Lineamenti di storia della musica classica occidentale
Dagli antichi Greci ai giorni nostri

Strumenti musicali

Evaristo Baschenis, Strumenti musicali

Tratteremo, in questo breve saggio, non di tutta la musica, ma di quella che viene chiamata musica classica occidentale. Si tratta di un genere di musica definita «colta» o «tradizionale» (quindi non pop, rock, jazz…) in ambito occidentale (si escludono la musica giapponese, mediorientale, precolombiana…): è quella che è alle radici (meno note) della nostra cultura, e le cui vicende abbracciano un arco di 2500 anni. Si potrebbe scrivere sull’argomento non uno, ma una serie di volumi enciclopedici. Ci limiteremo qui ad alcuni cenni essenziali.


Dagli antichi Greci alla nascita dell’opera lirica

Nonostante la musica e il canto siano le più antiche forme espressive vocali dell’uomo[1], delle prime forme musicali sappiamo pochissimo. È assodato che alle origini della musica classica occidentale c’è la Grecia antica. Qui la musica è legata al mito e alle cerimonie sacre, al teatro ed alla letteratura (per esempio, le tragedie – pensiamo a quelle di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane – sono abbinate alla musica, perché vengono o declamate o cantate con solisti, coro, strumenti musicali). Nel IX e nell’VIII secolo avanti Cristo, aedi e rapsodi cantano i poemi epici omerici.

Ma la musica di queste epoche è totalmente scomparsa: ne rimane qualche labile traccia nei libri, ma non abbiamo nessuna partitura (i Greci hanno inventato un sistema di numerazione, il tetracordo, ovvero una scala di quattro suoni). Di tutta la musica greca non abbiamo altro che un frammento papiraceo dell’Oreste di Euripide con quattro segni, che dovrebbero rappresentare quattro altezze del suono. Il primo testo con partitura (incisa nel marmo) è l’Epitaffio di Sicilo[2], che però è tardo, databile tra il II secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo. Ci sono noti, è vero, i nomi di alcuni musicisti, per esempio Terpandro di Sparta (VII secolo avanti Cristo), il citaredo peloponnesiaco Iaso di Ermione (VI secolo avanti Cristo), il flautista Timoteo di Mileto, Aristosseno (età ellenistica)…

La filosofia greca riflette moltissimo sulla musica, anzi, la cultura greca è l’unica cultura antica che ha capito appieno l’importanza della musica. La musica è un dono degli dèi, il linguaggio stesso della divinità; può coinvolgere tantissimo l’animo umano, influisce sulla psiche e può manipolarla: ricordiamo il mito di Orfeo, artista per eccellenza, che incanta uomini e animali con la sua abilità nel suonare la lira. Platone, nella Repubblica, spiega che i bambini che hanno praticato la musica saranno da grandi persone in grado di discernere il bello dal brutto, il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. Pitagora dice che la musica è una serie di sfere che colpiscono le sfere dell’anima che influenzano l’uomo, mentre Aristotele considera la musica come arte assoluta, svincolata dal campo dell’etica e della morale. Con la diffusione dell’ellenismo la musica, rimasta patrimonio dell’aristocrazia, si espande per tutta l’Europa Mediterranea.

Facciamo un salto, forzato ma necessario, anche per penuria di documenti, di cinquecento anni. Il mondo è mutato, si sta rapidamente espandendo una nuova religione: il Cristianesimo. Questi assimila la musica greca ellenistica, il canto giudaico orientale e il canto romano antico, in quanto la musica è vista come mezzo straordinario per elevare lo spirito e portarlo a Dio (per questo noi usiamo ancor oggi una scala musicale ascendente, dai toni più gravi – il «DO» – a quelli più acuti – il «SI» –, mentre i Greci, per i quali la musica scende come dono dalla divinità agli uomini, hanno una scala musicale opposta, discendente). Con le fatidiche date del 313 (Editto di Milano: ai Cristiani viene data libertà di culto) e del 391 (l’Imperatore Teodosio proibisce tutti i culti pagani) il Cristianesimo diviene la religione dell’Impero Romano. È a questo punto che la Chiesa Occidentale (che nella sua più alta espressione è la Chiesa Latino-Romana) sentirà l’esigenza di creare un suo canone musicale ufficiale. È così che nasce il canto gregoriano, concepito come preghiera, elevazione, dono di Dio, che per almeno sette od otto secoli sarà l’unica musica scritta e conservata della cultura occidentale di cui si ha testimonianza, e che si diffonde ovunque.

Il canto gregoriano affonda le sue radici nella prima fase dell’età imperiale romana e le sue ultime propaggini giungono fino a noi: se ne è occupato infatti anche il Concilio Vaticano II (1963) e la Chiesa si ripropone oggi di recuperarne la sacralità affinché continui ad avere una presenza significativa nel mondo contemporaneo e non sia solo una fase storica.

Il nome fa riferimento a Papa Gregorio Magno, nato a Roma intorno al 540 da nobile famiglia e tra i più grandi Pontefici del Medioevo per la sua attività pastorale ed amministrativa. Nel IX secolo un cronista del tempo, Giovanni Diacono, attribuisce a lui l’unificazione del canto liturgico latino che era allora frazionato in vari repertori locali: numerose immagini lo ritraggono mentre scrive musica sotto dettatura dello Spirito Santo. In realtà, i primi saggi di notazione musicale sono posteriori di oltre due secoli e la «schola cantorum» esiste già alla sua nomina: egli dà comunque un contributo notevole allo sviluppo del canto gregoriano.

Con il nome di «canto gregoriano» intendiamo la monodia (canto ad una voce senza accompagnamento strumentale) liturgica cristiana in lingua latina che la Chiesa riconosce ufficialmente.

Un ruolo importante lo ha la già citata «schola cantorum» che, prima di avere la funzione di diffondere il canto, è la cantoria a cui a Roma è affidata l’esecuzione dei canti durante le cerimonie papali e nelle basiliche; l’assenza di notazione musicale costringe i cantori ad imparare i canti a memoria. La «schola cantorum» fa da modello ad organismi analoghi: centri importanti sono i monasteri di Bobbio e Montecassino in Italia, Metz e Tours in Francia, San Gallo in Svizzera.

Il canto gregoriano non è espressione di un singolo artista, ma è anonimo perché è fatto per celebrare un servizio divino, di cui costituisce un semplice ornamento. È anche denominato «cantus choralis» (perché per la collettività; non consente individualità, perché a Dio si arriva insieme), «cantus planus» (senza diversità di figure e misure) e «cantus firmus» (immutabile come i dogmi della Chiesa). Comprende due specie di preghiere cantate: l’«accentus», cioè la recitazione su una sola nota, usata dall’officiante per la lettura dei salmi e di altre parti della Messa; ed il «concentus», cioè un canto caratterizzato da fioriture e melismi[3], proprio degli inni[4] e di alcune parti della Messa. Il diverso tipo di canto applicato non è casuale, ma dipende dall’importanza della celebrazione rituale, dal significato che il brano assume all’interno del rito, dalle modalità di esecuzione (cioè come interagiscono fra loro coro e solista).

Il rapido diffondersi del canto gregoriano in Europa è dovuto al desiderio di unificazione liturgica voluta dai grandi Pontefici: per questo la «schola cantorum» di Roma invia sempre abili cantori nei vari Paesi. In seguito, pian piano, ci si rende conto che serve un aiuto per memorizzare le melodie: si arriva così, intorno al Mille, al tetragramma (quattro righe musicali), mentre per avere il primo pentagramma dovremo aspettare il XIV secolo. Con la nascita della scrittura musicale, le melodie – non più tramandate oralmente – possono essere ricordate più facilmente e mantenersi più precise.

