impresa di sorprendente facilità, ma privare i Samurai dei loro privilegi feudali fu molto più difficile e pericoloso. I Samurai formavano quell’ampio strato della società che aveva il monopolio del potere politico e militare e godevano del privilegio di stipendi ereditari, anche se spesso miseri. Nel 1871 il Governo tolse tutte le limitazioni di classe sui ruoli sociali e stabilì l’uguaglianza di tutti, compresi i fuori casta, che costituivano il 2% della popolazione. Poi, all’inizio del 1873, rese il servizio militare obbligatorio per tutti, mettendo in questo modo fine al concetto di una classe militare privilegiata, e nel contesto giapponese questa fu forse la riforma più rivoluzionaria. La perdita della posizione sociale di guerrieri-funzionari aristocratici si accompagnò per i Samurai alla perdita della loro posizione economica di privilegio. Per quanto in gran parte inadeguati, i loro stipendi erano stati ridotti della metà dalla riforma del 1869, ed infine nel 1876 il Governo costrinse i Samurai che non l’avevano ancora fatto ad accettare quale corrispettivo di quel che loro rimaneva una liquidazione di valore ancora inferiore. Una completa eliminazione dell’aristocrazia feudale sarebbe potuta venire a costare meno se un po’ dilazionata, ma questo generoso trattamento ad essa fatto è forse una delle ragioni per cui il Giappone moderno non ha dovuto fare i conti come la Francia con l’Antico Regime. Data la grande esperienza nella direzione politica e l’elevato livello d’istruzione, uomini di origine Samurai monopolizzarono sostanzialmente tutti i posti direttivi del nuovo Governo, mentre altri fecero fortuna negli affari o nel campo intellettuale. Ma la maggior parte dei Samurai non aveva né il talento né la flessibilità di adattarsi alla nuova situazione, e cadde nella miseria più oscura. Alcuni dei Samurai più conservatori sfidarono il Governo nel primo decennio della sua vita. Significativamente, questi disordini ebbero luogo in gran parte negli stessi domini occidentali da cui provenivano i nuovi capi. Forse nelle zone in cui le umili origini dei capi erano ancora ben presenti, la loro autorità era meno presa in considerazione. La più grave e l’ultima rivolta dei Samurai avvenne nel 1877 nel Satsuma, dove circa 40.000 conservatori scontenti si radunarono intorno a Saigo, che si era ritirato dal Governo, sdegnato, quattro anni prima. Con grande spargimento di sangue, il nuovo esercito di coscritti riuscì a sconfiggere i ribelli, dimostrando ai conservatori che il vecchio ordine era ormai finito.[9] Durante la modernizzazione e lo sviluppo economico del Paese, il Giappone vide nei Samurai il grosso dei nuovi uomini di affari. Avvantaggiati dal loro maggiore grado di istruzione e dai legami con i Samurai dell’apparato governativo, entrarono in massa nel mondo degli affari. Alcuni disponevano anche dell’esperienza acquisita nel trattare gli affari dei loro «daimyo», come nel caso di Iwasaki Yataro del Tosa, che partendo dal settore marittimo costruì la sua ditta di Mitsubishi seconda solo a quella di Mitsui. La storia della grande trasformazione del Giappone da un sistema di Governo Feudale a un Governo Centralizzato Moderno, che ha luogo nella seconda metà del secolo XIX, di solito viene raccontata dal punto di vista del piccolo gruppo di capi di alto livello che la guidarono. Tuttavia la storia può essere vista anche da un altro lato. I passi coraggiosi ma pragmatici che i capi fecero per unificare il Paese, riorganizzare il sistema politico e sociale e modernizzare l’economia furono naturalmente necessari al successo dell’impresa, così come la loro capacità di lavorare insieme e di non cercare potere personale. Ma nulla di ciò che fu fatto avrebbe avuto un esito così favorevole se gli sforzi della classe dirigente non avessero trovato il vigoroso appoggio di tutta la popolazione giapponese che contribuì al «miracolo» Meiji. Un gruppo eterogeneo di imprenditori arditi, provenienti in genere dalla classe dei Samurai, ma anche da quella dei contadini e dei mercanti urbani, approfittò delle riforme di Matsukata[10] per rendere l’industria giapponese produttiva e competitiva a livello internazionale. Non c’è da meravigliarsi che i cittadini che ebbero un ruolo tanto attivo nell’economia del Paese non cominciassero a chiedere di avere un ruolo anche nella sua vita politica. Nel Giappone Feudale non erano mai esistiti concetti come quelli di democrazia e di diritti politici, ma le autonomie del sistema feudale avevano di fatto permesso a tutti i gruppi di avere dei diritti all’interno del loro specifico campo di attività. In particolare gli uomini più ambiziosi della grande classe dei Samurai, che avevano goduto di prestigio nella politica locale e che erano maggiormente suscettibili ai rapidi cambiamenti e al flusso di idee che arrivavano dall’Occidente, cominciarono presto a voler partecipare al Governo. Tutti erano insoddisfatti. Dunque l’affermazione del «Giuramento dei Cinque Articoli»,[11] che diceva che sarebbero state istituite delle assemblee deliberative e tutte le questioni sarebbero state decise attraverso discussioni pubbliche, era rivolta essenzialmente dai capi ai Samurai. Non si trattava di una promessa di democrazia, di cui essi sapevano ben poco al tempo, ma di un tentativo di rassicurare la classe dei Samurai che non sarebbe stata esclusa dal nuovo regime. Il Governo continuò a promettere di creare un’assemblea e di scrivere una Costituzione, ma nel frattempo alcuni dei Samurai cercarono di prendere in mano la situazione. Nel 1873 il gruppo dirigente si era spaccato sulla proposta di inviare una spedizione in Corea, apparentemente con il pretesto di punirla per l’atteggiamento offensivo che aveva tenuto verso il nuovo Governo Giapponese, ma in pratica per cercare di risollevare il morale alla classe dei Samurai in crisi con una campagna militare. I moderati, che erano stati da poco in Occidente e ne avevano constatato la terribile forza, respinsero la proposta, ma alcuni dei membri principali del gruppo perdente si ritirarono dal Governo. In particolare ci si organizzò per sostenere la causa del miglioramento delle condizioni dei Samurai, oltre che per la partecipazione popolare al Governo. Quando la Costituzione venne promulgata, nel 1889, fu approvata una Camera dei Rappresentanti, con un elettorato limitato ai maschi adulti che pagavano almeno 15 yen di imposte dirette e con poteri limitati all’1,26% della popolazione, che rappresentava circa il 6% delle famiglie giapponesi – circa la stessa proporzione della popolazione della classe dei Samurai, ma composta in gran parte da contadini proprietari terrieri. La Camera dei Pari, ovviamente molto conservatrice, godeva degli stessi poteri della Camera dei Rappresentanti e ne limitava ulteriormente le funzioni. Durante la Prima Guerra Mondiale la classe dei contadini che fu coinvolta nel servizio militare, nonostante che per secoli fosse rimasta estranea ai valori della spada, si sentì partecipe di quei valori come se le fossero da sempre appartenuti e nutrì particolare orgoglio verso le tradizioni guerriere del proprio Paese.


