Storia del pane
Cibo immancabile sulle nostre tavole, essenziale alla vita umana, simbolo del lavoro dell’uomo ed anche alimento sacro

Un aneddoto narra che, un giorno, il Re di Francia Luigi XI invitò alla sua mensa un ricco cortigiano, famoso per i crudeli maltrattamenti che infliggeva ai suoi contadini. Il pranzo era veramente regale; vennero servite le pietanze più prelibate e gustose, ma sulla tavola non apparve nemmeno una briciola di pane. Il cortigiano mangiò in silenzio la prima portata ma poi, non potendo gustare appieno quelle buone cose senza il pane, si fece coraggio e chiese al Re la ragione di quella grave mancanza. Il Sovrano allora gli rispose: «Se tu, giustamente, apprezzi il buon pane e lo consideri indispensabile accompagnatore dei cibi, non è altrettanto giusto che tu ti mostri crudele verso i contadini che lavorano duramente la terra per procurartelo».

Non sappiamo se il cortigiano abbia imparato la lezione. È certo comunque che in ogni epoca e presso molti popoli il pane è il cibo fondamentale dell’alimentazione, tanto che il controllo dei forni è stato spesso un aspetto essenziale del potere. Possiamo anzi dire che la coltivazione del frumento e dei cereali in genere, che servono per produrre il pane, è un indice del grado di civiltà dei popoli più antichi.

La sua grande importanza è dovuta specialmente a tre preziose qualità: il pane è uno dei cibi più economici, ha un alto valore nutritivo[1], ed è anche uno dei pochissimi alimenti che non vengono mai a noia e si gustano volentieri anche più volte ogni giorno. Oltretutto, secondo un recente studio scientifico, il profumo del pane appena sfornato rende le persone più altruiste e meglio disposte ad aiutare il prossimo (le persone che passavano davanti ad una panetteria che sfornava il pane aiutavano i bisognosi in maggior numero delle persone che sostavano davanti ad un negozio di abbigliamento).

Bisogna precisare che la parola «pane» indica il prodotto ottenuto con farina di frumento; si indica invece con «pane d’orzo», «pane di segale» e via dicendo il prodotto ottenuto con le farine dei rispettivi altri cereali. Sebbene sin dall’antichità il pane venga confezionato con la maggior parte dei cereali, il pane di frumento è quello migliore sia come sapore sia come valore nutritivo.

Anche la parola «grano» ha un significato che varia da Paese a Paese; essa indica infatti la specie cereale che in quel determinato Paese è maggiormente usata. Grano vuol dire quindi il frumento in Italia, Francia, Inghilterra e nella Germania Meridionale; la segale nella Germania Settentrionale; il frumento e la spelta in Svizzera; l’orzo in Norvegia; l’avena in Scozia; il mais nell’America Meridionale.

Da ritrovamenti fatti in Europa si è potuto constatare che i cereali venivano usati come alimentazione già nell’Età della Pietra. Naturalmente questi nostri antichi antenati non confezionavano del pane, ma arrostivano semplicemente i grani che mangiavano tali e quali, oppure li frantumavano. La torrefazione dei grani veniva ottenuta su pietre piatte arroventate e serviva a migliorare il sapore e la digeribilità del grano, e inoltre ne rendeva più facile e duratura la conservazione impedendo il formarsi di muffe. Altri metodi dell’utilizzazione dei cereali erano gli infusi, le polente e le gallette che si possono considerare come gli antenati del pane vero e proprio, che è ottenuto mediante la lievitazione della pasta.

L’infuso consisteva nel lasciare nell’acqua i grani che, in tal modo, diventavano teneri.

Dall’infuso si passò alle polente che saziano maggiormente in quanto contengono in maggior concentrazione le sostanze nutritive dei cereali: esse si ottengono dall’infuso stesso, ma sottraendo la maggior parte di acqua. La pratica dell’infuso fece anche conoscere la birra e le bevande simili, che sono il prodotto della fermentazione che si verifica in un infuso lasciato riposare per lungo tempo (è interessante notare a questo proposito che in molte lingue i nomi di polenta e birra hanno una radice comune).