Accanto alla musica sacra, e da essa influenzata, esiste anche la musica profana, che però non ci è stata conservata. È solo tra l’800 e il 1000, in una stagione di eccezionale creatività (rinascenza carolingia, rifiorire economico e artistico), che la musica profana, nata nelle Corti e in ambiente aristocratico, riacquista una sua dignità. Due processi innovano il mondo musicale: da un lato, la musica sacra si stacca dall’ambito liturgico e diventa arte autonoma; dall’altro lato, dal IX secolo diventa abituale scrivere la musica (Guido d’Arezzo, rifacendosi a Pitagora, fissa i quattro righi per le note). Si codificano i vari generi musicali: per la musica sacra, la Messa, la Passione, il Magnificat, la Sacra Rappresentazione, il Dramma Liturgico, il Planctus Mariae, il Crucifixus, le Vite dei Santi (piccoli drammi musicali), tutti componimenti in latino; la musica profana, rifacendosi ad autori come Orazio, Virgilio e Catullo, si occupa di battaglie, cacce, canti di città in cui si fanno le lodi del proprio Paese, canzoni di gesta, canti goliardici come i «carmina burana», canzoni di tema amoroso, tutti componimenti in lingua volgare. La Francia ha un ruolo guida in Europa (fiorisce la figura del trovatore in Provenza, Italia del Nord, Toscana). Le stesse letterature nazionali in lingua volgare nascono sospinte dalla musica: i componimenti della Scuola Siciliana, dei rimatori toscani, del Dolce Stil Nuovo sono sempre cantati (ma la musica si è purtroppo perduta).

Tra il 900 e il 1000 si sviluppa dalla monodia, gradualmente e casualmente, la polifonia, che consiste nel sovrapporre più note sulla linea monodica del canto gregoriano, e che ha massima espressione nella polifonia fiamminga. Nasce prima in ambito sacro, per approdare poi alla musica profana in rapida espansione, che arricchisce di nuove forme musicali come il mottetto, la copula, il «rondellus»…

Terminata l’epoca dell’anonimato, si fanno avanti le grandi personalità della musica, delle quali la più famosa è Guillaume de Machaut (Reims, 1300-1377), un ecclesiastico che fu una singolare figura di intellettuale, poeta, pensatore, politico ma soprattutto – come lui stesso amava definirsi – musicista. Fu al servizio di Giovanni di Boemia, che accompagnò in numerose campagne militari, partecipò ad una Crociata, infine ricoprì la carica vescovile a Reims. Scrisse mottetti, ballate, rondò, una Messe de Notre Dame utilizzata per l’incoronazione di Carlo V a Reims; è il primo musicista che pensò a scrivere e a tramandare la sua musica.

Nasce la musica strumentale, la prima senza voce, affidata a due o tre soli strumenti: l’organo è il più diffuso, ma vengono codificati arpa, salterio, cetra, liuto, lira, strumenti a fiato e a corde pizzicate…

Dalla metà del XIV secolo, l’Italia strappa alla Francia il primato musicale europeo: le Corti e le Signorie attirano a sé i migliori musicisti del Vecchio Continente, dando vita ad una produzione imponente; grande fermento anima Mantova, Ferrara, Firenze, Milano, Roma, Venezia. Una creazione originale italiana è il madrigale (da tre a sei voci), che diviene la composizione musicale per eccellenza dell’epoca – una creazione essenzialmente profana, solo di rado entrata nell’ambito sacro. È basata su testi di Dante, Petrarca, Boccaccio, ed ha goduto di quasi duecento anni di evoluzione. I madrigali oggi conservati sono circa 40.000. Dall’Italia (dove sono grandi madrigalisti Palestrina, Andrea Gabrieli, Luca Marenzio, Gesualdo da Venosa) si diffonde in Inghilterra (William Byrd, Orlando Gibbons), Francia, Spagna, Germania (Leo Hassler) e nel Cinquecento ha grandissimi artisti fiamminghi (come Willaert, Arcadelt, de Rore…).

Il Quattrocento è il secolo nel quale la musica classica acquisisce la fisionomia di arte autonoma ed assoluta, così come noi ancora oggi la percepiamo. Si sviluppa la figura del musicista professionista, colui che per vocazione non ambisce a fare altro che musica: musicisti eccellenti sono John Dunstable (1390-1453; è anche astronomo e matematico), Guillaume du Fay (1397-1474; fonda la scuola di Borgogna), Johannes Ockeghen (1416-1497; di lui ci restano 14 Messe, 9 mottetti, 21 «chansons»), Gilles Binchois (1400-1460; famoso per le sue melodie purissime). Inizia una committenza borghese (Fiandre, Francia del Nord, Paesi Bassi) che vuole opere non solo sacre; la musica sorge sempre accanto alle grandi cattedrali gotiche (Fiandre, Francia), alle Corti (Parigi, Vienna, Londra) ed alle Signorie (Verona, Milano, la Firenze di Lorenzo il Magnifico). Si codificano il rapporto della musica unita al canto (primordi dell’opera lirica) ed alcuni generi di musica strumentale: il rondò, la danza, la ballata, la fuga (primordi del concerto, della sonata, della sinfonia).

Verso il Cinquecento, l’Italia assume il ruolo guida per superare il Medioevo ed entrare nel Rinascimento. L’uomo viene posto al centro dell’Universo, e viene di attualità il discorso che si fa sulla cultura greca. Il ritorno ideale al mondo classico, iniziato in Firenze e da lì diffusosi ovunque, porta al recupero di Platone, Aristotele, Pitagora, alla riscoperta del mito di Orfeo e della centralità della musica.

La musica inizia a fondersi con il teatro (opera), con la danza (balletto), mentre la musica strumentale comincia a dare l’avvio alla musica sinfonica. Nascono i primi drammi sacri, rappresentati in chiesa (oratorii), e i Misteri (diffusi soprattutto in Francia): questi sono sia sacri, senza scene, sia profani, con scenografie, costumi e maschere – in quest’ultimo caso sviluppano temi come la distruzione di Troia, la caduta di Costantinopoli, l’assedio di Orleans (20.000 versi, 140 attori e cantanti), i canti carnascialeschi (come il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico). Le danze sono sia popolari (come ad esempio la piva), sia balli pubblici nelle piazze, con coreografie e scene fastose.

I grandi musicisti del tempo sono quasi tutti fiamminghi, ma è l’Italia ad essere protagonista: Josquin des Prez (1450-1521) vive in Italia per decenni, Jacob Obrecht (1458-1505) fa tante tappe nel Belpaese, Adrian Willaert (1490-1562) fonda la scuola di San Marco a Venezia, Cipriano de Rore (1515-1565) è autore di madrigali italiani, Messe, mottetti, ed opera a Ferrara, Roma, Parma. Grandi musicisti italiani sono Luca Marenzio (1553-1599), presente presso gli Este e i Medici, autore di tanti madrigali, Gesualdo da Venosa (1566-1613), autore di musica molto serena e di geniale inventiva, e soprattutto Pierluigi da Palestrina (1524 o 1525-1594), maestro della cappella papale per quasi trent’anni.

