Il surplus economico
Quando anche la comune aspirina diventa un nemico

Mi riallaccio al bellissimo articolo che lo storico Mario Zaniboni ha pubblicato recentemente sul sito www.storico.org per alcune riflessioni personali.

L’aspirina è un farmaco eccezionale. Come ben ricorda Zaniboni, sin dall’antichità il suo «principio attivo» aveva dato ai popoli la possibilità di gestire situazioni patologiche diverse, consentendo in epoca più recente la messa in moto di un prodotto industriale largamente usato e assolutamente sicuro e funzionale. Ma ciò non basta.

Porto a questo proposito una personale esperienza. Se un farmaco da banco come è capitato a me, ti produce in età adulta uno shock anafilattico e ti mette in pericolo di vita, senza che mai in età giovanile (mi è capitato a 35 anni) tu abbia avuto episodi analoghi, cominci a interrogarti. Io avevo all’epoca un’amica biologa che si occupava professionalmente di biologico. Aveva creato un’azienda agricola e zootecnica biologica.

La prima osservazione che mi fece su quanto mi era accaduto, da esperta del settore, fu dirmi che le carni e ogni prodotto sono allevati in modo intensivo con pesticidi e farmaci. Il surplus di presenza nel nostro organismo di questi prodotti che ingeriamo col cibo scatena reazioni tutt’altro che prevedibili.

Da quel momento in poi in effetti ogni farmaco mi è negato, compresa l’aspirina, perché il sistema immunitario, a detta della mia amica biologa, è ormai saturo di tali prodotti ingeriti quotidianamente senza che nemmeno ci si soffermi più di tanto a pensarci. Spesso le etichette non lo indicano e non sempre leggiamo minuziosamente le etichette.

La mia è purtroppo una storia piuttosto comune e la mia amica biologa aveva suggerito un’amara verità. Il discorso che a questo punto intendo mettere a fuoco non è votato alla condanna dell’aspirina piuttosto che dei farmaci, anche da banco, che quotidianamente assumiamo. Ma è una riflessione più generale, di natura economica. Ho dato un esame universitario in economia protoindustriale, quindi da questo punto di vista ho una qualche competenza.

La protoindustra è la forma organizzata del sistema industriale che ha preceduto l’industrializzazione e ne ha accompagnato i primi passi, diffusa soprattutto nel settore tessile ma anche agrario, basata sul lavoro a domicilio.

Il concetto di protoindustrializzazione è piuttosto recente, coniato nel 1972 dallo storico economico Franklin Mendels.

Fino a 10.000-12.000 anni fa gli uomini vivevano in gruppi di cacciatori-raccoglitori e la popolazione contava sei milioni di uomini. Divenendo stanziali e realizzando la prima grande «Rivoluzione agraria» favorita in alcune aree del globo dall’abbondanza di specie vegetali e animali adatte alla domesticazione, la popolazione globale raggiunse i 250 milioni. Alcuni aspetti negativi di tale passaggio furono il peggioramento della dieta che si impoverì perché dipendente dai cereali. Ci fu maggiore diffusione di parassiti quindi malattie per l’avvicinamento agli animali e per lo stesso aumento della popolazione; aumentò il tempo da dedicare al lavoro. Ma in positivo la società divenne più complessa con una divisione marcata del lavoro, con la nascita di strutture sociali complesse e relativo accumulo di conoscenze e competenze. Con la rivoluzione urbana del 3000 avanti Cristo i caratteri strutturali di un’economia agraria divennero più marcati. La maggior parte della popolazione viveva in villaggi di piccole dimensioni; limitata era la divisione del lavoro che si basava su età e sesso dei componenti del nucleo familiare; si parla prioritariamente di autoconsumo, con uso occasionale della moneta; le società agrarie erano in grado di sopportare un anno di «normale» penuria (un anno su quattro) utilizzando le scorte dell’anno precedente ma non per due anni di seguito con il rischio di carestia.

Le città furono luogo di commercio e di mercato, con mercato regolato. Alcune città, ad esempio Venezia, si affermarono come poli del capitalismo commerciale e finanziario, svolgendo un ruolo fondamentale di smistamento dei commerci su lunga distanza, e di attivazione della circolazione di conoscenze, che promossero innovazioni tecnologiche, istituzionali, dei comportamenti di consumo. Tra i progressi tecnologici l’aratro pesante, la lavorazione del ferro, la macinazione del grano, il mulino ad acqua. Tra le caratteristiche più significative delle società agrarie vi fu sicuramente il precario rapporto tra gli uomini e le risorse. Questo equilibrio fu studiato da Thomas Malthus che nel 1789 pubblicò il Saggio sul principio della popolazione. Secondo Malthus la crescita della popolazione è influenzata positivamente dal reddito pro capite ma limitata dalla scarsità delle risorse, ad esempio la terra. Dunque la crescita demografica provoca la contrazione del reddito pro capite e pertanto favorisce la stagnazione della popolazione.

