Le tradizioni natalizie e quel che ci raccontano
Forse non ci pensiamo, ma la maggior parte delle tradizioni natalizie vengono da un passato remotissimo, e ci presentano una realtà dove la vita era dura e precaria

Fra poche settimane sarà Natale, e sarà difficile che qualcuno se ne scordi. Già da tempo nelle strade si sono accese le luminarie, i negozi si sono addobbati a festa, sui balconi sono apparsi i primi alberi carichi di palle colorate, dai megafoni escono le note delle nenie natalizie e figuranti vestiti da Babbo Natale si aggirano scampanellando per le strade, mentre la gente affolla i negozi che espongono regali. Insomma, un misto di consumismo e «melassa» (e, ahimè, più del primo che della seconda). Eppure, molte di queste tradizioni vengono realmente dalla notte dei tempi, anzi, alcune sono persino più antiche del Natale stesso, rimandano ai giorni e ai riti del paganesimo, e ci raccontano di quando la vita era una lotta continua e si cercava in tutti i modi d’ingraziarsi le divinità della terra e del cielo perché rendessero propizio l’anno che stava per iniziare, allontanando la malattia, facendo fruttificare le messi e figliare gli animali d’allevamento. Altro che «melassa»!

Da epoche remote, da prima della nascita di Gesù, in dicembre venivano indetti particolari festeggiamenti per celebrare l’inverno e propiziarsi il ritorno della primavera. Oggi, per esempio, è d’uso in tutti i Paesi del mondo usare rami d’abete e d’agrifoglio per l’addobbo della casa; quella che potrebbe sembrare un’usanza moderna è in realtà remotissima, perché i sempreverde facevano parte della tradizione di fine anno degli antichi Romani: pare che Tazio, Re dei Sabini, durante i Saturnali (festeggiamenti in onore del dio Saturno) donasse agli amici rami d’alloro e d’olivo raccolti nel bosco della dea della salute Straena, da cui è derivato il termine «strenna» («regalo»). Si credeva infatti che i sempreverde possedessero poteri magici, perché rimangono verdi anche quando tutte le altre piante sono spoglie (non è che non perdano le foglie, ma lo fanno gradualmente lungo tutto il corso dell’anno); l’agrifoglio, poi, era tenuto in particolare considerazione poiché dà frutti, le bacche, in inverno.

Queste credenze riguardo ai sempreverde rimasero radicate in tutta Europa, soprattutto in Germania, dove sembra che abbia avuto avvio l’usanza di utilizzarli per decorare le case. Persino in Australia, dove il Natale viene celebrato sotto il caldo sole estivo, gli abitanti sono soliti addobbare le loro abitazioni con rami di sempreverde; mentre in India, dove il Natale è considerato la festa dell’amicizia, al posto dei sempreverde, i Cristiani addobbano a Natale gli alberi di mango o di banano, poi si scambiano l’un l’altro dolci, frutta e fiori.

Anche il tradizionale abete frondoso, ricco di palline colorate e stelline appese ai rami, con luci e festoni dorati e argentati, ha tradizioni antichissime e pre-cristiane. Esso è «nato» nell’antico Egitto: l’albero era costituito da una piccola piramide di legno sovrastata dalla «ruota solare» e sulle facce di questa si infilavano bastoncini di legno che venivano incendiati; se il fuoco raggiungeva la piramide, l’anno sarebbe stato fortunato. Un viaggiatore portò questa usanza in Europa e i Paesi Nordici l’adottarono per celebrare il solstizio d’inverno; sembra sia stato poi Martin Lutero a sostituire il simulacro egiziano con l’abete, perché ricordava la forma della piramide: i bastoncini di legno diventarono candeline simbolo di vita e di fede. Già i druidi, cioè gli antichi sacerdoti celti, avevano comunque l’usanza di ornare gli abeti nelle feste invernali: notando che rimanevano sempre verdi anche durante la stagione più fredda, li consideravano simbolo di una lunga vita.

