Dalla pietra filosofale alla ricerca dell’ethos
Una vecchia utopia sublimata nel perseguimento dei valori essenziali

La storia della filosofia non è priva di qualche coinvolgente commistione con quella dell’alchimia: un esempio interessante in questo senso è costituito dalla lunga ricerca della «pietra filosofale» che si protrasse per parecchio tempo e alla quale si dedicarono personaggi importanti come Cristina di Svezia (soprattutto nel periodo trascorso a Roma dopo l’abbandono del trono di Stoccolma e la conversione al Cattolicesimo), Francis Bacon (nella filosofia empirica della sperimentazione intesa come matrice fondamentale della conoscenza) e Goffredo Guglielmo von Leibnitz (con la nota teoria delle «monadi» quali centri di atti concreti e determinati ma nello stesso tempo quali momenti di imprescindibile attività spirituale).

Si trattava di un’illusione più intellettuale che filosofica, umanamente comprensibile anche se oggi appare per lo meno opinabile, perché legata al fatto che proprio a quella pietra di straordinario valore presuntivo si attribuivano poteri paranormali di eccezionale rilevanza, in grado di cambiare le sorti della vita, sebbene tale ipotesi rimanesse allo stato di noumeno, disattendendo le attese di quanti avevano confidato di tradurlo in fenomeno.

Quella ricerca fu contraddistinta da un lungo impegno, svolto sul campo da parte del mondo scientifico, o presunto tale, e diede luogo a sperimentazioni effettive, dirette a verificarne la possibilità di un’improbabile produzione in laboratorio, aggregando diverse tipologie di materie prime. Per alcuni aspetti, si potrebbe dire che il tentativo di scoprire la «pietra filosofale» sia pure attraverso tentativi confusi ma ricorrenti, corrisponda all’ansia tipicamente umana di sovvertire con un colpo di bacchetta magica le «magnifiche sorti e progressive» che in tempi successivi sarebbero state cantate da Giacomo Leopardi. In qualche misura, fu un’illusione come tante, destinata a dimostrare quanto fosse utopistico, oltre che velleitario, il disegno di chi riteneva possibile costruire in laboratorio un oggetto in possesso di poteri straordinari, e nello stesso tempo quello di chi confidava in improbabili fonti materiali del pensiero, oltre che in possibili arricchimenti tanto rapidi quanto leciti.

L’antico «lapis philosophorum» deve intendersi, secondo la definizione più gettonata, come «sostanza catalizzatrice capace di risanare la corruzione della materia» (Enciclopedia Treccani). Detta così, è senza dubbio di qualche credibile apparenza, ma destinata a essere regolarmente smentita dalle stesse sperimentazioni storiche, al pari di altri referenti per lo meno surreali, come quelli secondo cui la pietra filosofale sarebbe stata un amuleto capace di trasformare i metalli vili in oro, se non anche di produrre un elisir di lunga vita: in entrambi i casi, con quali fondamenti scientifici è facile comprendere.

In effetti, le teorie più credibili sulla pietra filosofale, paradossalmente, non sono quelle fondate sulla semplice commistione chimica di singoli elementi, ma su simboliche esperienze di «elevazione spirituale» come in un antico imperativo di Basilio Valentino, secondo cui, visitando le profondità terrestri, è possibile trovare una pietra «occulta» capace di promuovere un’esperienza simbolica del tipo appena accennato.

Qualcosa del genere si può ritrovare anche in Italia, con riguardo a fatti relativamente recenti. Un esempio è reperibile nell’opera letteraria di Mauro Corona, il celebre artista e scrittore montanaro che negli anni giovanili fu cavatore di marmo nel bacino lapideo di Monte Buscada (Comune di Erto e Casso nel comprensorio dell’Alto Vajont) dove gli operai, secondo la sua testimonianza, andavano alla ricerca del cosiddetto «occhio di pescecane», una gemma di straordinario valore. Ciò, mentre lavoravano nel giacimento di rosso porfirico che poi sarebbe stato chiuso dopo la grande tragedia di Longarone dell’ottobre 1966, quando la frana del Monte Toc fece tracimare il lago oltre la diga creando un’onda anomala di parecchi metri e distruggendo l’abitato a valle, con circa 3.000 vittime. Si trattava, per l’appunto, di una pietra di colore azzurro e di pregio presuntivamente inestimabile che avrebbe arricchito il fortunato scopritore ma che era destinata a rimanere nel libro dei sogni, tanto più che, per l’appunto, l’attività estrattiva nel bacino in parola non sarebbe stata più ripristinata, nonostante le speciali provvidenze rese disponibili nel comprensorio.

Oggi, le illusioni dei vecchi alchimisti sono state consegnate ai ricordi, al pari delle speranze in una «fortuna» del tutto casuale che si distingue in negativo anche da quella di memoria rinascimentale coltivata nel complesso pensiero di Niccolò Machiavelli, capace di governare una quota importante delle cose umane a patto di saperla «cogliere» nel momento del suo rapido passaggio e di trarne le opportune conseguenze, in specie politiche. Dal canto suo, la filosofia è tornata nell’alveo più naturale e confacente, a cominciare da quello etico, ripudiando le antiche tentazioni dell’alchimia.

In questa ottica, la sofferta ricerca della «pietra filosofale» è andata sublimandosi e nobilitandosi in quella di un impegno personale che, secondo la lucida interpretazione della ricercatrice Laura Ottonello, deve identificarsi nel bene dell’anima, e conseguentemente nella ricerca di Dio, completando il percorso già avviato da Carl Gustav Jung, secondo cui la soluzione dei problemi, lungi dal poter sussistere esternamente all’uomo, deve essere perseguita nel suo cuore, nella sua volontà, e in ultima analisi, nella sua fede.

(luglio 2022)

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