In quel periodo (XVIII secolo) la continua crescita della popolazione trova una spiegazione nella modernizzazione dell’agricoltura e nella Rivoluzione industriale. L’aumento del reddito, al contrario di quanto Malthus aveva asserito, ebbe un effetto positivo sulla domanda, ma uno negativo per il prezzo imposto per l’accudimento dei figli. Se c’è crescita economica lenta, le innovazioni sono possibili per mezzo di specializzazione, ossia di divisione del lavoro; per il cambiamento tecnologico; col commercio che si basa su differenze regionali nella dotazione delle risorse e del clima. Paradossalmente, una delle fasi più accelerate di crescita economica fu innescata dalla Peste Nera, diffusasi in Europa dal 1347 al 1352-1353, che era sparita nell’VIII secolo. Ritornò con la formazione dell’Impero Mongolo, iniziata nel 1206.[1]

Sappiamo che la Peste, sterminando quasi un terzo della popolazione europea, nel XIV secolo ruppe l’equilibrio tra crescita della produzione e crescita demografica che aveva lasciato quasi invariati per secoli gli standard di vita, dando maggior valore al lavoro e opportunità di impiego anche alle donne. L’epidemia ridusse stabilmente la natalità, almeno nelle regioni protestanti, rendendo possibile l’accumulazione del capitale. Apprendiamo dalla rivista «Le Scienze» (l’edizione italiana della rivista «Scientific American») del 25 ottobre 2013 quanto su esposto. Fu infatti la famigerata Peste Nera uno dei fattori chiave del successo economico europeo. Sappiamo poi che Max Weber nel famoso saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo sostenne che l’insegnamento luterano e calvinista di una vita importata al duro lavoro e alla frugalità ma anche al successo economico come segno di benevolenza divina, aveva posto le basi per l’accumulazione del capitale indispensabile a creare le condizioni necessarie per attività che andassero al di là della dimensione artigianale. Queste basi erano poi ulteriormente rafforzate dall’incoraggiamento all’alfabetizzazione, indispensabile per leggere in prima persona la Bibbia, che stimolò anche l’accumulazione nelle regioni protestanti. Questa analisi, di per sé corretta, dà però per scontata una premessa: che ci siano i margini e la possibilità di accumulare capitale. In realtà «prima della Rivoluzione industriale il reddito pro capite generalmente non è cambiato. Gli standard di vita media in Europa sono rimasti pressoché costanti, sostanzialmente al livello di sussistenza».

Un esempio interessante in questo senso è dato proprio dall’Italia della protoindustrializzazione nelle campagne.

Lo ha sostenuto Piero Bevilacqua in un celebre volume[2].

«In un Paese povero di risorse naturali, relativamente sovrappopolato, arrivato tardi all’appuntamento con i processi dell’industrializzazione, il lavoro contadino ha costituito una delle leve decisive della crescita economica italiana».

Anche se non sempre questa consapevolezza si è tradotta in ricerche specifiche, gli scritti di coloro che nel corso dei secoli si sono occupati dei molteplici aspetti dell’agricoltura in Italia consentono di definire come il lavoro dei campi si sia legato prioritariamente al complessivo sviluppo economico del Paese. Fu tra Settecento e Ottocento che la produzione agricola conobbe un incremento dovuto all’ampliamento delle superfici coltivate, realizzando dissodamenti, bonifiche, diboscamenti, una diversificazione delle colture, con la diffusione del mais, del riso, della patata, una intensificazione della gelsibachicoltura e della produzione di olio e di prodotti pregiati nel Meridione. È significativo che l’attenzione degli osservatori esteri fosse attratta dall’agricoltura della Valle Padana irrigua, dove la rotazione delle coltivazioni, l’introduzione delle foraggere, l’allevamento del bestiame bovino, erano realizzati con l’impiego di lavoratori salariati, fissi e stagionali, secondo il modello della «nuova agricoltura» inglese. Questo concetto emulativo non fa bene secondo Bevilacqua a una attenta analisi dei processi complessivi. Fortunatamente tra Settecento e Ottocento tale carattere non fu così esaltato, al punto che si affermò la consapevolezza che l’agricoltura della Penisola aveva caratteri suoi peculiari, irriducibili a un modello unico e dunque aperti a sviluppi diversi rispetto all’esemplare esperienza anglosassone e padana. Nel 1801 Sismonde de Sismondi apriva il suo Tableau de l’agricolture toscane dichiarando che «sarebbe utile valutare una volta l’agricoltura tale e quale è e non tale e quale la si voglia vedere». La sua compiuta analisi della Valdinievole poneva in luce la capacità di assicurare investimenti dilatati e una produzione diversificata, capace di garantire a una numerosa popolazione rurale una autosufficienza che la tutelava dal mutamento del mercato.