Abete e Basilica

Abete addobbato dinanzi alla Basilica di Desio (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2018

Secondo altre leggende, l’usanza dell’abete natalizio risalirebbe a San Bonifacio, evangelizzatore della Germania, vissuto fra il VII e l’VIII secolo: notando alcune persone radunate attorno a una quercia per offrire un sacrificio umano al dio Odino (principe degli dèi germanici e personificato proprio nella quercia), parlò loro dell’amore di Dio, tanto che alla fine la vittima – già legata all’albero – fu lasciata libera; allora San Bonifacio tagliò il tronco della quercia e al suo posto crebbe un abete; ciò successe la vigilia di Natale, e il Santo spiegò che il nuovo albero simboleggiava la vita e costituiva un segno divino, addobbandolo poi con delle candeline accese per simboleggiare la luce che brilla nelle tenebre. Altri invece raccontano che, in una notte d’inverno, un boscaiolo rimase incantato dal meraviglioso spettacolo delle stelle che brillavano attraverso i rami di un abete; per spiegare alla moglie lo splendore che aveva visto, il boscaiolo portò a casa un piccolo abete e lo adornò con candeline. Sia come sia, la diffusione dell’albero addobbato si ebbe in tutto il mondo nel XIX secolo per merito del principe tedesco Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, marito della Regina Vittoria, che preparò per la famiglia reale il primo albero di Natale. In Italia l’abete veniva addobbato con noci, mele, pigne, arance e mandarini che profumavano tutta la casa.

«Il messaggio dell’albero di Natale» ha scritto San Giovanni Paolo II «è che la vita resta “sempre verde” se si fa dono; non tanto di cose materiali, ma di se stessi: nell’amicizia e nell’affetto sincero, nell’aiuto fraterno e nel perdono, nel tempo condiviso e nell’ascolto reciproco».

Ancora seguita in alcuni Paesi è la tradizione del «ceppo di Natale», la cui accensione è segno di ospitalità e accoglienza per Gesù, che quando nacque non aveva neppure un piccolo fuoco per scaldarsi: in Inghilterra gli uomini si recano nei boschi alla ricerca di un ceppo da bruciare nel giorno della vigilia; al loro ritorno, tutti cantano festosi; conservando un pezzo di quel ceppo per il Natale seguente, l’anno nuovo sarà particolarmente fortunato. In Italia, nei villaggi montani, il ceppo viene acceso dal capofamiglia dopo averlo cosparso con un po’ di vino rosso, simbolo del sangue di Gesù; in precedenza, i bambini di casa hanno provveduto a lucidare la catena del camino trascinandola su e giù per le vie del paese. Anche in Toscana e in Umbria viene acceso il ciocco di Natale, costituito da un piccolo intreccio di tronchi sovrapposti a formare una piramide che viene poi arricchita con candele. Nelle Marche e negli Abruzzi si fa ardere un grosso ceppo d’olivo fino a gennaio; le ceneri verranno poi sparse nei campi e nei vigneti come augurio di buon raccolto. Oggi, sostituiti i caminetti nelle case con i termosifoni (ma negli ultimi tempi il camino, magari piccolo piccolo, sta tornando in auge), del ceppo rimane un dolce natalizio particolare: il tronchetto di cioccolata.

Altre usanze e credenze legate al Natale vedono invece come protagonisti gli animali: in Austria i contadini, la mattina di Natale, aspergono con acqua benedetta le loro case e i loro animali e invocano San Tommaso affinché li conservi in buona salute. In Svizzera, invece, secondo una leggenda, pure gli animali partecipano al Natale, avendo solo per quella notte la facoltà di parlare e dire: «Buon Natale, signor contadino!». Anche in Norvegia la tradizione vuole che ci si ricordi degli animali: sulle bianche distese innevate, nel giorno della vigilia, i bambini corrono per i campi sventagliando manciate di grano, così le bestie avranno di che sfamarsi almeno a Natale. Tutti questi riti potrebbero essere la rilettura in chiave cristiana di riti e usanze pagani di cui ora si è persa memoria.