Nato da una famiglia contadina di Palestrina, una cittadina del basso Lazio sorta sulle rovine dell’antica Praeneste, Pierluigi da Palestrina è notato dal Cardinale Andrea della Valle mentre canta alcuni motivetti musicali di sua invenzione: il prelato lo prende sotto la sua protezione e lo porta con sé a Roma, città nella quale rimarrà per la maggior parte della sua vita. La Città Eterna è il primo dei centri culturali della Penisola, fervente di innumerevoli attività liturgiche. Sono quattro le cappelle romane in cui Palestrina si trova a lavorare: la Cappella Sistina, cappella privata del Papa, formata esclusivamente da voci maschili (molti cantori sono Fiamminghi); la Cappella Giulia (cappella musicale di San Pietro), creata da Giulio II della Rovere, che è anche una scuola di canto, nella quale Palestrina opererà il maggior numero di anni come maestro di Cappella; la Cappella di San Giovanni in Laterano e la Cappella di Santa Maria Maggiore, anch’esse con funzioni di scuola di canto. Nonostante le invidie dei rivali di professione e la sua «laicità provinciale», la produzione di Palestrina ha da subito un successo incredibile, sia in Italia che nel resto d’Europa; negli anni Ottanta, gli viene dato l’incarico di adattare i canti gregoriani ed il canto polifonico alla nuova spiritualità nata dal Concilio di Trento. Palestrina crea uno stile di esemplare chiarezza ed equilibrio, basato sulla ricerca della cantabilità del testo, e con un senso di sospensione e di astrazione. Negli ultimi anni, dopo la morte dell’adorata moglie ed il matrimonio con una ricca vedova, Palestrina comporrà il suo capolavoro Stabat Mater e la grandiosa Messa Assumpta est Maria, suonata ancora oggi in Vaticano nelle maggiori festività religiose. La sua produzione, quasi totalmente incentrata sulla liturgia sacra, comprende oltre 300 mottetti, 140 madrigali, 104 Messe, 72 inni, 11 litanie, un numero imprecisato di lamentazioni, offertori e brani singoli per organo; influenzerà geniali musicisti come Johann Sebastian Bach, Franz Schubert e Carl Orff. Quando muore, nel 1594, gli vengono tributati onori degni di un principe, accompagnato nella chiesa di San Pietro, come riporta il cronista della Cappella Sistina, «non solo da tutti li musici di Roma, ma anco da una moltitudine di popolo, et secondo il nostro solito, conforme alle costituzioni, cantammo il responsorio Libera me, Domine».

Negli ultimissimi anni del secolo, l’opera degli intellettuali fiorentini della Camerata dei Bardi (che si ispirano alla tragedia greca), la nascita del madrigale rappresentato, il testo divenuto azione teatrale, l’uso di scene e di maschere portano prima al melodramma (il primo è la Dafne di Jacopo Peri, del 1598, seguito l’anno seguente dall’Euridice dello stesso Peri e dall’Euridice del Caccini) e poi, con l’Orfeo (1600) di Claudio Monteverdi, all’opera lirica ed al passaggio dalla musica rinascimentale alla musica barocca.


La nascita della musica strumentale

Il periodo che abbraccia il XVII e la prima metà del XVIII secolo è segnato da una grande esplosione della musica.

Il Seicento, da una parte è il secolo in cui l’Europa viene dilaniata da terribili conflitti politici e religiosi (la Guerra dei Trent’Anni, la guerra civile inglese, la frattura fra Cattolici e protestanti), dall’altra è un secolo assai fecondo in campo filosofico, letterario, artistico, un secolo di enormi cambiamenti che culmineranno nella rivoluzione scientifica (esemplificata dalle figure di Galileo Galilei, Newton, Leibniz).

In un’epoca in cui vengono modificate «regole» consolidate da secoli, la musica ottiene un riconoscimento e un’importanza fino allora sconosciuti, tanto da ricevere pari dignità con tutte le altre arti: anzi, diventa una sorta di linguaggio universale, una forza pacificante che riesce ad unire gli Europei (la musica di Bach, che riprende il messaggio cristiano di Sant’Agostino e dei Padri della Chiesa, è l’unica arte che unifica Cattolici e protestanti).

La musica seicentesca, che si suole definire «barocca» (la prima di cui abbiamo larga fruizione), nasce per colpire l’immaginazione e suscitare nell’anima umana sentimenti e nobili emozioni. Siamo nell’epoca delle teorie musicali: la Teoria degli Affetti sostiene che la musica è capace di influenzare profondamente l’animo umano, suscitando nobili pensieri; Vincenzo Galilei, padre di Galileo Galilei, individua i dodici stati dell’animo che sarebbero influenzati dalla musica; Keplero sostiene che gli schemi musicali sono gli stessi della gravitazione universale. La committenza musicale cambia, è indiretta: ora è il pubblico che è disposto a pagare per venire a teatro e fruire di musica. Si consolida il sistema tonale e nascono strumenti musicali nuovi, più perfezionati dei precedenti (in particolare gli archi, grazie all’opera di grandi liutai italiani).

Il Seicento è il secolo dell’Italia: la Penisola, politicamente in gran parte sottomessa alle Potenze straniere, culturalmente acquisisce un ruolo guida che rimarrà costante fino al Settecento (in musica, ma non solo: pensiamo alla poesia di Marino, all’arte di Caravaggio, Bernini, Borromini). È l’Italia a consegnare alla Storia l’opera lirica (la Camerata dei Bardi a Firenze cerca di riprodurre con strumenti moderni la tragedia greca, così come tenterà di fare Emilio dei Cavalieri a Roma). I madrigali diventano vere e proprie opere: la Dafne di Jacopo Peri su libretto di Rinuccini, l’Euridice di Peri, l’Orfeo di Monteverdi; si mettono in musica il Poliziano, il teatro del Machiavelli, il Pastor fido del Guarini…

La Francia non accetta il predominio italiano: emerge Jean Baptiste Lully, nato a Firenze (sarà un caso?) nel 1632, naturalizzato francese e considerato il vero fondatore del teatro transalpino con la sua «tragedie lirique»; attivo alla Corte di Parigi, crea una scuola operistica diversa da quella italiana: i Francesi vogliono la loro lingua, e non l’italiano, nelle proprie opere, mettono in musica Corneille e Racine. Invece, Marc-Antoine Charpentier (notissimo per il Te Deum, anche se l’80% della sua opera è ancora inedita alla Bibliothèque Nationale di Parigi) è tutto il suo opposto: estroverso e spettacolare il primo, schivo e riservato il secondo; Charpentier guarda al passato, rimanendo ancorato alla grande tradizione sacra, si oppone all’opera e alla musica per clavicembalo.

Anche in Inghilterra nasce una scuola nazionale: il merito è di Henry Purcell (allievo – guarda caso – di un Italiano, Giacomo Carissimi), considerato il più grande musicista inglese del Seicento; parte dalla musica corale di stampo elisabettiano e approda all’opera lirica: il suo capolavoro è il Dido and Aeneas.

Ma la grande novità del Seicento è la nascita e – vorremmo dire – l’esplosione della musica strumentale, una musica che basta a se stessa, del tutto svincolata dal canto. È una musica che nasce dall’organo, perché i musicisti trovano lavoro nelle chiese e nei vescovadi, ma presto vengono prodotte anche opere autonome per clavicembalo.

Girolamo Frescobaldi (1583-1643), nato a Ferrara, inizia come organista per poi dedicarsi al clavicembalo. La Penisola è un luogo quanto mai stimolante: vi sono approdati i grandi organisti europei da cui Frescobaldi apprende l’uso del contrappunto, alla Corte Papale a Roma si perfeziona nell’organo, coltiva il genere delle toccate e dei ricercari (cioè dell’inventare delle variazioni su un tema, che viene rielaborato). Pubblica Kyrie, Gloria, Sanctus per organo, riprende temi dal repertorio del canto gregoriano ma nel modo di comporre si ispira a Monteverdi: la musica deve suscitare gli affetti. Per questo nelle sue composizioni dà delle indicazioni: il tempo dell’esecuzione musicale deve essere lasciato libero, legato alla possibilità di muovere gli affetti. E poiché nelle chiese, durante le Messe, i coristi non sempre sono presenti, Frescobaldi cerca di dare allo strumento il ruolo che è della voce, di scrivere musica da usare quando la voce non c’è: con lui, il compositore inizia a pensare musica esclusivamente per gli strumenti, che acquisiscono così una loro autonomia. Sarà anche il primo ad operare il passaggio dall’organo al clavicembalo, iniziando una tradizione clavicembalistica che si diffonderà in tutta Europa e che per circa un secolo darà vita ad opere e musicisti famosissimi (il più importante dei quali è senza dubbio Johann Sebastian Bach).

Il Settecento è un secolo fondamentale per la musica.