Le polente di cereali ebbero una larga diffusione, data l’ampia varietà di cereali che si prestano ad essere trasformati in polenta (mentre sono pochissimi quelli adatti alla panificazione). Durante il Medioevo l’alimentazione più comune in Europa era costituita dalle polente, e in particolare dalle polente di miglio. Nel dipinto Banchetto nuziale di Pieter Brueghel (circa 1568), che raffigura un pranzo di nozze in un granaio o pagliaio, vediamo degli inservienti che portano in tavola polente e gallette, che allora costituivano l’alimento essenziale dei contadini. Dopo la scoperta dell’America si cominciò a cucinare in Europa la polenta di mais, una pianta sconosciuta fino allora agli Europei. Un altro tipo di polenta molto diffuso era quello di avena che tuttora viene preparato in alcuni Paesi Europei; coi fiocchi d’avena si prepara il porridge in Inghilterra e l’habermus in Svizzera. Attualmente la polenta viene cucinata in abbondanza in alcuni Paesi dell’Europa Orientale, dell’Asia, dell’Africa e dell’America, ed è uno dei piatti tipici della cucina dell’Italia Settentrionale.

Banchetto nuziale

Pieter Bruegel il Vecchio, Banchetto nuziale, 1568 circa, Kunsthistorisches Museum, Vienna (Austria)

La galletta è invece una specie di polenta che viene fatta arrostire. In tal modo, essa diventa dura e conservabile a lungo (nel passato era infatti il cibo tipico dei soldati); è inoltre più gradevole e digeribile della polenta. È comunque sempre diversa dal pane in quanto non è lievitata. In molti scavi compiuti in strati dell’età neolitica si sono trovati numerosi resti di gallette di miglio e di frumento. Le gallette sono oggi consumate ancora nei Paesi Scandinavi e nelle regioni polari; i Lapponi preparano le loro gallette, dette kako, con farina di segale, grasso di renna e (i Lapponi hanno stomaci buoni!) polvere di corteccia d’albero.

Le focacce venivano ricavate nella valle del Giordano da grano selvatico già 12.000 anni fa, e costituivano un alimento importante per quelle popolazioni, tanto che l’inaridirsi del clima le portò a custodire i semi per piantarli nella stagione più favorevole alla germinazione, il fresco ed umido inverno: nacque così l’agricoltura. Mentre il più antico pane è stato ritrovato in Toscana, e risale sempre all’epoca preistorica; anche se è difficile stabilire una data esatta in cui l’uomo usò per la prima volta la lievitazione dell’impasto che lo rende soffice e, per così dire, «inventò» il pane. È sicuro che i Babilonesi e gli Egiziani conoscevano il procedimento della lievitazione intorno al IV millennio avanti Cristo; affreschi egiziani di 2.000 anni dopo mostrano la raccolta del frumento: uomini dalla pelle bruna, armati di lunghi rastrelli, affastellano le spighe di grano in alti covoni. Erodoto notava l’uso degli Egiziani d’impastare con i piedi; ne venivano fuori pani (quasi certo, per la maggioranza del popolo, di orzo e spelta, essendo il pane di grano riservato ai ricchi) in piccole e tonde pagnotte, o in sfilatini con semi ad una delle estremità, in modo che ricordano l’attuale pane viennese. Gli scrittori greci e romani nelle loro opere ci hanno tramandato che in Grecia si facevano più di trenta tipi di pane diversi (dalla galletta di farina d’orzo disseccata, al vero e proprio pane di farina di grano), segno evidente di quanto, anche a tavola, quella civiltà fosse sviluppata.