Un po’ a tutte le regioni d’Italia appartiene l’usanza che cantori in erba vadano di porta in porta a rievocare con cori e canti la gioiosa partecipazione dei pastori davanti a Gesù, ricevendo in cambio dolcetti e qualche monetina. Gli zampognari sono invece pastori veri, che scendono dai monti della Ciociaria, dell’Abruzzo, della Calabria, percorrono le vie affollate di gente innalzando il dolce suono delle zampogne e delle ciaramelle, simile a una ninna-nanna, e rivolgendo ai passanti l’augurio: «Pace e salute a voi»; sono sempre vestiti con pantaloni corti, giacca di fustagno, ampio mantello oppure pelliccione, berretto e calza con fiocco, e ai piedi le ciocie, un tipico calzare; le zampogne sono fatte di pive di legno di ulivo, innestate in un sacco di pelle che serve da serbatoio d’aria. È poi tornata l’usanza di far recitare a bambini e ragazzi dei sermoni, cioè delle poesie natalizie, davanti al presepio.

Cantare a Natale è comunque un’usanza comune a molti Paesi: in Ungheria, per esempio, la vigilia di Natale, processioni di cantori si avviano verso la chiesa guidate da tre ragazze vestite da Re Magi e con cappelli vescovili in testa; mentre in Grecia, sempre nel giorno della vigilia, i giovani vanno di casa in casa cantando carole e calende (canzoni religiose) con l’accompagnamento di rullo di tamburi e tintinnio di triangoli. Queste tradizioni, di matrice inequivocabilmente cristiana, mostrano come uno dei messaggi del Natale sia l’invito a stare insieme, in famiglia, in pace e in serenità!

Cristiana è pure l’usanza di preparare il presepio, ovvero una caratteristica rappresentazione della nascita di Gesù, a cui ho dedicato un opportuno articolo su questo stesso sito, al quale rimando. Mentre quella di scambiarsi i regali è molto antica e pare risalire addirittura agli antichi Egizi, che donavano scarabei in pietre dure con una frase augurale incisa sulla pancia; anche presso i Romani si usava scambiare doni durante le feste in onore del dio Saturno, celebrate nell’ultimo mese dell’anno. Oggi il regalo ricorda i doni dei Magi e quelli – certo più modesti, ma altrettanto importanti – che dovettero portare i pastori al Bambin Gesù, come ad esempio lana per coprirsi, latte, cibo per la madre; il valore di un dono non sta infatti nel suo costo, ma nel modo di porgerlo e nell’affetto che esprime; il dono più grande, comunque, è quello che ha fatto Gesù agli uomini: Se Stesso! Nel Natale è sempre presente l’ombra minacciosa della Croce, ma anche la fulgida luce della Resurrezione!

Molti sono i benefici personaggi che la notte di Natale – o i giorni precedenti o successivi – portano i doni in tutti i Paesi del mondo. Solo in Italia ne abbiamo più d’uno: i Morti sono i tradizionali benefattori in Italia Meridionale; il 13 dicembre arriva Santa Lucia, vestita di bianco, con un carrettino colmo di regali trainato da un asinello (tradizione tutt’ora vivissima, per esempio, a Verona e nei paesi della Bassa Mantovana); il 25 dicembre è Gesù Bambino a dispensare i doni assieme a Babbo Natale, credenza americana entrata di prepotenza nei nostri costumi dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Babbo Natale era stato «importato» negli Stati Uniti nel 1700 dagli Olandesi, che ogni anno lo aspettano sbarcare nel porto di Amsterdam il 6 dicembre, in abiti vescovili, con mitra rossa e croce dorata e pastorale, poi salire su un cavallo bianco e passare di casa in casa distribuendo doni; la sua dimora si troverebbe a Madrid, in Spagna, Paese che nell’immaginario olandese è caldo, prospero e ricco dei doni della natura. La sua figura deriva da un preciso personaggio storico: San Nicola, difensore dei deboli, dei bisognosi e di coloro che subiscono ingiustizie, e in particolare dei bambini (si racconta che ritrovò e riportò in vita cinque fanciulli, rapiti e uccisi da un oste). Nato intorno al 260 dopo Cristo a Patara, importante città marittima della Licia, la penisola dell’Asia Minore (attuale Turchia) quasi dirimpetto all’isola di Rodi, fu Vescovo di Myra, città ora turca ma a quel tempo di cultura e lingua greca. Viene rappresentato con tre grosse palle d’oro in ricordo del più famoso episodio della sua vita: a Myra (prima che fosse eletto Vescovo), seppe di un padre di famiglia, caduto in grave miseria, che per poter avere una dote da offrire alle figlie (necessaria per sposarle) aveva chiesto loro di prostituirsi. Nicola decise di intervenire: una notte, avvolte delle monete d’oro in un panno, uscì di casa e raggiunse la casa delle fanciulle, si avvicinò alla finestra, passò la mano attraverso l’inferriata e lasciò cadere il sacchetto all’interno (secondo un’altra versione, lo calò dal camino). Il padre delle fanciulle raccolse il denaro e con esso organizzò il matrimonio della figlia maggiore. Nicola volle ripetere il gesto per la seconda e poi la terza delle ragazze. Il padre riuscì a scoprire chi fosse il misterioso benefattore, che poi la tradizione volle portatore di doni per tutti la notte di Natale. In America il suo nome, troppo difficile da pronunciare, fu deformato in Santa Claus, e vi furono aggiunti episodi inventati o tratti da antiche tradizioni popolari; oggi, purtroppo, ha finito per diventare un emblema del consumismo.