Come il precedente, anch’esso si apre in modo drammatico: i primi venticinque anni sono cupi, segnati dalle guerre di successione spagnola, polacca, austriaca, da un colossale tracollo economico della Francia, per finire poco dopo la metà del secolo con la Guerra dei Sette Anni. Ma, proprio in questi periodi di lutti e di sangue, la musica acquisisce il ruolo di arte capace di nobilitare l’uomo. La musica italiana vive il suo periodo d’oro, tutta la Penisola – per ospitare un sempre più vasto afflusso di pubblico pagante – si ricopre di teatri che esistono ancor oggi: la Fenice di Venezia, il San Carlo di Napoli, e poi ancora teatri a Modena, Bologna, Reggio Emilia, Milano, Palermo, Ferrara…

Si perfezionano gli strumenti musicali e si consolidano i generi, che diventano pressoché uguali a quelli odierni: la sonata (tutto ciò che è solo suonato, non cantato), il concerto solistico, il concerto grosso, la sinfonia (una sonata pensata per più strumenti).

L’opera lirica diviene un genere strutturato esportato in tutta Europa (anche Mozart scriverà opere italiane): si consolida con la sinfonia (un’«ouverture»), con i numeri (arie, duetti, coro) e con il libretto, fatto apposta per l’opera, che riprende i temi mitologici, gli eroi omerici, i personaggi della storia antica.

Si diffonde anche la musica esclusivamente strumentale, favorendo la nascita di numerose scuole (a Venezia, a Modena, a Ferrara, a Bologna…). A Napoli fiorisce la grande scuola napoletana, i cui protagonisti saranno riscoperti solo di recente per merito di Riccardo Muti. Arcangelo Corelli è il caposcuola della scuola romana, porta il concerto grosso alla sua massima espressione: per primo rifiuta la vocalità, scrivendo solo musica strumentale, e questo è il motivo per cui in Italia troverà molti ostacoli, mentre sarà apprezzato nel resto d’Europa.

Antonio Vivaldi, il più famoso musicista veneziano del tempo, è stato riscoperto solo all’inizio del Novecento: il suo stile agile, preciso e limpido non era amato dai Romantici. Nato prematuro a Venezia il 4 marzo 1678, malato d’asma, rimarrà legatissimo alla famiglia, dalla quale non si allontanerà per gli studi: questo gli consentirà di apprendere a suonare il violino direttamente dal padre, un musicista di talento. Avviato alla carriera ecclesiastica, è ordinato diacono nel 1699 e sacerdote nel 1703 (ma, a causa della sua salute cagionevole, sarà dispensato dal dir Messa). Viene assunto dall’Ospedale della Pietà, che si occupa dell’istruzione delle orfanelle, alle quali offre anche una formazione musicale. Non tutte le sue allieve, comunque, sono orfanelle: non lo è Anna Giraud («Annina del Prete Rosso»), con la quale intratterrà una discussa relazione (anche se vivranno separati, ognuno in casa dei propri genitori). La città lagunare sta subendo un grosso decadimento commerciale e politico, e il musicista ha il compito di distrarre e sorprendere (sono banditi i sentimenti profondi). Vivaldi scriverà musica ad un ritmo forsennato per quarant’anni, musica di consumo per Venezia e per le sue allieve: più di 500 concerti e 43 opere liriche; per un certo periodo comporrà anche musica sacra come Maestro del Coro all’Ospedale della Pietà. Vivaldi è prima di tutto un grande violinista, la sua produzione è contrassegnata da una costruzione in cui il solista, proprio come un cantante, dialoga con l’orchestra; ma la maggior parte dei suoi concerti non verrà stampata. Le opere principali sono l’Estro armonico (1711), la Stravaganza (dodici concerti solistici, 1712); comincia ad occuparsi di opere liriche dal 1713, seguendone le rappresentazioni, assumendo personalmente ballerini, scenografi, cantanti… Nel 1725 compone concerti solistici, di cui i primi quattro sono le Stagioni, le sue composizioni oggi più famose: Vivaldi è un musicista urbano, guarda la natura con un certo distacco eppure proprio a lui dobbiamo i migliori esempi di musica descrittiva di paesaggi ed emozioni campestri. Nel 1740 si reca a Vienna, probabilmente nella speranza di avere il posto di Maestro di Cappella alla Corte di Francesco di Lorena, che gli ha manifestato il suo favore, ma l’Imperatore è troppo occupato in guerra. Non risulta che in questo periodo, a Vienna, venga eseguita la sua musica. Il 28 luglio 1741, il registro del Duomo di Santo Stefano riporta notizie del funerale di Vivaldi in forma modestissima.

Johann Sebastian Bach opera una grande sintesi che spazia nelle epoche storiche, nei generi musicali, nei Paesi Europei. La sua musica è tutta incentrata sulla ricerca del sublime, di Dio: la musica contribuisce ad elevare sempre di più l’animo umano verso la conoscenza e l’amore di Dio (ed unirà, dal punto di vista musicale, Cattolici e protestanti). L’uomo, per lui, è fatto intimamente di musica, tanto che non è necessario nemmeno che l’ascolti, basta che ne legga la partitura. Studia approfonditamente Vivaldi (lo si nota nei suoi concerti) e subisce l’influsso delle grandi civiltà musicali italiana, francese ed inglese, ma il suo messaggio è originalissimo: cercare di rappresentare, con la musica, il volto stesso di Dio. Per far questo, affronta tutti i generi musicali, sia sacri che profani: scrive partiture per organo, per clavicembalo, compone musica strumentale (severa, contrappuntistica, più ricercata di quella di Vivaldi), musica profana (50 cantate) e tantissima musica sacra (200 cantate, quattro Magnificat e quattro Passioni, di cui due andate perdute); si è detto che non ha scritto opere liriche, ma non è vero: le Passioni sono rappresentazioni del divino, vere e proprie opere liriche. Ufficialmente, Bach – che viene da una famiglia di musicisti – è solo un maestro di canto, ma in realtà è anche organista, clavicembalista, direttore d’orchestra, insegnante di latino… ha avuto due mogli e venti figli, alcuni dei quali hanno seguito le orme paterne diventando a loro volta musicisti. Come quella di Vivaldi, anche la sua musica per un secolo sarà dimenticata: a riscoprirla sarà Mendelssohn, che nel 1829 a Lipsia realizzerà la prima esecuzione «moderna» della Passione secondo Matteo.

Georg Friedrich Händel è l’ultima grande figura di musicista cosmopolita. Nasce ad Halle, in Sassonia, il 23 febbraio 1685, lo stesso anno di Bach. Ricusando l’intenzione del padre di farne un avvocato, intraprende la carriera di musicista, prima come organista, poi come violinista. Due sono i tratti che lo caratterizzano: il suo internazionalismo e la sua spiccata predilezione per l’opera teatrale, sopra a qualsiasi altro genere musicale. Le sue prime composizioni sono rappresentate nel 1705; l’anno seguente parte per l’Italia e vi rimane tre anni, visitando Venezia, Firenze, Roma (dove entra in contatto con alcuni artisti appartenenti all’accademia dell’Arcadia) e Napoli. Il viaggio in Italia è un’esperienza determinante nella sua vita: da una parte gli permette di venire in contatto con i maggiori compositori italiani dell’epoca e di assimilarne i tratti stilistici, dall’altra parte può cimentarsi in tutti i generi musicali, sia sacri che profani. Dopo un breve periodo trascorso in Germania, nel 1710 visita Londra, dove l’anno successivo rappresenta il Rinaldo ottenendo un clamoroso successo. Nel 1713 si stabilisce definitivamente nella città sul Tamigi, iniziando una carriera di operista nel corso della quale produrrà ben 32 opere. Possiede un grande talento drammaturgico, in grado di inventare stacchi improvvisi tra una scena e l’altra, di utilizzare soluzioni ardite, immaginando lo spettacolo in tutte le sue componenti: in breve tempo, l’opera seria italiana si impone su qualsiasi altro genere musicale, ed Händel su qualsiasi altro compositore. Si dedica anche alle composizioni sacre, soprattutto agli oratori (celeberrimo il Messiah, contenente l’«Alleluia» che, secondo la tradizione, si ascolta in piedi), realizzando un tipo di drammaturgia «vivace», affidando al coro una funzione determinante, facendone a volte il protagonista, creando con il coro una «scenografia sonora». Il soggetto è quasi sempre tratto dall’Antico Testamento, perché il pubblico assimila il popolo ebreo al popolo inglese, invincibile perché – proprio come gli Ebrei – è protetto da Dio. Scrive anche una serie di concerti per organo solista e si dedica al concerto grosso di stampo corelliano. Dal 1751, quasi completamente cieco, è costretto, per comporre, a dettare le sue opere agli amici più fidati. Muore a Londra il 14 aprile 1759, all’età di 74 anni.