Note

1 Edo era la capitale del Regno in epoca Tokugawa.

2 Comandante dell’esercito.

3 Confronta Edwin O. Reichchauer, Storia del Giappone, Editore Bompiani 1998, pagina 67.

4 Sinonimo di Shogunato, il governo dei Samurai.

5 Termine che indica il suicidio del Samurai.

6 Shogunato che va dal 1603 al 1868, quando il Giappone modernizzò il proprio sistema politico, abbandonando le vestigia feudali.

7 Capitale storica del Giappone.

8 Dominio feudale del Giappone nel periodo Tokugawa.

9 Confronta Edwin O. Reichchauer, Storia del Giappone, Editore Bompiani 1998, pagine 92-96.

10 Primo Ministro Giapponese del periodo che dette seguito alle riforme.

11 Giuramento previsto ad articoli che davano una struttura di stampo occidentale al sistema politico giapponese, preparato dopo il 1868 da un gruppo di oligarchi perché l’Imperatore al momento era troppo giovane per occuparsi della sua stesura.

(novembre 2015)

Tag: Elena Pierotti, Giappone, samurai, storia del Giappone, bushi, daimyo, ronin, Tokugawa, Shogun, Meiji, bushido, bakufu, seppuku, Edo, Matthew Perry, Iwakura Tomomi, Kido Takayoshi, Okubo Toshimiche, Saigo Takamori, Iwasaki Yataro, Matsukata, Giuramento dei Cinque Articoli, suicidio del Samurai.