In Francia a consegnare i regali c’è Père Noël, alto, magro, con una lunga veste rossa, un cappuccio di pelo bianco e rumorosi zoccoli di legno, mentre in Spagna, la notte dell’Epifania, frotte di bambini girano per le strade cercando i Re Magi, che arrivano sui loro cammelli a portare i tanto attesi regali. In Germania passa di casa in casa una bambina chiamata Cristkindl, con una corona di candele sul capo e un cesto pieno di doni; l’accompagna un diavoletto chiamato Hans Tropp, che agita una bacchetta per ammonire i bimbi cattivi. In Svezia, nel giorno di Santa Lucia, di buon mattino i bambini mettono una corona di candele accese sul capo e, portando il vassoio della colazione, vanno cantando a dare il buongiorno a tutta la famiglia; la sera, due misteriosi vecchietti lasciano i regali nelle case. In Norvegia e Danimarca a mettere i doni sotto l’albero è uno gnomo piccolissimo, chiamato Julenisse, mentre per i bambini russi arriva Nonno Gelo. In Argentina i doni vengono portati il 6 gennaio, il «Giorno dei Tre Re»: i bambini lasciano le proprie scarpe sotto il letto e al mattino le ritrovano piene di dolci o piccoli doni portati dai Magi, che lì si sono fermati, sulla strada verso Betlemme. Difficile dire a che epoca risalgano queste tradizioni, o se sono variazioni di un’antica leggenda comune a tanti popoli, come quella di San Nicola.

In Messico le tradizioni natalizie ruotano intorno alla «posada» («alloggio»): per nove giorni, le persone passano di porta in porta portando immagini di Maria e Giuseppe che stanno cercando alloggio. Quando il corteo giunge di fronte alla casa prescelta, le immagini dei personaggi sacri vengono poste sopra un piccolo altare. Si prega insieme, poi si canta e si balla.

Abbastanza recente è l’usanza dei bigliettini d’auguri: se i primi messaggi augurali cominciarono a circolare in Europa nel XV secolo, incisi su tavolette di legno o su lastrine di rame, fu l’artista inglese John C. Horsley, un funzionario che si interessava della riforma delle Poste, a disegnare il primo cartoncino natalizio, che venne stampato in 1.000 copie: correva l’anno 1843. All’inizio erano pochi quelli che potevano permettersi il lusso di comprare e mandare biglietti natalizi, perché la stampa e le tariffe postali erano molto care, anche se l’invenzione del francobollo e la maggiore efficienza del servizio ne favorivano la diffusione; fu solo verso l’inizio del secolo scorso che i prezzi si fecero abbordabili e biglietti e cartoncini divennero popolari in tutta Europa. Per il loro alone di «romanticismo» e di calore umano sopravvivono anche oggi, nonostante la spietata «concorrenza» delle immagini e dei filmati proposti da internet; è ancor viva, nei Paesi anglosassoni, la tradizione di appendere i biglietti ricevuti alla cappa del camino, per realizzare un pannello natalizio.