È ormai tempo, nei decenni che vanno dal 1725 al 1750, che la musica muti direzione: con Christoph Willibald Gluck, iniziatore del «classicismo viennese», comincia il predominio musicale tedesco.


Ragione e sentimento: dal Classicismo al Romanticismo

Gli anni che vanno dalla metà del Settecento a tutto l’Ottocento sono l’epoca più feconda in campo musicale. Essi sono caratterizzati da due fenomeni diversi, anzi, addirittura contrapposti: il Classicismo ed il Romanticismo.

Il Classicismo, che dalla metà del XVIII secolo arriva fino agli anni successivi al Congresso di Vienna (1814-1815), è caratterizzato da un grande equilibrio tra forma e contenuto, dalla ricerca della linearità, dalla razionalizzazione del discorso musicale, dall’adozione di regole rigorose. L’esempio più tipico è lo schema noto come forma-sonata, una struttura basata sulla dialettica fra due temi molto spesso contrastanti fra loro e articolata in tre parti: esposizione, sviluppo e ripresa; nella prima parte si ascoltano i due temi, nella seconda si rielaborano in tutti i modi possibili, nella terza si riascoltano i temi. L’obiettivo del Classicismo è l’universalità del linguaggio musicale, tuttavia tutti gli interpreti più celebri sono legati a Vienna, e influenzati dalle idee illuministe: l’arte deve tener conto del grande pubblico e non più di un gruppo scelto di esperti e non deve più porsi come semplice intrattenimento, ma deve agire sul cuore e sulla mente dell’ascoltatore. Un’instancabile circolazione di prodotti e di idee mette a contatto tradizioni diverse, ciascuna delle quali ha elaborato risorse tecniche e strumenti espressivi propri: Vienna e tutto l’Impero Austriaco sono il centro più attivo di questi scambi. Si afferma l’orchestra sinfonica polistrumentale, sostituendo le orchestre formate da strumenti appartenenti alla stessa famiglia, si sviluppa la sinfonia (le cui basi sono state gettate in Italia), si perfezionano strumenti già esistenti e se ne inventano di nuovi, come il pianoforte che si imporrà sul clavicembalo (è più adatto a dialogare con gli altri strumenti, ha una maggiore espressività, il controllo delle dinamiche consente una maggiore resa espressiva). Nascono opere di commedia, non più limitate ad intermezzi comici con situazioni di vita quotidiana rappresentati tra un atto e l’altro dell’opera seria: l’opera buffa raggiunge una sua propria autonomia con creazioni come La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, oppure Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte di Mozart. Nell’opera seria si cerca di esprimere sentimenti significativi, raggiungendo però un perfetto equilibrio tra la musica e quello che è il dramma effettivo.

La Germania assume un ruolo guida, che detiene tuttora.

L’ideologo del classicismo viennese è Franz Joseph Haydn (1732-1809): crea la «confezione» delle composizioni classiche, inventa il quartetto d’archi, è l’artefice della sinfonia in senso moderno (codifica la forma-sonata). È un uomo totalmente ancorato all’Ancién Régime, senza alcun desiderio di cambiare il mondo: Ungherese ma di cultura austriaca, nato in estrema povertà, diventa Maestro di Cappella presso la ricca famiglia degli Esterházy che lo stipendia lautamente, dandogli la possibilità di istituire un’orchestra tutta sua. Haydn scrive musica pura, che non ha un vero e proprio messaggio da trasmettere: per lui la musica non è altro che una serie di moduli matematici che funzionano perfettamente, come degli orologi, con una loro logica interna e (per le composizioni sacre) con una loro teologia – risiedendo in un palazzo immerso nel verde e nel silenzio, considera il mondo perfetto e senza nulla da mutare. Ma le cose mutano suo malgrado, il suo mecenate muore e il figlio lo licenzia. Inizierà così a viaggiare, prima a Parigi, poi a Londra dove verrà assunto dall’impresario Johann Peter Salomon: nella capitale inglese compone le dodici sinfonie londinesi (sono 107 quelle scritte in tutta la sua vita) ed ha l’ispirazione per i celebri Oratori – scritti dopo il ritorno a Vienna – La Creazione e Le stagioni. Se nel primo Oratorio Haydn si mantiene fedele al racconto biblico, con una musica che trasmette un messaggio profondo (con il DO maggiore iniziale che fa pensare ad un sole che sorge, o addirittura al Big Bang), nel secondo Oratorio la musica si fa «spensierata», come se descrivesse un paesaggio.

Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart è stato definito in vari modi: bambino prodigio, miracolosa epifania, genio inconsapevole; il suo mito è stato codificato in particolare nell’età romantica. Del resto, è stato geniale davvero: ha iniziato a comporre a cinque/sei anni, ha smesso a trentacinque anni ma solo perché è morto; è stato il musicista più universale, con 626 titoli che spaziano su ogni genere: 56 sinfonie, e poi quartetti, danze, Oratori, concerti per strumento solista e orchestra, musica da camera, sonate per pianoforte, lieder, composizioni profondissime, musiche d’occasione… È il compositore classico più famoso, ma a parità di fama è oggi il meno ascoltato per la complessità della sua musica. Oltretutto, Mozart è un uomo enigmatico: la sua musica è fatta di eleganza, armonia, calma imperturbabile, ma nella vita lui è scurrile nel linguaggio, disordinato, dispendioso, incurante della propria salute. Nasce in una casa tuttora esistente nel centro di Salisburgo, sede arcivescovile e territorio sovrano appartenente al Sacro Romano Impero Germanico. A tre anni batte i tasti del clavicembalo, a quattro sa già suonare brevi pezzi. Il padre, musicista, decide di dargli un’educazione itinerante: a sette anni inizierà una serie di viaggi che lo porteranno in giro per l’Europa Occidentale (Monaco, Augusta, Stoccarda, Mannheim, Magonza, Francoforte, Bruxelles e Parigi, poi Londra, quindi L’Aja, Amsterdam, Parigi, Lione, la Svizzera e infine ancora Salisburgo); durante queste peregrinazioni incontrerà musicisti, letterati, filosofi, correnti culturali. Di importanza fondamentale sono i tre viaggi in Italia, dal 1769 al 1773: tantissimi i centri che tocca, da Bolzano a Napoli, visita Pompei, a Milano rimane quasi un anno perché la città meneghina è la capitale culturale della musica, a Roma si racconta che abbia imparato a memoria il Miserere di Gregorio Allegri dopo averlo ascoltato solo due volte alla Cappella Sistina. È il musicista più formato della sua epoca, ma al suo ritorno a Salisburgo viene assunto come musicista presso la corte dell’Arcivescovo Hieronymus von Colloredo con un basso stipendio. A neanche vent’anni si reca con la madre a Parigi per diventare un musicista autonomo; in una delle sue lettere si cita un suo possibile incarico da organista presso la Reggia di Versailles, che lui non si mostra disponibile ad accettare. È costretto quindi a tornare dall’Arcivescovo Colloredo, che prima gli triplica lo stipendio, e poi lo licenzia facendolo mettere dal camerlengo «alla porta con un calcio nel culo» (come racconterà lo stesso Mozart in una lettera). Si reca quindi a Vienna, una città immersa nell’Illuminismo, con intellettuali aristocratici che basano la propria vita sul culto della ragione, per costruire un mondo dove tutto possa funzionare al meglio – qui, nella capitale asburgica, il compositore può finalmente realizzare il suo sogno di comporre opere seguendo il capriccio della propria volontà. Nella sua musica, Mozart cerca di esprimere la volontà di cambiare il mondo: vuole raccontare quello che prova l’animo umano, ma sempre con equilibrio, senza esasperazione. La sua musica è raffinatissima, e nello stesso tempo carica di una forza innovativa enorme, con dentro addirittura qualcosa che ha del sovversivo: prendiamo ad esempio il Don Giovanni, dove il protagonista fa della propria libertà qualcosa di assoluto, tutto l’opposto della società del tempo (a Praga il pubblico non capisce l’opera e abbandona la rappresentazione per andare a vedere un’opera buffa); oltretutto, il servo Leporello maledice e minaccia di riempir di botte il padrone – memorabili le sue parole all’inizio dell’opera: «Notte e giorno faticar, / per chi nulla sa gradir, / piova e vento sopportar, / mangiar male e mal dormir. / Voglio far il gentiluomo / e non voglio più servir...». È tutto pronto, si potrebbe dire, per la Rivoluzione Francese!

