La Rivoluzione Culturale Cinese
Venne considerata negli anni Settanta uno spontaneo movimento di massa, presentava connotati profondamente diversi in maniera drammatica

Per un certo periodo di tempo la Rivoluzione Culturale, o per meglio dire la «rivoluzione totale per l’instaurazione della cultura della classe lavoratrice» rappresentò un mito, il tentativo di costruire un comunismo «diverso» e non burocratico. Venne invece presto dimenticata per i suoi retroscena e le sue componenti che non potevano conciliarsi con quelle di una Sinistra «rivoluzionaria».

Il risultato di tale operazione fu la grande carestia degli anni 1959-1961, l’impoverimento della società, e la produzione di massa di beni strumentali inservibili. Massimo responsabile dell’iniziativa fu il Presidente Mao, il Timoniere, che venne contestato da quella parte più moderata del partito che sosteneva la necessità di un maggiore equilibrio fra scelte economiche e politiche. Negli anni successivi prevalse una maggiore moderazione nel campo economico, concedendo ai contadini piccoli margini di libertà. Tale politica provocò malcontento fra i fedelissimi di Mao, che aveva dovuto abbandonare la carica di Presidente della Repubblica, e a metà degli anni Sessanta si scatenava un grande scontro politico che attraverso il ricorso ai giovani e successivamente ai militari riportò Mao nell’indiscussa posizione di leader.

Egualitarismo e sottomissione dell’individuo alla collettività e allo Stato, oltre che il disprezzo della cultura, furono le principali caratteristiche della Rivoluzione Culturale. Uno degli obiettivi del nuovo movimento era la lotta ai burocrati, ma si deve ricordare che Peng Te Huai e Liu Shao Chi, principali vittime degli estremisti, non appartenevano a tale categoria ma furono esponenti di spicco, insieme a Deng Tsiao Ping, della rivoluzione negli anni precedenti alla istituzione della repubblica popolare. Secondo Lin Piao, giustamente considerato il massimo esponente del movimento politico di quegli anni, «la grande Rivoluzione Culturale proletaria mira ad eliminare l’ideologia borghese, a radicare l’ideologia proletaria, a rimodellare l’anima del popolo, ad estirpare le radici del revisionismo, a consolidare e sviluppare il socialismo»[1]. Ma il maggiore impegno del regime era orientato verso la creazione di una società disciplinata. Secondo l’ex-Cancelliere tedesco Helmut Schmidt la vita sociale e politica cinese risultava essenzialmente anonima, e al termine della sua visita in quel Paese concluse che «[oltre alle rappresentazioni teatrali] molte altre cose non mi sono piaciute: i rapporti interumani fra le diecimila persone che vivevano nella comune popolare Stella Rossa, gli altoparlanti che per tutto il giorno frastornavano con i loro slogan politici i passanti nelle vie principali di Urumqi, l’uniformità dell’abbigliamento; e mi ha letteralmente scandalizzato la sfrontatezza con cui l’individualità veniva soffocata»[2].

Vittime principali della grande mobilitazione furono nuovamente come negli anni Cinquanta gli intellettuali; scuole, università, centri culturali e librerie vennero chiuse e gran parte del personale docente e degli studenti venne inviato al lavoro agricolo nelle province più remote. Secondo la testimonianza del diplomatico francese Alain Peyrefitte i corsi di indottrinamento e le discussioni sui luoghi di lavoro che dovevano sostituire l’insegnamento «neutro» costituirono la ripetizione meccanica e acritica di slogan politici e la condanna dei comportamenti ritenuti «asociali» o in contrasto con le direttive superiori. Per i capi della nuova rivoluzione le discipline scientifiche e le capacità professionali dell’individuo non avevano alcuna importanza né dal punto di vista speculativo né da quello pratico o economico; così secondo «Radio Pechino» l’agricoltura necessitava più di uomini indottrinati che di esperti. «I raccolti abbondanti» sosteneva l’emittente «non vengono né dal cielo né dalla terra, ma dal pensiero di Mao Tse Tung»[3]. Tale concezione ebbe effetti fortemente negativi sull’economia del Paese, e favorì una serie di altri fenomeni come la distruzione del patrimonio storico-artistico e la chiusura totale verso qualsiasi influsso culturale straniero.