Presso i Romani la panificazione raggiunse notevoli progressi: già durante l’età repubblicana, e precisamente nel 168 avanti Cristo, i Romani, consapevoli dell’importanza del pane, delegarono alla magistratura degli edili il controllo dei forni pubblici – che nella città antica di Roma erano oltre 400 – perché la lavorazione e la vendita avvenissero secondo le modalità di legge. E fu proprio a Roma che sorse per la prima volta la bottega del panettiere il quale, solitamente, era anche mugnaio. Un particolare del bassorilievo che orna il sepolcro del fornaio Vergilio Eurisace (età imperiale) a Porta Maggiore a Roma, mostra un uomo intento ad inserire o a togliere del pane da un forno, con una lunga pala perfettamente identica a quelle attuali: se non fosse per la tunica che indossa, lo si potrebbe credere un panettiere dei nostri giorni. Le forme e le qualità di pane erano varie e numerose: vi era il «panis hordeaceus», un cattivo pane d’orzo destinato agli schiavi, il «panis plebeius», fatto con farina e crusca; alquanto migliore era il «panis rotularis» che consisteva in una specie di galletta molto sottile; il pane lievitato ordinario si chiamava «panis fermentatus»; vi era poi il «panis fixus», simile ai nostri pani tostati; venivano poi i pani, che potremmo chiamare di lusso, confezionati con farina più bianca ottenuta dai cereali più fini, come ad esempio il «panis candidus». Ecco una ricetta dell’epoca per preparare pane d’orzo: «Fare un impasto di farina d’orzo e lasciarla lievitare per nove giorni, il decimo giorno lavorarla in forma con succo d’uva di Corinto, indi cuocerla al forno in vasi che si rompono poi. Si può mangiare questo pane solo dopo averlo immerso e mescolato con latte e miele».

L’uso di farine di cereali o di legumi unite all’acqua per fare pani o focacce – spesso cotti anche sotto la cenere – non è però tradizione solo occidentale: reperti archeologici ci dicono che essi erano consumati anche dalle civiltà centroamericane del periodo precolombiano e in Asia.

L’abilità raggiunta dai Romani nell’arte della panificazione andò man mano perdendosi durante le invasioni germaniche. Per buona parte del lungo millennio medievale soltanto i monasteri possedevano panetterie di un qualche rilievo. L’importanza, anche politica, del controllo dei raccolti, delle farine, dei mulini, e quindi del pane, fu comunque chiara a signori e vassalli, che imposero il monopolio delle loro strutture di raccolta, macinazione e cottura, almeno del pane derivato dal grano. Il popolo, tuttavia, continuò per secoli a produrre in casa pane di bassa qualità, ma comunque commestibile, con orzo, avena, miglio e sorgo, cotti o tra le braci del camino. Fu solo con l’epoca comunale che i fornai tornarono ad essere numerosi e, per certi aspetti, anche ben considerati nella scala sociale degli artigiani. In molti Comuni furono istituite corporazioni di fornai, spesso uniti ai mugnai.

Tacuinum sanitatis casanatensis, pane

Preparazione del pane, Tacuinum sanitatis casanatensis (XIV secolo)

La vera grande rivoluzione nel campo della panificazione si ebbe solo nel Rinascimento. Nel pane, fino ad allora lievitato naturalmente, fu introdotto il lievito di birra, prodotto dalla complessa lavorazione di lieviti naturali e malto (il principale ingrediente per produrre la birra): fu grazie a questo lievito e al sempre più massiccio consumo di pane da parte delle classi più agiate che i fornai, nei secoli successivi, diedero libero sfogo alla loro fantasia creativa. Nacquero così non solo nuove forme ma anche tipi diversi di pane: all’olio, al burro, alle olive, alle erbe aromatiche; e poi pani dolci, con le uvette, con il cioccolato, con l’anice. All’inizio dell’epoca moderna nell’Europa Occidentale e Meridionale era comune l’uso del pane di frumento puro, invece nell’Europa Centrale si preferiva il pane misto di frumento e segale; nell’Europa Settentrionale ed Orientale si consumavano pani svariatissimi e, più ancora del pane, polente miste. Gli indiani d’America usavano il bicarbonato di sodio per far lievitare il pane; gli Irlandesi lo impararono da loro e ne portarono l’uso in Irlanda agli inizi dell’Ottocento.