Con Ludwig van Beethoven, vissuto a cavallo tra Settecento ed Ottocento, il musicista prende coscienza del fatto che ha una missione da compiere: far progredire l’uomo, guidarlo al bene; portare all’uomo un ideale che lo possa spingere a cambiare completamente vita, a creare un mondo nuovo. In questo, la cultura ha un ruolo decisivo, senza di essa l’uomo è depauperato di qualcosa di fondamentale. Nella Terza Sinfonia, l’Eroica, all’inizio si presenta la morte di qualcosa di vecchio, ma poi c’è una carica di positività e di energia: ogni uomo deve donare agli altri quanto di meglio lui possiede, per migliorarli. Nella Quinta Sinfonia, il destino sta bussando alla porta di ogni uomo, è questo il momento per cambiare il mondo. Nella Nona Sinfonia, per essere sicuro che il suo messaggio venga compreso da tutti senza fraintendimenti, nel IV movimento inserisce l’Inno alla Gioia di Schiller, vero e proprio cantico alla fratellanza universale. Beethoven, che continuerà a comporre anche dopo aver perso l’udito, semplifica il suo linguaggio musicale perché vuol essere compreso da tutti, anche dall’uomo della strada, e in tutte le epoche: la sua musica, il suo messaggio sono rivolti anche a noi stessi!

Nato in Germania e diffusosi in un’Europa sconvolta prima dalla Rivoluzione Francese e poi dalla bufera napoleonica, il Romanticismo è una corrente di pensiero che annovera al suo interno un gran numero sia di filosofi che di letterati. Gli intellettuali romantici ravvisano nella religione – spesso intesa come vago panteismo o come adesione ad una confessione positiva, storica – non solo la sorgente di ogni arte e poesia autentiche (Friedrich Schleiermacher), ma un sapere immediato ed un’immediata risposta alle domande dell’esistenza, ciò che dà un senso alle cose, alla sofferenza, al dolore, alla morte. L’artista, che non è solo mente razionale ma anche sentimento, passioni, sogni ed istinti oscuri, deve avere una libertà senza confini e senza regole. La regina delle arti è considerata la musica: ha ben spiegato Ernst Theodor Amadeus Hoffmann che «la musica, è la più romantica di tutte le arti, il suo tema è l’Infinito. Essa è il misterioso linguaggio della natura espresso in suoni» e che «la musica […] risveglia quel desiderio infinito che è l’essenza del Romanticismo». I Romantici, alla ricerca di un essere «religioso» che identificano nell’uomo medievale e in una società rispettosa della natura e dei suoi cicli, in aperta polemica con la società industriale e il «macchinismo» che si va sempre più affermando (inteso come sfruttamento e deturpamento dell’ambiente naturale), hanno il grande merito di fondare la filologia antica e comparata, l’etnologia, di riscoprire documenti letterari, canti, fiabe, antiche leggi e leggende; il misticismo e la religione sono visti come forza d’unificazione e riunione, in un’Europa che sembra essere in una fase di disordine ed anarchia assoluti. I Romantici sono assetati d’infinito, spinti dalla «Sehnsucht» («sehnen» = desiderare e «sucht» = ricerca, o smania), che non è solo una qualche forma di nostalgia, ma è un vero desiderio di desiderare, così inestinguibile da trovare solo in se stesso l’unica forma d’appagamento; l’uomo romantico è sempre alla ricerca del dilemma irrisolvibile, e desidera vivere esperienze al di là di tutto ciò che è normale o quotidiano. L’amore è uno dei temi prediletti dall’artista: l’amore, l’unità assoluta degli amanti, si sovraccarica di significati metafisici, è visto come simbolo dell’universale Armonia, nell’amore l’Assoluto è già trovato, già raggiunto. Viene esaltato tutto ciò che è personalità individuale ma anche popolo, inteso come totalità organica, come unica persona indivisibile che pensa e che sente: il popolo ha un unico spirito, una storia, delle tradizioni, una cultura comune. Fioriscono tutte le identità nazionali, si rivalutano tutte le distinzioni tra i popoli e le culture: nasce l’idea che «ciò che è giusto a Parigi può non esserlo a Napoli», perché diverse sono le condizioni materiali effettive (storico-culturali) in cui ci si trova. Se il Classicismo ricerca la razionalità, il limite, l’universalità, il Romanticismo esalta il sentimento, l’oltre-limite, l’individualità.

Che cosa si può fare dopo Beethoven? È questo il dubbio che assilla Franz Peter Schubert, compositore austriaco di musica classico-romantica, e con lui tutti i musicisti tedeschi, schiacciati dall’incombente presenza del grande «Ludwig van». Sarà forse per questa presenza che la musica di questo geniale compositore, morto giovanissimo a nemmeno 32 anni – una musica che torna all’intimità, alla sfera interiore, a cogliere ogni più intima sfumatura dell’animo umano –, sarà incompresa e dimenticata per molto tempo? La sua immensa produzione artistica, comprendente circa 600 capolavori tra cui è doveroso ricordare i quattordici lieder denominati Il canto del cigno, la Sinfonia Numero 9 La grande (scomparsa per oltre un secolo), le sonate per pianoforte, tutto fu raccolto dal fratello e ammassato in solaio, a ricoprirsi di polvere.

A trovare la musica di Schubert è Robert Alexander Schumann, compositore di straordinario talento, un intellettuale ed esteta che è anche letterato e giornalista: la sua musica, audace ed originale per armonia, ritmo e forma, è intrisa di viva nostalgia, di un forte senso di pessimismo e di amarezza, sentimenti che fanno parte dello spirito romantico più maturo – si perde ogni connotazione eroica e si punta verso ciò che non si è stati capaci di realizzare. Tutto nasce dal contrasto insanabile, dal dislivello tra l’ideale e il reale, tra il sogno e la realtà quotidiana: questo divario genera un’angoscia profonda. Sebbene critichi la vita borghese, Schumann sceglie per sé proprio la vita borghese: sposa una ragazza ventunenne, Clara Wieck, pianista e compositrice, che gli darà numerosi figli. Verrà chiamato a Düsseldorf, in Renania, come direttore generale della musica; ma durante il soggiorno si aggraveranno i sintomi di una sua instabilità mentale già manifestati in precedenza. Tenterà il suicidio e sarà infine internato nel manicomio di Endenich presso Bonn, assistito dalla moglie e dall’amico Brahms fino alla morte, nel 1856. La sua musica eserciterà una forte influenza su Liszt, Berlioz, Wagner e Chopin.