Una delle altre tradizioni comuni a tutti i Paesi è quella di festeggiare il Natale anche a tavola, nel cenone della vigilia (soprattutto nell’Italia Meridionale) prima della Messa di Mezzanotte o nel pranzo natalizio (in quella Settentrionale), con menù tipici. Se ai nostri giorni non sono molti quelli disposti a digiunare prima di Natale, una volta era un’usanza diffusa, per poi celebrare la nascita di Gesù con una festa veramente grande: il pranzo di Natale poteva essere costituito da un cinghiale ripieno, completo di testa e mela in bocca, un maialino arrostito allo spiedo, anatra arrosto o un fagiano ricomposto con tutte le penne dopo essere stato cucinato. Oggi tacchino e budino sono spesso associati ai pranzi di Natale in Inghilterra e in America. In Finlandia si mangiano aringhe affumicate con le rape; a Turku, l’antica capitale finlandese, viene proclamata la pace del Natale che mantiene ancora le formule e i saluti usati nel Medioevo: le famiglie consumano così la prima parte del pranzo natalizio; al tramonto tutti si avviano verso il cimitero, dove accendono candele sulle tombe dei propri cari. Nella Repubblica Ceca, la vigilia viene servita una grande cena, durante la quale le persone cercano di prevedere il futuro, per esempio tagliando trasversalmente delle mele (se appare una stella nel centro, si annuncia un anno felice, se invece appare una croce, l’anno nuovo sarà triste); le ragazze gettano le scarpe dietro le spalle e, se la punta dei piedi tocca la porta, la ragazza troverà marito nell’anno che verrà. In Polonia, la gente digiuna la vigilia di Natale fino a quando non appare in cielo la prima stella, poi legge la Bibbia, si fa gli auguri scambiando un «optalek» (un piccolo wafel bianco che si compra solo per questa occasione) e prepara un pranzo speciale: durante il pasto, viene sistemata un po’ di paglia per terra e sulla tavola, a ricordare la nascita di Gesù avvenuta in una mangiatoia; un posto è lasciato simbolicamente vuoto per Maria e il Bambino Gesù. In Francia, sempre in attesa di una visita di Maria e Gesù, spesso si lasciano sulla tavola un po’ di cibo e alcune candele accese; nella Francia Meridionale, la cena della notte di Natale si svolge secondo un preciso rituale: piatti e bicchieri poggiano su tre tovaglie bianche sovrapposte che rimangono per tutte le feste natalizie e che simboleggiano Dio Padre, Gesù il Figlio e l’amore che li unisce, lo Spirito Santo. In Grecia, la sera della vigilia viene preparata una pagnotta di pane dolce decorato che si chiama «christopsomo», cioè «pane di Cristo», che sarà poi mangiata il giorno di Natale dopo essere stata spezzata e distribuita dal capofamiglia. In Svezia, pesce e budino di riso al latte costituiscono i principali alimenti del tradizionale pranzo natalizio. Nelle Filippine (il Paese più cattolico d’Asia), la vigilia di Natale è detta la «buona notte»: i membri della famiglia pranzano tutti insieme con formaggio e prosciutto di maiale, mentre il giorno di Natale i bambini fanno visita ai loro parenti per farsi regalare qualcosa. Anche in Italia, come nei Paesi Anglosassoni, il tacchino è solitamente il «piatto forte» del pranzo di Natale, mentre il cenone della vigilia è per lo più a base di pesce.