Fino alla seconda metà del Settecento, tuttavia, il lavoro dei fornai era rimasto praticamente immutato. Si erano affinate le farine, era stato introdotto il lievito di birra per rendere i pani più leggeri e morbidi, ma null’altro era cambiato nei forni: confezionamento e lievitazione dell’impasto la sera prima, sveglia in piena notte del fornaio che, all’alba, preparava il forno a legna. Una volta che il forno era giunto alla temperatura necessaria (dai 120 ai 150 gradi centigradi) il fornaio metteva le forme di pane a cuocere, così che di primo mattino poteva già rivenderle alle massaie o ai lavoranti che andavano a bottega.

Non sempre il fornaio compiva l’intero processo produttivo. Era infatti tradizione – durata, in alcuni luoghi anche d’Italia, fino alle soglie della Seconda Guerra Mondiale – che l’impasto si facesse in casa. La sera la massaia preparava la forma di pane e la metteva, avvolta in un panno, a lievitare nella madia, un apposito mobile con apertura ribaltabile. La mattina si recava al forno per farla cuocere e pagava una piccola cifra al fornaio. Il pane di allora, più consistente rispetto a quello di oggi, poteva conservarsi per molti giorni, senza indurire troppo. Così, il «rito» dell’impasto era una mansione che la massaia svolgeva di regola una volta la settimana.

I primi tentativi di meccanizzazione del lavoro del fornaio datano dal 1760[2], ma si rivelarono fallimentari e fu solo a metà Ottocento che furono create le prime vere innovazioni tecnologiche. Nacquero le impastatrici meccaniche – poi sostituite da quelle elettriche –, le spezzatrici, le formatrici. Oggi tutte le fasi della panificazione sono meccanizzate e le macchine hanno sistemi elettronici preimpostati per le varie fasi di lavorazione. Le moderne mietitrici-trebbiatrici mietono e trebbiano il frumento i cui preziosi semi vengono direttamente accumulati in sacchi; nei moderni mulini i grani dei cereali, attraverso procedimenti fatti da macchinari che sembrano usciti da un’industria tessile, vengono privati del germe (spuntatura), decorticati, triturati, ridotti insomma in farina, pronta per diventare forme di pane caldo e croccante. La scienza moderna dà il suo contributo nella panificazione sia sul versante dello studio delle sostanze nutritive dei vari tipi di pane, sia sul versante della ricerca dei mezzi più efficaci per giungere ad una sempre migliore panificazione.


La politica del pane

Il pane è il risultato del lavoro nei campi e del buon esito dei raccolti: l’equilibrio di ogni società si è mantenuto, per millenni, sui raccolti, e soprattutto sul controllo centralizzato delle farine e sulla loro equa distribuzione tra la gente. Ogni volta che le carestie riducevano drasticamente le quantità disponibili di farina, nascevano rivolte popolari, spesso dall’esito tragico. Non a caso, secondo lo scrittore romano Giovenale, gli Imperatori Romani tenevano a bada il popolo mettendo in pratica il motto: «panem et circenses» («pane e giochi del circo», ovvero «cibo e divertimenti»), tra l’altro con elargizioni gratuite di pane al popolo.

Meno attente a questo aspetto, le società medievali registrarono spesso sommosse o rivolte, la cui scintilla era data dall’improvvisa carenza di farine o dall’aumento del costo del pane. Ancora in età moderna, tra le tante, non si può dimenticare la rivolta dei Milanesi nel 1628, descritta magistralmente da Alessandro Manzoni nell’episodio dell’assalto ai forni de I promessi sposi. La rivolta fu causata dall’aumento del prezzo delle farine provocato dalla carestia dell’anno precedente.

In Turchia e in Egitto si giunse a eccessi barbari: nei periodi nei quali il pane raggiungeva prezzi particolarmente elevati, si impiccarono dei fornai; chi risultava colpevole di aver venduto pane adulterato, veniva inchiodato per un orecchio alla porta della sua bottega.