Johannes Brahms, compositore del tardo romanticismo, grande amico di Schumann e della di lui moglie Clara, punta moltissimo sulla musica da camera, sia con pianoforte che senza pianoforte, oltre a scrivere quattro sinfonie, concerti e varie composizioni di musica vocale. Capisce di comporre musica in avanti sui tempi, ma non vuole slegarsi dalla tradizione: utilizza degli schemi antichissimi (torna al contrappunto, a Bach…) ma per creare una musica innovativa, come nella Quarta Sinfonia (l’unica composta rapidamente), che è modernissima nonostante che il materiale che la compone sia molto antico. Si oppone alla società capitalista del suo tempo, la borghesia emergente ha una scala di valori che per il musicista non è accettabile. L’incertezza, l’incapacità di trovare una sua via, una direzione nella vita ne fanno un’anima tormentata: sa che di certezze, ormai, ce ne sono poche. La sua è la musica che sta ormai introducendo il Novecento.


Il Novecento e la musica contemporanea

Definito «il secolo breve», è in realtà incredibilmente denso di eventi e di scoperte che hanno totalmente rivoluzionato la vita dell’uomo: due guerre mondiali che hanno visto la comparsa di nuove, terribili armi (i carri armati, le mitragliatrici…) ed hanno provocato decine di milioni di morti, i grandi regimi totalitari (comunismo e nazismo in primis), la rivoluzione scientifica, la nascita delle metropoli, la crisi della cultura europea (che è una crisi in realtà di tutto l’Occidente e dei suoi valori) innescata dal nichilismo. Sarebbe impossibile pensare che la musica rimanga immune da tutto questo stravolgimento, ed infatti anch’essa cambia in maniera radicale. Possiamo farcene un’idea ascoltando un brano come Amerique di Edgard Várese (1922), una cacofonia di suoni o se vogliamo di rumori che richiamano le immagini della vita frenetica di una città o di un’industria: il traffico, la ripetitività ossessiva della catena di montaggio, la sirena del cambio di turno – una musica che descrive quello che l’uomo sente dentro di sé, l’angoscia per la vita in un ambiente che non è l’ideale per l’essere umano, metropoli dove si vive tutti ammassati e cementificati in fabbriche, tra montagne di auto, e circondati da prodotti della tecnologia totalmente nuovi: apparecchi radiofonici e televisivi, telefoni, lavatrici, aspirapolveri…

Cambia la musica, ma cambia in particolare la mentalità dell’artista, il suo modo d’essere e il suo ruolo nella società: a partire dalla fine dell’Ottocento, l’artista non è più «integrato» nel mondo in cui vive e di cui condivide gli ideali, ma diventa un artista «contro», la coscienza critica di una società che ha smarrito la giusta direzione. Soprattutto gli artisti delle avanguardie criticano i mali della modernità: guerre, regimi politici oppressivi e sanguinari, alienazione, eccessi del profitto, politica antiumana, vuoto di valori, capitalismo sfrenato e consumismo, devastazione dell’ambiente naturale, scienza e progresso disumani, come se l’anima dell’uomo si inaridisse, si svuotasse. È la grande crisi dell’Occidente e dei suoi valori. La musica, che anticipa questa crisi, diventa sempre più difficile e complessa, perché è sempre più arduo per i musicisti trovare un linguaggio musicale che possa racchiudere la complessità man mano crescente della società moderna: solo pochi ascoltatori sono in grado di capire questa musica, e si viene a creare in questo modo un solco profondo tra la musica e il grande pubblico, un solco presente ancor oggi.

Gustav Mahler è un uomo spaccato a metà, vissuto a cavallo fra due epoche, l’Ottocento e il Novecento. Formalmente resta ancorato alla musica dell’Ottocento (sinfonia, forma-sonata, cicli di lieder, un genere ormai desueto), ma ha sapori, atmosfere, messaggi totalmente diversi: nella Quinta, Sesta e Settima sinfonia anticipa la Prima Guerra Mondiale, presagisce la fine dell’Impero Austro-Ungarico e la dissoluzione dell’Antico Regime. La sua è la musica dell’inquietudine, della drammaticità, delle nevrosi, esprime tutta l’incertezza sociale e culturale di inizio Novecento, il presagio di un mondo prossimo alla fine: non può dare delle certezze, può solo dire dove stiamo andando.

Igor Stravinsky (1882-1971) attraversa tutto il Novecento, con un suo stile personalissimo. Nato in Russia, formatosi alla scuola nazionale, dal 1909 al 1939 si reca a Parigi, che con Vienna è il centro culturale del mondo (verrà anche coinvolto in una rissa, non si saprà mai se iniziata da lui o dai musicisti francesi invidiosi del suo talento). Stravinsky passa una fase musicale avanguardista, una neoclassica (con opere che richiamano la musica di Pergolesi), una atonale (dodecafonica), una sacra. Nella Sagra della primavera (1913) mette in scena un olocausto nell’immensità della steppa russa, una ragazzina sacrificata per propiziare il favore degli dèi; il linguaggio musicale è di una innovatività e di una violenza mai udite, con un’orchestra possente in cui gli strumenti «stonano» per rimandare al rituale pagano, creano delle dissonanze e delle sonorità inconsuete, dando un’impressione di disagio, di confusione. Le percussioni diventano l’elemento dominante: è la musica «fauve» (parola che potremmo tradurre con «bestiale»), che si richiama al canto popolare russo, alla primitività, a qualsiasi cosa che non sia scontata.

Mahler muore prematuramente nel 1911, la Sagra della primavera, lo abbiamo ricordato, è del 1913: tra queste due date fondamentali, nel 1912, si situa il Pierrot Lunaire (basato su 21 liriche ispirate alla celebre maschera francese), opera-manifesto di Arnold Schoenberg (figura chiave di quella che è diventata la «lingua ufficiale» della musica colta del Novecento). Formatosi da autodidatta, uomo dalle esigenze spirituali profonde, Schoenberg prende l’eredità di Wagner, inventa il sistema dodecafonico (una scala di dodici suoni in relazione con se stessi), esaspera l’idea di non fare più percorsi logici, l’orecchio non deve più poter prevedere la successione delle note; la sua volontà è di far suonare gli strumenti come se fossero strumenti di tipo diverso, non ci sono note ma segni, altezze, il Pierrot Lunaire non è né parlato, né cantato (l’esecutore declama le parole con un vago accento musicale). Pierrot è una maschera tragica e dolente, un uomo del proprio tempo: è «lunare» perché incapace di levare lo sguardo al sole e attratto dal chiarore della luna, una luce cupa, plumbea, opaca: la luna è il simbolo dell’inconoscibile, del mistero della vita.

Sono le avanguardie che codificano a livello teorico gli indirizzi della musica suonata a Vienna, e che diventano i movimenti seguiti dalla maggior parte dei musicisti. Pierre Boulez continua Schoenberg, segue l’estetica cosmopolita dell’avanguardia: la musica si fa sempre più complessa ed ardua, sia da eseguire che da ascoltare.

Alban Berg condivide con Schoenberg la crisi del sistema tonale, ma punta più decisamente verso il teatro d’opera, con due titoli capitali: Wozzeck (1925) e Lulu (1935, rimasta incompiuta). Ricavata dal lavoro teatrale Woyzeck di Georg Büchner, Wozzeck parla di un soldato oppresso dalla disciplina militare, vittima dei superiori, che quando scopre il tradimento della moglie ha un terribile scoppio di violenza e si toglie la vita (è una critica all’ideologia militarista che poi sarà esasperata e fatta propria dal nazismo). Lulu, emblema del teatro espressionista, è un’opera tratta dai drammi Erdgeist (Spirito della terra) e Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora) di Frank Wedekind: ne viene proibita l’esecuzione per il messaggio «rivoluzionario» che veicola e che riguarda l’onnipotenza del sesso nella società, sesso che non è più amore né gioia.

Webern va nella direzione opposta, punta al minimalismo che arriva fin quasi al silenzio assoluto.

Ci sono, naturalmente, tantissimi musicisti e movimenti che non si adeguano alla corrente dominante: per esempio, le scuole nazionali.