Anche a Capodanno, festa con la quale si ricorda la circoncisione di Gesù quale segno di alleanza con Dio (e l’inizio dell’anno religioso per gli Ebrei, secondo l’antico calendario lunare cananeo), si celebrano tradizioni e riti antichissimi. L’usanza più suggestiva, che molti rispettano, è quella di darsi un bacio sotto il vischio. Vi è poi la consuetudine di mangiare sette chicchi d’uva la notte di San Silvestro in segno di augurio e prosperità. Appena scocca la mezzanotte, mentre l’aria rimbomba di spari e mortaretti, è usanza in molti paesi e città gettare dalle finestre le cose vecchie e inutili. In alcune zone, per esempio a Bologna, si brucia il «Vecchione», un grosso pupazzo di legno e paglia che simboleggia l’anno vecchio.

Il periodo natalizio si conclude tradizionalmente con l’Epifania (mentre la liturgia cristiana lo prolunga fino alla domenica successiva, quando si celebra il Battesimo del Signore). Figura ormai diffusa nell’immaginario popolare – ma esclusivamente italiana – è la Befana, una donna molto anziana che vola su una logora scopa, per fare visita ai bambini nella notte tra il 5 e il 6 gennaio e riempire di dolci, caramelle, frutta secca o piccoli giocattoli le calze lasciate appositamente appese sul camino o vicino a una finestra; i bambini che durante l’anno si sono comportati male troveranno le calze riempite con del carbone o dell’aglio. L’origine è forse connessa a un insieme di riti propiziatori pagani, risalenti al X-VI secolo avanti Cristo, in merito ai cicli stagionali legati all’agricoltura, ovvero relativi al raccolto dell’anno trascorso, ormai pronto per rinascere come anno nuovo; gli antichi Romani credevano che nelle notti di fine anno delle figure femminili volassero sui campi coltivati, per propiziare la fertilità dei futuri raccolti: per questo la Befana vola cavalcando una scopa, antico simbolo che rappresenta la purificazione delle case e delle anime, in previsione della rinascita della stagione. Una leggenda racconta che i Re Magi in viaggio per Betlemme avessero chiesto informazioni sulla strada a una vecchia, e che avessero insistito perché lei andasse con loro a portare i doni al Salvatore; la vecchia rifiutò, ma poco dopo, pentita, preparò un cestino di dolci e si mise in cerca dei Magi e del Bambino Gesù: non trovandoli, bussò a ogni porta e consegnò dolci ai bambini sperando di potersi così far perdonare la mancanza. In Veneto, la Befana viene ricordata con grandi falò accesi in mezzo ai campi o nelle piazze: una leggenda popolare vuole che dei fuochi fossero accesi per illuminare la strada ai Re Magi in viaggio per Betlemme; un tempo, dal falò si ricavavano i pronostici per l’annata osservando la direzione che seguivano le faville, mentre sulle braci si cuoceva una specie di focaccia di polenta, con l’aggiunta di frutta secca e miele, avvolta in foglie di verza.

A partire dal IV secolo dopo Cristo, la Chiesa cominciò a condannare tutti riti e le credenze pagane, definendoli frutto di superstizione o addirittura di influenze sataniche. Ma spesso questi sopravvissero, mutando forme e significati non per mascherarsi, bensì per rispondere a nuove esigenze di religiosità, e a partire dal Basso Medioevo sfociarono in tutti quei riti e tradizioni che pratichiamo anche oggi, spesso senza neppure comprenderne il significato più profondo. Una volta era tutto diverso, più povero ma anche più intensamente vissuto; Olga Visentini, una famosa scrittrice, ricorda che, quando era piccola, la notte di Natale «tutta la gente del paese, a mezzanotte, chiudeva la porta di casa e, ben coperta, s’incamminava nel buio, sulla strada piena di neve, per incamminarsi alla Messa di Natale.

Ai rintocchi delle campane, la campagna si popolava di lumi, di fiaccole. Quando i rintocchi tacevano, si distingueva lontano la nenia di una zampogna, rispondeva più vicino il festoso ritornello di uno zufolo: erano i pastori che, lasciato nell’ovile il gregge, scendevano a Messa. E lungo la via si univano ai contadini che portavano manciate di grano da far benedire e ai montanari dalle grosse scarpe chiodate e dai cappelli ornati di vischio».

(dicembre 2018)

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