Una descrizione dettagliata della rivoluzione culturale, dell’attività del movimento delle «Guardie Rosse», del loro puritanesimo e della loro xenofobia, è stata lasciata dal giornalista inglese Paul Johnson: «Le bande di scalmanati che infestavano le strade afferravano le ragazze con i capelli lunghi, avvolti in trecce, e li tagliavano; ai ragazzi venivano strappati i pantaloni di foggia straniera. Ai parrucchieri venne intimato di non tagliare i capelli a coda d’anatra, ai ristoranti di semplificare i menù, ai negozi di non vendere più cosmetici, vestiti con gonne a spacco, occhiali da sole, pellicce ed altri articoli di lusso. Le insegne al neon vennero spaccate. Nelle strade bruciavano grandi falò di merci proibite... Le Guardie Rosse fecero chiudere sale da the, caffè, teatri indipendenti e tutti i ristoranti privati; interruppero l’attività di suonatori ambulanti, acrobati e attori girovaghi; vietarono matrimoni e funerali, le passeggiate mano nella mano, e il gioco degli aquiloni». Tale situazione è confermata in un comunicato del Quartiere Generale delle Guardie Rosse, in base al quale venivano proibiti esplicitamente gli articoli da regalo, il commercio di fiori e pesci rossi, le merci straniere, l’affitto di libri, l’uso delle bare, e gli studi medici privati; venne combattuta in altri termini «la decadenza e l’oscenità che avvelenano e corrompono le menti» come affermò Chiang Ching, la moglie di Mao, che per un certo periodo di tempo volle dirigere la vita culturale del Paese. Un altro elemento emergeva dal grande movimento di massa, la tendenza ad etichettare gli esseri umani in base alla loro provenienza, i figli di uomini sospetti e di elementi contro-rivoluzionari non potevano essere mai messi alla pari con i figli del popolo. Le testimonianze di efferatezze compiute in quel periodo sono numerose; molti accusati erano costretti a percorrere le strade del Paese con cartelli sui quali erano scritte frasi tipo «elemento contro-rivoluzionario», «rifiuto umano», «figlio di cane», venivano percossi e in alcuni casi ammazzati, oppure inviati al lavoro forzato. Secondo l’agenzia «France Press», quattrocentomila furono le persone uccise deliberatamente o in seguito ai maltrattamenti subiti, ma secondo altri autori le vittime furono circa un milione.

Abbastanza interessante è notare come sostiene Jean-Louis Margolin che «l’immensa energia di quelle decine di milioni di giovani fu puramente distruttrice: quando per brevi periodi, è vero, riuscirono a impadronirsi del potere non se ne fecero assolutamente niente, e non modificarono in alcun punto di rilievo i principi base del totalitarismo imperante».

Molte delle vicende politiche del Paese e della dirigenza politica risentivano delle ambizioni personali di Mao come messo in luce recentemente dalla grande biografia scritta dal medico personale del «Grande Timoniere», e una conferma la si può trovare nella involuzione degli scritti di Mao che se nel periodo di Yenan insisteva sulla umiltà del militante comunista e sul suo legame con il resto della popolazione, negli scritti successivi prevale il senso di subordinazione dell’individuo alla collettività e allo Stato. Come molte altre dittature del nostro secolo le restrizioni politiche non colpivano solo la società ma anche lo stesso partito al potere che cessò nel corso degli anni di essere luogo di dibattito politico.

Verso l’autunno del ’67 il movimento delle Guardie Rosse si divise in diverse formazioni, portando il Paese sull’orlo del caos e della guerra civile; la dirigenza politica ritenne allora di utilizzare le forze armate per riportare l’ordine nel Paese, e lo stesso Mao giustificò l’azione militare ricordando che «i soldati non sono altro che operai e contadini che indossano l’uniforme». Lin Piao, ritenuto il numero due del regime, venne accusato di complotto e trovato morto in un misterioso incidente aereo, mentre molti dei giovani militanti che non intendevano ubbidire alle nuove direttive vennero inviati, come in precedenza le loro vittime, al lavoro agricolo nelle province interne del Paese.

Progressivamente l’ordine venne ristabilito nel Paese.


Note

1 Mao Tse Tung, dossier Mondadori, Milano, 1971, pagina 153.

2 H. Schmidt, Uomini al potere, Milano, 1987, pagine 272-273.

3 Mao Tse Tung, dossier Mondadori, Milano, 1971, pagina 141.

(anno 2003)

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