È fuori dalle avanguardie, ad esempio, Claude Debussy (anche se ci sono interi passaggi delle sue composizioni che non sono più tonali – usa una scala esatonale, sei toni senza i semitoni): Debussy crea musica del tutto nuova (nella sinfonia, nell’opera, nella musica da camera, in particolare nelle composizioni per pianoforte), realizzando un linguaggio musicale estremamente complesso ma rendendolo apparentemente semplice e carezzevole per le orecchie. Per esempio, nel componimento La Mer (1903-1905) ci sono momenti di grande dolcezza e morbidezza che il compositore definisce «schizzi» sinfonici, come se stesse dipingendo (si parla di «impressionismo musicale»). Lui però non è contento che le sue composizioni vengano definite dei «quadri» musicali. Il titolo viene posto solo alla fine della partitura, perché vuole lasciare l’ascoltatore libero di immaginare ciò che la semplice musica suggerisce alla sua fantasia.

Richard Strauss si basa sui grandi compositori del passato, la sua musica rientra nei canoni ma con un senso di non finitezza, utilizza organici sterminati e una tavolozza sonora ricca di suoni e di nuove melodie: indimenticabile è l’incipit del poema sinfonico Così parlò Zarathustra, dove tre sole note riescono ad evocare il sole che sorge, l’avvento di un mondo nuovo.

Béla Bartók punta tutto sulla ricerca etno-musicologica, individua il canto popolare primitivo della civiltà europea; dopo aver scoperto le musiche contadine dei magiari, che sono le autentiche musiche popolari ungheresi, Bartók comincia ad includere canzoni popolari nelle proprie composizioni e a scrivere temi originali con caratteristiche simili, oltre ad usare frequentemente figure ritmiche di matrice folklorica: la sua musica parte da radici antichissime, ma è innovativa. Né il suo esempio rimarrà inascoltato: Debussy e Ravel viaggiano nei Paesi tropicali (Debussy rimarrà affascinato, durante l’esposizione universale di Parigi nel 1889, sentendo un gruppo di Giavanesi esibirsi coi gamelan, delle zucche che suonano); Janacek cerca la musica popolare ed etnica cecoslovacca, crogiolo di tante epoche, ma sviluppa una musicalità tutta sua: celebre è la Messa glagolitica per soli, coro, organo ed orchestra, del 1926 (il glagolitico è il più antico alfabeto slavo conosciuto).

Sergej Prokof’ev rimane apparentemente su un linguaggio tradizionale, ottemperando all’estetica del «realismo socialista»: comunista convinto, ha il compito di comunicare i valori del comunismo al popolo e dà vita ad autentici capolavori di espressività, pur mantenendosi nel solco della tradizione – ricordiamo le opere Il giocatore e Guerra e pace, i balletti Romeo e Giulietta e Cenerentola, la favola musicale Pierino e il lupo (scritta per insegnare ai bambini a riconoscere gli strumenti musicali).

Dmitrij Šostakovič scrive musica sinfonica e corale, da camera, per balletti e per pellicole. Aderisce al comunismo e compone opere celebrative (come la Sinfonia Numero 7 Leningrado, sulla resistenza della città assediata dai Tedeschi, la Sinfonia Numero 9, sulla vittoria dell’Unione Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale, o la Sinfonia Numero 10, sulla morte di Stalin), ma tra le pieghe della partitura si nota una forte contestazione per come il comunismo è stato attuato in Unione Sovietica: subirà due denunce ufficiali a causa delle sue composizioni, i suoi lavori saranno periodicamente censurati e la sua totale riabilitazione avverrà solamente dopo la morte di Stalin, quando la sua grandezza verrà finalmente riconosciuta.

Dall’altra parte dell’Oceano, George Gershwin – considerato l’iniziatore del musical americano – unisce la musica classica al jazz componendo capolavori come le composizioni orchestrali Rapsodia in blu (1924) e Un Americano a Parigi (1928), oltre all’opera popolare Porgy and Bess (1935).

La musica delle avanguardie ha creato indubbi capolavori, ma anche un profondo solco col grande pubblico: da una ventina d’anni c’è però un fenomeno nuovo, si sente l’esigenza di usare un linguaggio musicale più semplice (ritorno al sistema tonale), che possa parlare nuovamente al grande pubblico.

Philip Glass, nato nel 1937, esponente della scuola minimalista, ha scritto pagine di musica strumentale, solistica, sinfonie, sonate, composizioni innovative e tre opere liriche, di cui la migliore è l’ultima, The perfect American (2011-2012). L’opera tratta della figura di Walt Disney, ma attraverso la sua vicenda il compositore fa una riflessione su qual è l’uomo contemporaneo, su quale è la sua vera dimensione e in particolare su quali sono i suoi limiti (c’è il tema della malattia, del progresso, del riflettere su quale sia la propria sorte e su dove si giunga una volta superata la soglia della morte…).

Il Polacco Henryk Górecki, scomparso nel 2010, è noto soprattutto per la Sinfonia Numero 3 Dei canti lamentosi (1976), composta da tre movimenti: il canto del primo movimento è un lamento del XV secolo, il secondo movimento utilizza delle iscrizioni ritrovate sul muro di una prigione della Gestapo a Zakopane (a volte vere e proprie poesie scritte dai deportati), mentre il terzo movimento riprende una canzone tradizionale. Adrian Thomas ha scritto di lui che «il passato musicale della Polonia, la sua Chiesa e la sua cultura tradizionale sono i pilastri indistruttibili su cui sono fondati la sua identità e le sue origini, così come quelle del suo Paese».

In Italia abbiamo compositori di sicuro talento come Nicola Campogrande (autore di musica cameristica e sinfonica), Carlo Boccadoro (autore di musica sinfonica e cameristica, per il teatro e per la danza), Bruno Mantovani, Luca Francesconi, Giorgio Battistelli e molti altri, conosciuti ed apprezzati anche all’estero. Alcuni di loro rimangono nelle avanguardie (una composizione di Battistelli si avvale, come strumenti musicali, di picconi e martelli pneumatici, con gli orchestrali vestiti da operai), altri percorrono delle vie più «comprensibili». Oggi la musica dev’essere «da consumare», e i grandi musicisti sono conosciuti solo da chi entra in un certo mondo di nicchia: oltretutto i compositori per vivere sono costretti a svolgere un altro lavoro, oltre a quello di scrivere musica (per esempio, Campogrande è giornalista, Boccadoro è scrittore, Battistelli è organizzatore di eventi musicali); i committenti delle opere sono i grandi teatri come La Scala, o il Festival di Salisburgo: è la musica che genera se stessa, ma che nasce comunque da un bisogno umano. Non è vero che la musica classica sia un genere morto, o in decadenza… tutt’altro: in questi anni c’è un grande fermento sia di composizioni che di autori, un mondo vivissimo che continua a produrre opere importanti che parlano dell’uomo di oggi all’uomo di oggi, con il linguaggio proprio della nostra epoca.


Note

1 L’uomo ha imparato a cantare prima che a parlare: il linguaggio parlato non è altro che canto codificato. La lingua greca antica e la latina erano cantate, non parlate come la nostra; l’italiano ha traccia di questo nella soavità delle sue parole terminanti in vocali, definite una nota musicale in chiusura di parola.

2 Ecco il testo dell’epitaffio: «Possa tu brillare, / fin che vivi. / Non ti affliggere del tutto. / La vita dura poco: / il tempo reclama / il suo termine».

3 Il melisma consiste nell’esecuzione di più note sulla sillaba di un testo. Si contrappone allo stile sillabico, in cui ad ogni nota corrisponde una sillaba diversa.

4 Più popolari e più orecchiabili dei salmi, gli inni vengono diffusi nelle liturgie per opera di Sant’Ambrogio. Sono chiamati i «canti di lode a Dio» in quanto devono rispondere a tre requisiti: essere dei canti; avere per fine la lode; essere indirizzati a Dio.

(dicembre 2014)

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