La stessa Rivoluzione Francese ebbe, tra le cause non secondarie, quella della carenza di pane. Famosa, anche se probabilmente inventata dagli stessi ambienti rivoluzionari, la frase che avrebbe pronunciato la Regina Maria Antonietta vedendo davanti al palazzo reale una folla inferocita di Parigini che chiedeva pane: «Se non hanno pane, date loro delle brioches».

Infine, ancora nella seconda metà dell’Ottocento, in Italia fu molto odiata la cosiddetta «tassa sul macinato», introdotta nel 1868 dal Ministro delle Finanze Quintino Sella, poco dopo l’Unità d’Italia, per far fronte alle immani spese del giovane Governo Italiano.


Il pane, cibo sacro

Ma il pane è anche un cibo sacro: dall’antichità, esso è stato esaltato e cantato da poeti ed usato persino come oggetto di sacrificio in numerosi riti. Gli Ebrei, durante i sacrifici, offrivano pane e farina. In Atene le donne offrivano a Cerere, dea delle messi, farina da loro stesse macinata, per ottenere salute e forza. I Romani facevano sacrifici alle divinità con «mola salsa», che era orzo trito con sale. Per invocare l’abbondanza dei prodotti gli Indiani offrivano a Djaus, dio della pioggia, una coppa di polenta d’orzo che versavano nel primo solco tracciato dall’aratro.

La Bibbia inizia col pane e col pane termina. Adamo, dopo il peccato, è condannato a procurarsi con un duro lavoro il pane di cui dovrà nutrirsi: «Con dolore ne trarrai il cibo [dal suolo] / per tutti i giorni della tua vita. / Spine e cardi produrrà per te / e mangerai l’erba dei campi. / Con il sudore del tuo volto / mangerai il pane» (Genesi, 3, 17-19). Nel Vangelo, scritto secoli dopo, leggiamo che Gesù «mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro [agli Apostoli], dicendo: “Prendete, questo è il Mio Corpo”» (Vangelo secondo Marco, 14, 22). Tuttora nella celebrazione della Santa Messa si rinnova ogni volta questo sacrificio divino che si compie con l’ostia consacrata preparata con pane azzimo. Nella preghiera cristiana più bella, il Padre nostro, insegnataci da Gesù stesso, è detto: «Padre nostro che sei nei cieli… dacci oggi il nostro pane quotidiano», intendendo con la parola «pane» tutto il cibo necessario alla vita.


Note

1 Nel pane si trova una buona parte degli elementi che sono indispensabili per lo sviluppo ed il mantenimento dell’organismo umano: idrati di carbonio (che forniscono energia e calore al corpo, inoltre la loro presenza permette al nostro organismo di utilizzare completamente le proteine contenute negli altri cibi), zucchero, proteine, sali minerali, alcune vitamine.
100 grammi di pane contengono in media: 7-9,5 grammi di proteine; 0,5-1 grammo di grassi; 60 grammi di amido. Il valore dinamico di 100 grammi di pane corrisponde a 250-300 calorie.

2 I Romani usavano già una rudimentale impastatrice meccanica, illustrata nel monumento al già ricordato Vergilio Eurisace: era costituita da un truogolo circolare e da un agitatore collegato a un albero verticale mosso da un maneggio a cavalli. A Pompei sono state trovate impastatrici formate da vasche di pietra, a sezione circolare, nelle quali si muoveva un grosso pezzo di legno, verticale, che portava tre pezzi trasversali. Alle pareti della vasca erano fissati pioli sporgenti, destinati a contrariare il movimento. In Spagna, sotto il nome di «brega», e nell’Italia Meridionale sotto altri nomi («sbria», in Sicilia) per la seconda fase dell’impastamento si usava un apparecchio simile alla gramola a stanga, costituito da una tavola levigata e da una stanga fulcrata alla tavola stessa. In un altro modello medievale di questo apparecchio, usato anticamente in Inghilterra, la stanga era mossa indirettamente, per mezzo di un sistema articolato di due leve. Questi apparecchi servivano a completare l’impastamento, come la gramolatura della pasta; con essi si otteneva una pasta dura, non aerata.

(luglio 2014)

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