È difficile determinare i livelli di produttività e di produzione dell’agricoltura italiana nel periodo precedente e successivo all’unificazione nazionale per la frammentarietà e l’incertezza delle rilevazioni statistiche. È stato tuttavia possibile, attraverso un confronto tra fonti statistiche e fonti aziendali, determinare i dati relativi al rendimento della coltivazione del frumento nelle varie aree della Penisola. Secondo questa indagine, nel corso della prima metà dell’Ottocento, in tutto il territorio della Penisola «vi sono terre che spesso non riproducono le quantità seminate, ma sia nel Settentrione che nel Mezzogiorno si incontrano anche terreni nei quali i raccolti di frumenti raggiungono e superano i 10 quintali per ettaro. Le Murge, la Basilicata, il Cilento, la Sila rimangono, come le zone alpine del Piemonte, della Lombardia e del Veneto, al di sotto dei due, tre quintali, ma alcune province della Campania, la pianura del Sele, la Capitanata, la penisola salentina e le terre attorno a Taranto registrano, in qualche annata particolarmente favorevole, tassi di 12-15 quintali per ettaro, pari, e spesso anche superiori, a quelli delle più fertili terre della Pianura Padana».[3]

Nei decenni che trascorsero tra la caduta dell’Impero Napoleonico e l’unificazione nazionale proprietari terrieri, studiosi, pubblicisti, nel Regno di Sardegna, nel Lombardo-Veneto, nel Granducato di Toscana, nello Stato della Chiesa, nel Regno di Napoli, auspicarono e sperimentarono un rinnovamento dell’agricoltura attraverso bonifiche e dissodamenti, l’introduzione di nuove coltivazioni e di più moderni strumenti di lavoro, la creazione di istituti di credito agrario, la preparazione di tecnici e l’istruzione dei coltivatori. I congressi degli scienziati del tempo furono un modo per confrontarsi ed esprimere pareri.

A lungo gli storici hanno discusso se e in quale misura sarebbe stata possibile, nel quadro dei rapporti politici e sociali interni e internazionali entro cui si svolse il movimento per l’unificazione nazionale, una «Rivoluzione agraria», variamente intesa come un mutamento dei rapporti di proprietà e di lavoro nelle campagne. Quali che siano le ipotesi controfattuali, la spietata repressione condotta nell’estate del 1860 da parte dei garibaldini del movimento dei contadini siciliani, che rivendicavano una redistribuzione delle terre demaniali accorpate ai possessi della nobiltà e della borghesia, mostrò che quella possibilità era preclusa.

A una politica agraria non incisiva della destra storica si unì un riversarsi sui mercati europei di derrate alimentari mondializzate nella seconda metà del XIX secolo. L’Italia abbandonò complessivamente la sua vocazione agraria e investì prioritariamente nella nascente, per la Penisola, Rivoluzione industriale. Un qualcosa di analogo troviamo nel secondo dopoguerra in Italia, questo un secolo dopo, nel XX secolo. L’agricoltura industriale soprattutto padana, come la conosciamo oggi, è più recente. È a partire dal boom economico che si assistette infatti a una progressiva «industrializzazione agraria», soprattutto nel Nord della Penisola. L’attuale esasperazione zootecnica ad esempio ci riporta con la memoria a quella intensività produttiva che non tiene conto né di equilibri ambientali né tantomeno di equilibri biologici legati all’utilizzo di prodotti chimici e farmaceutici. D’altra parte una accesa mondializzazione ha prodotto regole talvolta concorrenziali e tali da impedire un equilibrato uso di sostanze e di leggi. Tutto ciò che è esasperato non produce buoni frutti. Tant’è. La comune aspirina può diventare dunque il nemico, un nemico apparentemente invisibile. Ma ciò vale per ogni prodotto farmaceutico, che diventa uno strumento produttivo prima ancora che curativo e specialistico.

Questa in estrema sintesi l’osservazione a monte della mia amica biologa che si dedicava a un allevamento e agricoltura biologici già a partire dagli anni Novanta del XX secolo. È necessario misurarsi con la cosiddetta modernità. È necessario comprendere che la specie e che l’intero comparto degli esseri viventi possono sopravvivere con un livello di qualità della vita sufficientemente adeguato solo grazie alla capacità di ritrovare equilibri produttivi, commerciali, ricreativi. È una sfida cui tutti sono chiamati se la prerogativa essenziale è quella di mantenere in vita un pianeta capace di rispondere ai bisogni dei più. Il richiamo alla protoindustrializzazione, a modelli del passato lontani da noi ma sicuramente significativi per comprendere meccanismi di crescita ed esperienze hanno mostrato una loro valenza positiva, dovrebbe accomunarci in un sentire comune, nazionale ma ancor più sovranazionale. Ripartire da intelligenti osservazioni sulla protoindustrializzazione e da una ridefinizione di surplus produttivo sarà la vera sfida del futuro.


Note

1 F. Amatori e A Colli, Il mondo globale, G. Giappichelli editore, 2017.

2 Piero Bevilacqua, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, 1990.

3 Porosini, 1978, pagina 6.

(dicembre 2021)

Tag: Elena Pierotti, aspirina, protoindustria, Rivoluzione agraria, Thomas Malthus, Sismonde de Sismondi, Tableau de l’agricolture toscane, Max Weber, Garibaldini, Unificazione, Rivoluzione industriale, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, industrializzazione agraria.